Agenti di commercio: indennità anche in prova

Agli agenti di commercio spettano risarcimenti e indennità anche se il
contratto viene rescisso durante il periodo di prova.

Gli agenti di commercio hanno diritto a percepire l’indennità e il
risarcimento di eventuali danni anche qualora la cessazione del
contratto avvenga durante il periodo di prova.
Lo specifica la Corte di Giustizia UE con la sentenza del 19 aprile
2018 relativa alla causa C 645/16, analizzando la vicenda relativa a un
contratto stipulato tra due società per la vendita di unità immobiliari che
prevedeva un periodo di prova di un anno, durante il quale ciascuna
delle due parti aveva diritto di procedere alla risoluzione con preavviso.
La risoluzione del contratto è di fatto arrivata in seguito al mancato
conseguimento dell’obiettivo prefissato.

Una direttiva dell’Unione Europea afferma che l’agente commerciale ha
diritto a un’indennità o al risarcimento del danno in seguito della
cessazione del contratto, tuttavia questa normativa non menziona il
periodo di prova. Secondo la Corte, interpellata in merito
all’applicazione della regolamentazione, il periodo di prova non viene
citato ma neanche vietato, chiarendo anche come la disciplina
dell’indennità e del risarcimento del danno sia volta non a sanzionare la
risoluzione del contratto ma:
“ad indennizzare l’agente commerciale per le prestazioni compiute di
cui il preponente continui a beneficiare anche successivamente alla
cessazione dei rapporti contrattuali ovvero per gli oneri e le spese
sostenuti ai fini delle prestazioni medesime.”

Di conseguenza, all’agente non possono essere negati l’indennità o il
risarcimento anche se la cessazione del contratto di agenzia commerciale
ha avuto luogo durante il periodo di prova, fermo restando che per
ottenere entrambe le spettanze si verifichino determinate condizioni.

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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Tribunale Catania, sez. lav. 16/01/2018 n. 155

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE CIVILE DI CATANIA – SEZIONE LAVORO –

Il Giudice Monocratico, in funzione di Giudice del Lavoro, nella persona della dott.ssa
Lidia Zingales, all’udienza del 16 Gennaio 2018 ha pronunciato, ai sensi dell’art. 429,
comma 1 c.p.c. come sostituito dall’art. 53 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito
dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, dando lettura del dispositivo e dell’esposizione delle
ragioni di fatto e di diritto della decisione, la seguente

