Violenze endofamiliari

La violenza domestica è fisica, psicologica e sessuale. Quali misure per la tutela del minore e della donna?

Decliniamo gli ambiti di espressione e di collocazione dei comportamenti che riconducono le persone nella dinamica della violenza domestica, premettendo la definizione che ne fa l’organizzazione Mondiale della Sanità , secondo la quale la violenza domestica è ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale, che riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo.

Inserendo i dati successivamente illustrati nella giusta cornice giuridica, possiamo individuare il soggetto agente, la fattispecie parentale ed ancora la conoscenza diretta delle conseguenze cui detti comportamenti mirano.

Come noto, a partire dalla Legge n. 154/2001 denominata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari“, è stata introdotta la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare prevista dall’art. 282 bis c.p.p., misura che va ad ampliare il ventaglio delle misure cautelari e che, di recente, è stata prevista anche con una morfologia di misura precautelare (art. 384 bis c.p.p.), vale a dire di allontanamento d’urgenza

Prima ancora dell’affermazione del nuovo concetto di famiglia, e quindi della pluralità delle forme delle stesse non necessariamente stigmatizzate all’interno di una famiglia-tipo, l’introduzione nel nostro codice degli ordini di protezione all’art. 342-bis cc. andava ad individuare il “disturbatore” in chiunque limitasse la libertà dell’altra persona quale diritto fondamentale, quindi anche l’estraneo, quindi anche il convivente, quindi anche il familiare in ordine diverso di relazione, preferendo l’elemento della convivenza su ogni altro. I presupposti  quindi sono :

la convivenza ed una  condotta gravemente pregiudizievole all’integrità fisica, morale e/o alla  liberta’ personale.

 L’applicazione delle misure di protezione presuppone che la vittima ed il soggetto cui viene addebitato il comportamento violento vivano all’interno della medesima casa, in quanto l’art. 5 della L. 154/2001 fa esclusivo riferimento al nucleo costituito dai familiari conviventi (Cfr. Tribunale di Rieti, sentenza 6/03/2006, in Fam. Pers. Succ., 2007, 7, 606. Conformi, sul punto, Tribunale di Napoli, sentenza 1/02/2002, in Famiglia e Diritto, 2002, 5, 504; Tribunale di Napoli, sentenza 18/12/2002, in Gius., 2003, 2, 230)

Per la verità in talune ipotesi come lo stalking e come lo stesso 342 bis secondo alcune pronunce di merito i provvedimenti detti possono intervenire e concretizzarsi anche a convivenza interrotta perché il bene protetto è appunto la libertà di espressione della persona. (Trib. Napoli 19/12/2007 – Trib. Bologna 22/03/05).

Il concetto di libertà di espressione della persona si è radicato nella giurisprudenza di legittimità e di merito attraverso una ricostruzione progressiva dei diritti costituzionalmente garantiti laddove lentamente e attraverso riforme significative che hanno avuto il coraggio di leggere i mutamenti antropologici, il diritto della famiglia si è trasformato in diritto delle persone componenti la famiglia, nel senso che il bene famiglia non può più prevalere sull’interesse e sulle priorità dei singoli componenti la stessa.

Un sentenza bellissima del 2001 della Cassazione ci ricorda che la famiglia non è più un’istituzione verticistica, ma “un luogo di fioritura delle singole originalità”. In quest’ottica vanno rivisitati i diritti e i doveri coniugali e/o dei conviventi,  i diritti e doveri dei genitori verso i figli e i diritti e i doveri dei figli verso i genitori. Il benessere è quindi soddisfatto soltanto dalla capacità di favorire un processo di crescita e di autoresponsabilità di ciascuno.

Tutto ciò che interferisce con questo quadro normativo o con questi comportamenti è VIOLENZA.

Violenza è non amare, non curare, non assistere, non sostenere economicamente, non rispettare.

Violenza è umiliare, sottomettere, confondere, abdicando ai propri ruoli di compagni, genitori e quant’altro.

La violenza è una “comunicazione”. E la complessita’ del fenomeno e’ data proprio dalla disfunzionalita’ della relazione che ne e’ alla base.

L’effetto è quello di controllare emotivamente a volte anche fisicamente una persona che fa parte del nucleo familiare.

Le condizioni di chi subisce violenza sono tanto più gravi quanto più la violenza si protrae nel tempo o quanto piu esiste un legame consanguineo tra l’aggressore e la vittima.

Gli indicatori che si riscontrano nella persona vittima di violenza sono la perdita dell’identità e dell’autostima correlati a minacce, isolamento, perdita della rete amicale (il famoso vuoto attorno), silenzio, indifferenza, non soddisfare i bisogni essenziali, costringere alla dipendenza economica e/o all’assunzione di impegni finanziari, vietare o impedire il lavoro o la formazione, atteggiamenti che rendono possibile una sottomissione ad un modello di vita non profondamente condiviso né scelto e inducono la persona a subire conseguenze devastanti dall’interruzione violenta del proprio progetto di vita che viene praticamente annullato.