SENTENZA
Nella causa civile iscritta al n. 9397 del ruolo generale affari contenziosi dell’anno
2011 e vertente
TRA
T.F.D. S.p.A (già O. S.p.A.), in persona del legale rappresentante p.t., c.f. (omissis…), con
sede in R. (M.), Strada (omissis…), rappresentata e difesa per mandato speciale alle liti n.
12613 del 27.09.2011, a rogito in Notar N.M. di M., dagli avv.ti Cl. Bo. e Aldo
Lorenzo Feliciani del Foro di Milano, ed elettivamente domiciliata in Catania, via G. B.
Grassi n. 8, presso l’avv. Francesco Andronico.
Opponente
CONTRO
B.D., nato a C. il (omissis…), c.f. (omissis…), ivi domiciliato in via (omissis…), ed
elettivamente domiciliato in Ca., via (omissis…), presso lo studio dell’avv.
Vincenzo Gueli, che lo rappresenta e difende per mandato a margine del ricorso per
decreto ingiuntivo n. 7053/2011 R.G. del Tribunale di Catania.
Opposto
OGGETTO: Opposizione a decreto ingiuntivo n. 1916/2011.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso al Tribunale Ordinario di Catania, in funzione di giudice del lavoro, depositalo 07.09.2011, la società ricorrente proponeva opposizione al decreto ingiuntivo in epigrafe indicato ed emesso il 21.07.2011 e notificato il 10.08.2011, con cui l’opposto chiedeva il pagamento della somma di € 21.356,34, oltre interessi legali, rivalutazione e spese del monitorio.
L’opponente società premetteva che con l’opposto B.D. era intercorso un rapporto di agenzia dall’1.03.1996 fino al 21.01.2011, allorquando il rapporto cessava per volontà dell’agente che aveva esercitato il diritto di recesso di cui all’art. 2, comma 10, dell’A.E.C. Precisava che nel luglio 2010 a seguito dell’andamento del fatturato in Sicilia la società aveva ridistribuito le zone tra gli agenti e ciò aveva comportato un restringimento di quella dell’opposto, che così aveva deciso di recedere dal contratto.
Deduceva che, eseguiti i conteggi, era stato quantificato l’importo dovuto all’opposto a titolo di indennità di fine rapporto facendo applicazione dell’art. 12 dell’A.E.C. L’opposto a seguito della trasmissione dei conteggi comunicava che l’importo quantificato veniva accettato solo a titolo di acconto sul maggior avere e rifiutava di sottoscrivere il verbale di conciliazione per come previsto dall’A.E.C.
Chiedeva alla luce di quanto sopra dichiararsi non dovute le somme ingiunte stante la mancata sottoscrizione del verbale di conciliazione e la revoca del decreto ingiuntivo, con ogni statuizione in ordine alle spese.
Instaurato ritualmente il contraddittorio, si costituiva l’opposto B.D., il quale rilevava come l’opposizione non fosse fondata su prova scritta e l’importo ingiunto era pari a quello comunicato dalla società opponente che lo aveva elaborato sui conteggi trasmessi dalla stessa società. Lamentava che l’importo fosse solo una parte dell’importo spettante all’opposto qualora fosse stato conteggiato ai sensi dell’art. 1751 c.c., che doveva comunque ritenersi inderogabile e prevalente sulla disciplina pattizia, precisando che andava applicato il C.C.N.L. del 2002 e non quello del 2009, poiché non espressamente recepito dall’opposto.
Concludeva chiedendo il rigetto dell’opposizione con la conferma del decreto ingiuntivo e con vittoria di spese e competenze.
Con ordinanza del 19.12.2011 veniva rigettata la richiesta di concessione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo.
Anticipata l’udienza per la trattazione del merito del giudizio, con ordinanza del 14.07.2012 veniva concessa la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto e la causa, istruita documentalmente, veniva rinviata per discussione e decisione, con la concessione di un termine per note conclusive.
Con provvedimento della presidenza sezionale di questo Tribunale del 06.09.2017, il sottoscritto giudicante, veniva incaricato della trattazione del presente giudizio, che chiamato all’udienza già fissata veniva differito per la discussione e decisione.
Chiamato all’odierna udienza, sulle conclusioni rassegnate dalle parti come in atti ed all’esito della discussione, veniva pronunciata la presente sentenza, della quale è stata data lettura del dispositivo e dell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.
Preliminarmente non può ritenersi condivisibile la tesi sostenuta dall’opposto che al caso di specie si applica il C.C.N.L. del 26 febbraio 2002 e non quello stipulato il 16.02.2009.
Infatti, per costante esegesi giurisprudenziale, ai rapporti – qualora essi fanno riferimento per la loro disciplina ai contratti collettivi – si applica il C.C.N.L. vigente al momento della cessazione del rapporto e quindi nel caso di specie si applica quello del 16.02.2009 vigente alla data del 21.01.2011 di cessazione del rapporto tra le parti.
Prima di esaminare i motivi di opposizione è necessario esaminare il quadro normativo di riferimento.
L’agente, al termine del contratto d’agenzia, ha diritto a ricevere dal preponente una indennità di fine rapporto che risulta regolata dall’art. 1751 c.c., modificato dai D.Lgs. n. 303 del 1991 e D.Lgs. n. 65 del 1999, che hanno recepito la direttiva n. 86/653/CEE.
Prima che intervenissero le modifiche legislative, l’articolo in questione stabiliva che: “all’atto dello scioglimento del contratto a tempo indeterminato, il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità proporzionale all’ammontare delle provvigioni liquidategli nel corso del contratto e nella misura stabilita dagli accordi economici collettivi, dai contratti collettivi, dagli usi o, in mancanza, dal giudice secondo equità” (testo introdotto dalla L. n. 911 del 1971).
L’indennità era dunque dovuta a prescindere dagli eventi che caratterizzavano il rapporto negoziale, così che la posizione dell’agente veniva avvicinata – sotto il profilo in esame – a quella del lavoratore subordinato avente diritto a ricevere sempre il trattamento di fine rapporto.
Ad integrare l’articolo in esame intervenivano, secondo il disposto legislativo, gli accordi economici collettivi.
Questi disciplinavano e disciplinano tuttora l’indennità di cessazione del rapporto prevedendo due distinte voci, del tutto svincolate da ogni valutazione meritocratica circa l’attività prestata dall’agente (Cfr.: Cass. 716/88;
4955/88;
4586/91):
1) il c.d. F.I.R.R. (fondo indennità risoluzione rapporto) o indennità di scioglimento del rapporto, da corrispondere sempre e comunque all’agente alla cessazione dello stesso, con liquidazione a carico dell’Enasarco presso cui il preponente – durante il contratto, anno per anno – deve accantonare le relative somme da determinarsi in percentuale sulle provvigioni. Il F.I.R.R. viene riconosciuto anche se non c’è stato, da parte dell’agente, alcun incremento di clientela/fatturato e viene determinato, nella misura, dagli stessi A.E.C.;
2) la c.d. Indennità suppletiva di clientela, in aggiunta al F.I.R.R. da corrispondere solo se il contratto si scioglie su iniziativa del preponente per fatto non imputabile all’agente (così ad es. AEC 27.11.92), con liquidazione a carico del preponente (cfr.: Cass. 4586/91; 6114/88).
L’indennità – anch’essa calcolata sulla base delle provvigioni maturate – ha origine esclusivamente collettiva, con la conseguenza che spetta solo agli agenti il cui rapporto contrattuale sia regolato, direttamente o per relationem, dagli A.E.C. (Cfr.: Cass. 2126/01; 4586/91; 6114/88).
Il sistema sopra descritto è stato pesantemente modificato prima dal D.Lgs. n. 303 del 1991 e successivamente dal D.Lgs. n. 65 del 1999 i quali, come si è anticipato, hanno dato attuazione alla direttiva comunitaria n. 653 del 1986, dando un volto nuovo all’art. 1751 c.c. ovvero all’indennità dovuta all’agente al termine del contratto.
Attualmente, infatti, la norma del codice stabilisce che – all’atto della cessazione del rapporto – il preponente è tenuto a corrispondere all’agente un’indennità se:
a) “l’agente abbia procurato nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti”;
b) “il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti”.
Oggi, in sostanza, si richiede la persistenza – al momento della cessazione del rapporto – di un portafoglio clienti procurato dall’agente, del quale approfitta la casa mandante. In quest’ottica, la prima condizione considera il vantaggio che il preponente ricava dalla disponibilità di questo portafoglio; la seconda considera la perdita, in termini di provvigioni, che l’agente subisce dalla cessazione del rapporto.
Peraltro, il diritto all’indennità è subordinato alla presenza di entrambe le condizioni esposte (apporto clientela ed equità), considerato che la modifica dell’art. 1751 c.c. introdotta dal D.Lgs. n. 65 del 1999 lo ha ancorato a criteri prettamente meritocratici (Cfr.: Cass. 5467/2000, che sottolinea come le due condizioni siano cumulative e non alternative).
L’art. 1751 c.c. nella nuova formulazione stabilisce ancora che:
– l’indennità non è dovuta quando il preponente risolve il contratto per grave inadempienza dell’agente che, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto oppure quando l’agente recede dal contratto, a meno che il recesso sia giustificato da circostanze per le quali non può essergli chiesta la prosecuzione dell’attività (es. malattia);
– il relativo importo non può superare una cifra pari ad una indennità annua calcolata sulla base della media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi 5 anni e, se il contratto risale a meno di 5 anni, sulla media del periodo in questione;
– le disposizioni in esso contemplate non possono essere derogate a svantaggio dell’agente.
Orbene, sia questa inderogabilità, sia – più in generale – la natura meritocratica assunta dall’indennità a seguito delle riforme introdotte, hanno fatto sorgere il problema della compatibilità del nuovo sistema con le disposizioni degli accordi collettivi i quali, come si è detto, prevedevano degli emolumenti automaticamente erogabili senza alcun requisito di merito.
D’altra parte, il fatto che l’art. 1751 c.c. non contenga alcuna determinazione circa il quantum della indennità, precisando solo il tetto massimo della stessa (“l’importo della indennità non può superare…”), può far nascere diversi problemi circa la specificazione degli importi spettanti all’agente.
In merito a tali questioni la giurisprudenza ha stabilito che la riformata disciplina dell’indennità di fine rapporto può essere derogata dalla contrattazione individuale e collettiva, purché ovviamente non a svantaggio dell’agente (Cfr.: Cass. 10659/2000). Può quindi essere consentita alla contrattazione collettiva una deroga pattizia dei criteri di cui all’art. 1751 c.c., poiché l’inderogabilità ivi prevista è solo in peius (Cfr.: Cass. 11402/2000).
Rimane comunque controverso il rapporto tra l’art. 1751 c.c. e gli accordi collettivi, dato che il problema fondamentale consiste nello stabilire se questi prevedano complessivamente una disciplina più favorevole di quella codicistica.
Sul punto si fronteggiano prevalentemente due orientamenti opposti. Secondo il primo, la validità degli accordi collettivi va valutata ex post, dopo la cessazione del rapporto, quando è possibile stabilire in concreto se ed in che misura spetta l’indennità ex art. 1751 c.c. Pertanto, le disposizioni degli A.E.C. saranno valide solo ove non sussistano i presupposti dell’art. 1751 c.c., mentre saranno nulle laddove – sussistendo la dimostrazione di detti presupposti – comportino in concreto un trattamento inferiore a quello del codice (Cfr.: Trib. Napoli 13.10.2001; conformi Trib. Piacenza 6.6.2002; Trib. Milano 11.10.2001; Trib. Treviso 21.06.2001).