Accanto a queste manifestazioni ci sono poi gli episodi e/o i comportamenti reiterati a sfondo sessuale imposti contro la volontà del partner che comportano ogni forma di denigrazione sessuale sino allo stupro. Quando questi comportamenti si verificano all’interno di un nucleo convivente con figli minori si parla della “violenza assistita” che e’ un vero e proprio abuso.

Nel 1978 il Consiglio d’Europa  fornisce una definizione sostenendo che:

“l’abuso è rappresentato dagli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino, che attengono alla sua incolumità corporea, al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cure del bambino”.

Il genitore che si trova nelle condizioni di essere a sua volta maltrattato e/o in una condizione costante di infelicità e/o di incapacità a superare lo stallo conseguente all’”attacco” è un genitore che inevitabilmente coinvolge il bambino in situazioni assolutamente destabilizzanti perché diventa incomprensibile e non decodificabile il pati da un lato e il facere dall’altro. E’ ovvio che il danno del minore è un danno più forte perché interferisce con l’equilibrio psico-fisico e con la crescita serena.

Questi descritti sono “fatti” che incidono sulle relazioni familiari e sulle decisioni del giudice civile non necessariamente riconducibili ad ipotesi di REATO, gestiti il più delle volte dall’intervento di urgenza dei carabinieri, dei servizi o anche dai Centri Antiviolenza CAV.

 

Esiste pero un ALTRO TIPO di violenza meno eclatante, ma forse ancor più persistente e dannosa ed è quella che si può svolgere nel processo della separazione di genitori e/o di regolamentazione dell’accesso dell’altro genitore.

Le ipotesi sono quelle del genitore alienato, quello del genitore che abdica al proprio ruolo per un conflitto con l’altro, non esercitando a soddisfazione assistenza morale e materiale, non visitando adeguatamente il figlio, non trattenendolo presso di se, non avendo verso lo stesso un atteggiamento empatico e di lettura dei suoi bisogni.

Sembrano situazioni apparentemente opposte, ma in realtà producono lo stesso effetto e hanno la stessa matrice di violenza psicologica nella misura in cui, mettendo al centro il proprio conflitto e le proprie individualità, i genitori  isolano il figlio facendo in modo che lo stesso non possa considerarli punti di riferimento, ma in molti casi favorendo un inversione di ruoli (i figli protettivi, sostitutivi, consolatori che non hanno spazio per la loro crescita e per i loro percorsi).

I provvedimenti dall’ammonimento alla sanzione ed alle limitazioni della responsabilità genitoriale di cui all’art. 709 ter rispondono all’esigenza di “dissuadere” dall’ulteriore verificarsi della condotta pregiudizievole. In quest’ottica l’ulteriore applicazione delle sanzioni di cui al 614 c.c.

Tale norma è stata inserita dalla legge 69/2009 che ha previsto uno strumento di coercizione indiretta al fine di incentivare l’adempimento spontaneo degli obblighi che non risultano facilmente coercibili. La norma, infatti, prevede in capo al soggetto inadempiente l’obbligo di pagare una somma di denaro, al fine di indurlo a realizzare la sua obbligazione.

Il giudice, previa richiesta della parte, unitamente al provvedimento di condanna ad un fare o a un non facere, fissa una somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, al fine di esercitare una pressione psicologica sulla parte obbligata in modo tale da indurlo all’adempimento spontaneo.

Nel determinare la somma dovuta per ogni violazione, il giudice dovrà tenere conto di alcuni parametri come il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o quello prevedibile, le condizioni personali e patrimoniali delle parti, accanto ad ogni altra circostanza utile.

La giurisprudenza di merito piu’ recente ha ritenuto applicabile tale norma in materia di diritto di famiglia “con la precisazione che la tutela del superiore interesse del minore cui l’obbligo di cooperazione genitoriale e’ sotteso consente a differenza del procedimento esecutivo in cui e’ regolamentata l’attuazione di un diritto di credito per sua natura disponibile, l’applicabilita’ d’ufficio della sanzione volta sotto forma di dissuasione indiretta alla cessazione del protrarsi dell’inadempimento degli obblighi familiari che attesa la loro natura personale e indisponibile non sono di per se’ suscettibili di esecuzione diretta” In questi termini  Tribunale Milano sez. IX sent. 7/1/2018; Tribunale di Napoli Nord sez. 1 sent. 26-7-2017 Tribunale Roma sez. 1 sent. 27/06/2014 – Tribunale Napoli Nord  ord. 15/3/2018 –

Associare quindi la tutela delle donne e del minore all’interno della famiglia sembra essere la risposta più efficace ad un fenomeno purtroppo pericolosamente in crescita, iniziando dai bambini e quindi da una capacità educativa particolare.

Secondo l’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo l’educazione, oltre ad essere un diritto fondamentale è decisiva per il riconoscimento dei diritti civili, politici, economici, sociali, culturali e di solidarietà. E’ importante quindi, per educare ai diritti umani, rispettare questi diritti nella vita quotidiana.