Per il secondo orientamento, invece, la valutazione va effettuata ex ante e nei confronti dell’intera categoria degli agenti, per cui gli A.E.C. – prevedendo indennità non meritocratiche ma sempre erogabili – comporterebbero sempre un trattamento più favorevole dell’art. 1751 c.c. e dunque prevarrebbero sempre sul codice (Cfr.: Trib. Torino 06.07.2001; conformi, Trib. Palermo 16.05.2002; Trib. Firenze 22.04.2002; Trib. Milano 09.06.2000).
Di fatto, comunque, i nuovi accordi economici collettivi del 2002 (AEC 26.2.2002 settore commercio – AEC 20.3.2002 settore industria) ripropongono le due voci standard costituite dal F.I.R.R. e dall’indennità di clientela; dichiarano programmaticamente di costituire un’applicazione dell’art. 1751 c.c. e di creare “… complessivamente una condizione di miglior favore rispetto alla disciplina di legge”, dando ovviamente credito alla seconda delle tesi poc’anzi esposta.
In quest’ottica, introducono una terza voce “meritocratica”, ovvero un’ulteriore indennità da corrispondere se l’agente ha apportato nuovi clienti e/o sensibilmente sviluppato gli affari con quelli esistenti: e questo con il chiaro scopo di tradurre in pratica lo spirito della riforma comunitaria proprio al fine di “riequilibrare” i rispettivi vantaggi economici che le parti del contratto di agenzia hanno tratto dal rapporto.
Ebbene, nella giurisprudenza di legittimità si sono verificati orientamenti contrapposti circa la valutabili in astratto ed ex ante ovvero in concreto ed ex post del trattamento di maggior favore per come sopra esposto, per cui con ordinanza del 18.10.2004 n. 20410 la Corte di Cassazione ha ritenuto necessario investire la Corte di Giustizia delle Comunità Europee della questione pregiudiziale relativa all’interpretazione degli artt. 17 e 19 della direttiva 86/653 del Consiglio del 18.12.1986; apparendo necessario chiarire, in particolare, se, con riguardo alle finalità dell’art. 17 cit. il successivo art. 19 della medesima direttiva sia interpretabile nel senso che la normativa nazionale di attuazione possa consentire che un accordo economico collettivo preveda, invece che un’indennità dovuta all’agente nel concorso delle condizioni previste dal paragrafo n. 2 dell’art. 17 cit. e liquidabile secondo i criteri desumibili dal medesimo, un’indennità che sia determinata senza alcun riferimento specifico all’incremento degli affari procurato dall’agente, sulla base di determinate percentuali dei compensi ricevuti nel corso del rapporto, sicché la stessa indennità, anche in presenza della misura massima dei presupposti cui la direttiva collega il diritto all’indennità, in molti casi sia liquidata in misura inferiore a quella massima prevista dalla direttiva.
Con sentenza 23.03.2006, in causa C-465/04, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha deciso sulla domanda di pronuncia pregiudiziale statuendo che:
– l’art. 19 della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, deve essere interpretato nel senso che l’indennità di cessazione del rapporto che risulta dall’applicazione dell’art. 17, n. 2, di tale direttiva non può essere sostituita, in applicazione di un accordo collettivo, da un’indennità determinata secondo criteri diversi da quelli fissati da quest’ultima disposizione, a meno che non sia provato che l’applicazione di tale accordo garantisce, in ogni caso, all’agente commerciale un’indennità pari o superiore a quella che risulterebbe dall’applicazione della detta disposizione.
– all’interno dell’ambito fissato dall’art. 17, n. 2, della direttiva 86/653, gli Stati membri godono di un potere discrezionale che essi sono liberi di esercitare, in particolare, con riferimento al criterio dell’equità.
La decisione contiene in particolare le seguenti proposizioni.
L’art. 19 della direttiva prevede la possibilità per le parti di derogare alle disposizioni dell’art. 17 prima della scadenza del contratto, a condizione che la deroga prevista non sia sfavorevole all’agente commerciale. E’ quindi giocoforza constatare che la natura sfavorevole o meno della detta deroga deve essere valutata al momento in cui le parti la prevedono. Queste ultime non possono convenire una deroga di cui esse ignorano se si rivelerà, alla cessazione del contratto, a favore ovvero a scapito dell’agente commerciale.
L’art. 19 va, pertanto, interpretato nel senso che una deroga alle disposizioni dell’art. 17 può essere ammessa solo se, ex ante, é escluso che essa risulterà, alla cessazione del contratto, a detrimento dell’agente commerciale.
Come già rilevato dalla Cassazione, con sentenza n. 21309 del 03.10.2006, il sopra richiamato contrasto giurisprudenziale deve essere superato con l’abbandono dell’indirizzo maggioritario (seguito dalla sentenza impugnata) e l’affermazione del seguente principio di diritto: “l’art. 1751 c.c., comma 6, si interpreta nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive”.
Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza (Cfr.: Cass. n. 7567 del 01.04.2014) l’articolo 1751 c.c., comma 6, si interpreta nel senso che il giudice deve sempre applicare la normativa che assicuri all’agente, alla luce delle vicende del rapporto concluso, il risultato migliore, siccome la prevista inderogabilità a svantaggio dell’agente comporta che l’importo determinato dal giudice ai sensi della normativa legale deve prevalere su quello, inferiore, spettante in applicazione di regole pattizie, individuali o collettive”.
Vi è quindi la necessità che la valutazione del carattere di maggiore favore, o non, delle indennità di fine rapporto, previsto dagli accordi collettivi rispetto alla disciplina legale, sia effettuata in concreto ed ex post (cioè dopo che il rapporto di agenzia è cessato), e non ex ante.
Ciò posto in termini generali e passando all’esame dei motivi di opposizione, si rileva come la società opponente non contesta il quantum portato dal decreto ingiuntivo, atteso che coincide con la somma quantificata dalla stessa in applicazione dell’A.E.C. e comunicata all’opposto, bensì il suo obbligo di pagamento in mancanza di sottoscrizione del verbale di conciliazione, per come previsto dalla “dichiarazione a verbale n. (omissis…)” all’art. 12 del citato A.E.C. del 2009.
Né può ritenersi che sia oggetto del presente giudizio l’accertamento della diversa entità del trattamento di fine rapporto ai sensi dell’art. 1751 c.c., in quanto il petitum in questa sede è delimitato dall’oggetto del decreto ingiuntivo, con il quale è stato richiesto il trattamento di fine rapporto limitatamente alla somma derivante comunque dall’applicazione dell’A.E.C. ed essendo inammissibile in questa sede la proposizione di una domanda riconvenzionale da parte dell’opposto in tal senso.
L’art. 12 del A.E.C. del 2009 prevede che l’indennità di fine rapporto è composta da tre emolumenti: il primo, denominato “indennità di risoluzione del rapporto”, riconosciuto all’agente anche se non ci sia stato alcun incremento della clientela o del fatturato e risponde principalmente al criterio di equità; il secondo, denominato “indennità suppletiva di clientela”, riconosciuto ed erogato all’agente secondo le modalità di cui al successivo capo II ed anche tale emolumento corrisponde al principio di equità e non necessità ai fini della sua erogazione la sussistenza della prima delle condizioni indicate dall’art. 1751, comma 1, c.c.; il terzo, denominato “indennità meritocratica,” risponde ai criteri indicati dall’art. 1751 c.c., relativamente alla sola parte in cui prevede come presupposto per l’erogazione l’aumento del fatturato con la clientela esistente e/o l’acquisizione di nuovi clienti.
I successivi capi II e III del citato articolo disciplinano in dettaglio le condizioni ed i criteri di calcolo delle suddette indennità.
La “dichiarazione a verbale n. (omissis…)” stabilisce che “… le parti firmatarie del presente Accordo Economico Collettivo convengono che le ulteriori quote dell’indennità di fine rapporto di cui ai paragrafi II e III del presente articolo 12 (indennità suppletiva di clientela; indennità meritocratica) sono riconosciute subordinatamente al rispetto di quanto previsto ai successivi commi quarto e quinto della presente dichiarazione a verbale n. (omissis…). Le parti concordano, pertanto, che la corresponsioni di quanto sopra indicato avvenga entro 30 giorni dalla cessazione del rapporto di agenzia, presso la Commissione di conciliazione territorialmente competente. All’atto del pagamento verrà redatto un verbale di conciliazione sindacale, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli articoli 2113, comma 4 c.c., 410 e 411 c.p.c., come modificati dalla L. n. 533 del 1973, dal D.Lgs. n. 80 del 1998 e dal D.Lgs.n. 387 del 1998, da depositarsi successivamente presso la direzione provinciale del lavoro competente per territorio”.
A questo punto bisogna valutare quale sia la rilevanza giuridica della suindicata “dichiarazione a verbale n. (omissis…)”. La costante e concorde giurisprudenza di legittimità (Cfr.: Cass., Sez. Lav., n. 5820 del 22.04.2002; Cass., Sez. Lav., n. 17776 del 12.12.2002; Cass., Sez. Lav., n. 4926 del 03.03.2014), ha ritenuto che le “dichiarazioni a verbale”, concordemente fatte dalle parti sociali nel testo del contratto collettivo, anche se non hanno contenuto normativo, hanno la finalità di chiarire il significato e la portata delle norme cui si riferiscono e rivestono quindi un’importanza essenziale nell’interpretazione di esse.
Inoltre, per la finalità dichiarata in seno al C.C.N.L., (v. art. 12, comma 1, “Con la presente normativa le parti intendono dare piena ed esaustiva applicazione all’art. 1751 c.c., anche in riferimento alle previsioni dell’art. 17 della Direttiva CEE 86/653, individuando modalità e criteri applicativi, particolarmente per quanto attiene alla determinazione in concreto della misura dell’indennità in caso di cessazione del rapporto”) il criterio ermeneutico prioritario per la individuazione della volontà delle parti va attributo al criterio di letteralità, riconoscendo nella titolazione “dichiarazione a verbale” il fatto sintomatico di un intento di valorizzare e riequilibrare i rispettivi vantaggi economici che le parti del contratto di agenzia hanno tratto dal rapporto.
Pertanto la “dichiarazione a verbale” ha valore e funzione di lex specialis rispetto a quanto previsto dalla norma che ha carattere di generalità. Né ciò viola il criterio della sistematicità, inteso come ricerca della volontà delle parti, contenuta nella norma da interpretarsi, in relazione al contesto complessivo della contrattazione collettiva.
Alla luce della nuova disposizione, pertanto, solo se verrà sottoscritto un verbale di conciliazione in sede protetta (Direzione Provinciale del Lavoro o sede sindacale) entro 30 giorni dalla cessazione del rapporto di agenzia, il preponente sarà tenuto a corrispondere le indennità suppletiva di clientela e meritocratica. In caso contrario l’agente avrà diritto di agire nei confronti del preponente unicamente al fine di verificare la sussistenza o meno dei requisiti per il riconoscimento dell’indennità ex art. 1751 c.c., ma quest’ultimo non avrà alcuna obbligazione di corrispondere alcunché all’agente nemmeno sulla base delle disposizioni dell’A.E.C.
Conseguentemente non avendo il B.D. acconsentito a sottoscrivere il verbale di conciliazione in sede sindacale, nessun obbligo gravava sulla società preponente di pagare il trattamento di fine rapporto derivante dall’applicazione dei criteri di cui all’A.E.C. e quindi l’opposizione va accolta ed il decreto ingiuntivo n. 1916/2011 revocato.
Stante la peculiarità della vicenda, le spese del presente grado di giudizio possono trovare integrare compensazione.