La famiglia nelle diverse forme in cui si presenta è il contesto principale dei processi di socializzazione e di trasmissione culturale tra le generazioni. Da essa deriva qualsiasi forma di riproduzione culturale e le sono attribuite funzioni educative che contribuiscono in modo decisivo al processo di formazione della persona. La famiglia è il primo agente di controllo sociale che dovrebbe restringere le alternative di comportamento a quelle socialmente approvate.

Si parla di diritti RELAZIONALI perché attraverso l’educazione i minori possano entrare in contatto nel pieno rispetto con l’esterno da se e considerarlo parte della propria vita relazionale, declinando in quest’ottica la possibilità di contenere l’amore per il prossimo sia come individuo, sia nei contesti sociali in cui si esprime, affinando l’accoglienza, i comportamenti antidiscriminatori, il rispetto del diverso, perché attraverso la relazione e la partecipazione attiva possa allargare il proprio mondo interno.

L’ incidenza della capacità educativa di un genitore è non solo d’interesse pubblico per la formazione del nuovo cittadino, ma soprattutto deve tendere ad interrompere quei cicli disperati in cui un minore, soggetto anche indiretto di violenza, possa poi da adulto esprimere le stesse modalità danneggiando irreparabilmente la propria vita e perseguendo inesorabilmente un modello dal quale non sia stato aiutato ad affrancarsi.

Quindi il primo mezzo di tutela è l’EDUCAZIONE al rispetto di se’ e degli altri a riconoscere l’amore positivo attraverso l’esperienza di cura quando tutto questo per fatti assolutamente improvvisi, ma anche contenuti all’interno di uno spazio ben definito (quale quello della separazione) viene meno e’ compito delle istituzioni, dei servizi e di quant’0altri si impattino con il nucleo disagiato ad intervenire tempestivamente e con mezzi adeguati affinché le relazioni si curino e si riparino. L’intervento infatti in primis deve essere salvifico delle relazioni familiari, protettivo per conservare la propria identità e le proprie origini. Soltanto in un momento successivo, e all’esito di verifiche purtroppo non positive, si può pensare di interrompere la relazione genitoriale per dare al minore un’altra possibilità di crescita.

Il processo che vede coinvolto questo nucleo familiare,  NUCLEI DISAGIATI MA NON COLPEVOLI DI REATI, deve essere necessariamente sinergico con i servizi ed efficace nei provvedimenti e nei tempi perché il radicarsi di una condotta negligente e trascurante renderebbe vanifico/vano ogni provvedimento finale.

I mezzi di tutela nelle varie declinazioni (ordine di protezione, allontanamento del minore, percorsi di sostegno alla genitorialità, potere e discrezione del Centro antiviolenza) in uno alla giurisprudenza di legittimità e di merito che ne hanno sostenuto l’efficacia e ne hanno letto i limiti devono essere letti necessariamente in contemporanea all’esperienza sul territorio, ai dati che veramente emergono dai Tribunali, all’incidenza dei provvedimenti sul recupero e/o allo smarrimento esistenziale dei minori protagonisti di storie di dolore familiare.

Sarebbe interessante approfondire l’efficacia degli strumenti che il sistema ci offre per interrogarci e capire se all’interno di un mutato sistema di interazione di valori e di conoscenze essi siano ancora validi o se necessitano di una rilettura – pensavo ad esempio all’approvazione, ancora ritardata, dei LIVEAS come strumento di tutela del cittadino, alle linee guida approvate dall’Ordine Nazionale degli assistenti sociali e dalle Procure dei Tribunali per i Minori sull’allontanamento familiare e sulla necessità di informazione del Minore, ancora alla disciplina dei collocamenti in Casa Famiglia e ai criteri di individuazione delle stesse allorché un minore coinvolto in un conflitto familiare “viene messo in protezione” e per questo sradicato dal suo contesto amicale-relazionale e scolastico e ospitato in territori lontanissimi, costretto a cambiare tutte le sue abitudini di vita, ANCHE QUELLE SANE, anche quando il collocamento è solo temporaneo, sostenuto esclusivamente dall’organizzazione interna della struttura.

Accettare che qualsiasi provvedimento, anche quello cautelare, incidera’ sulla vita e sullo sviluppo del minore , orientera’ certamente ad evitare ricadute negative in termini dell’altro emergente fenomeno del maltrattamento istituzionale.

Nata a Napoli il 24/08/55 si e’ laureata in giurisprudenza nel 1982, presso l’Universita’ di Napoli,  discutendo una tesi finale sperimentale sull’imputabilita’ dei tossicodipendenti alla luce della L. basaglia.
Segue il corso biennale del CRF di animatore di comunita’ psichiatrica discutendo la tesi finale Il nuovo concetto di salute mentale.
Segue master Psicologia della comunicazione
Segue il corso seminariale biennale Mediazione familiare, conflittualita’ di coppia e responsabilita’ genitoriale presso l’Universita’ degli Studi di Napoli, discutendo la tesi finale La mediazione familiare, storia e modalita’ di approccio (2003)
Segue il master in diritto di famiglia presso il CEIDA in Roma e discute la tesi finale La genitorialita’ giuridica e le liberta’ fondamentali(2005).

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