P.Q.M.
Il Giudice Monocratico, ritenuta la propria competenza e definitivamente pronunciando sul ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo n. 1916/2011 emesso il 21.07.2011, in favore di B.D. e nei confronti T.F.D. S.p.A (già O. S.p.A.), in persona del legale rappresentante p.t., disattesa ogni contraria domanda ed eccezione, così provvede:
1. Revoca il decreto ingiuntivo n. 1916/2011 emesso dal Tribunale di Catania, Sezione Lavoro, in data 21.07.2011.
2. Compensa le spese di giudizio.
Così deciso in Catania, il 16 gennaio 2018.
Depositata in Cancelleria il 16 gennaio 2018.

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
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MASSIME della Cassazione Penale

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza emessa in data 10/11/2017 n.55525, ha annullato senza rinvio, previa riqualificazione del fatto contestato, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma che  aveva confermato la decisione del Tribunale di Rieti  che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del delitto di truffa aggravata in danno dell’Inpdap per l’omessa comunicazione all’istituto del decesso del genitore percettore di pensione.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere la prospettazione difensiva secondo cui il comportamento omissivo contestato all’imputato non si prestava a costituire l’elemento strumentale della truffa, sulla scia di  quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n.16568/200, ha statuito: “Questa Corte ha precisato che integra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter cod. pen. e non quella di truffa aggravata l’indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’Ente previdenziale il decesso del pensionato (Sez. 2, n. 48820 del 23/10/2013, Brunialti, Rv. 257430), evidenziando che quello che essenzialmente rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel primo di detti reati e presente, invece, nel secondo. Nel solco tracciato dalla pronunzia delle Sezioni Unite, n. 16568 del 19/04/2007 , Carchivi, Rv. 235962, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p. abbraccia situazioni residuali rispetto alle contigue fattispecie ex artt. 640, comma 2, e 640 bis cod.pen., come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, il meno grave delitto di cui all’art. 316 ter è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa (Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Oro, Rv. 266979; n. 49642 del 17/10/2014, Ragusa, Rv. 261000). Deve, pertanto, ritenersi che integri la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che ometta di comunicare all’istituto erogante il trattamento pensionistico il decesso del congiunto titolare dello stesso, così continuando a percepirlo indebitamente, come nella specie accaduto.”

La condotta  tenuta dall’imputato essendo, infatti, consistita unicamente nell’omessa comunicazione all’Inpdap del decesso del genitore, e non  essendo  tale comportamento omissivo stato accompagnato da ulteriori comportamenti fraudolenti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non integra l’artifizio e raggiro richiesto per poter configurarsi il reato di truffa aggravata ex art.640 bis c.p..

Ciò che rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel reato previsto e punito dall’art.316 ter c.p. e presente, invece, in quello p.e p. dall’art.640 bis c.p..  L’assenza di un positivo comportamento fraudolento rileva nella configurabilità di una o l’altra ipotesi delittuosa.

L’art.316 ter c.p. punisce tutte le condotte non fraudolenti nel conseguimento di erogazioni pubbliche: condotte che, pur avendo causato l’indebita percezione di erogazioni pubbliche, non siano propriamente consistite in artifici o raggiri. E tale condotta essendo  considerata dal Legislatore di minore disvalore  è  punita in maniera meno grave rispetto alla truffa aggravata.

E’ necessario sottolineare che dalla pronunzia delle dalle Sezioni Unite del 19 Aprile del 2007 n.16568, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art.316 ter c.p. comprende ipotesi  residuali rispetto alle fattispecie previste negli articoli 640 e 640 bis c.p., come quelle del mero silenzio o di condotte che non inducano in errore lo Stato o l’Ente erogatore  della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, laddove difettino nella condotta dell’imputato  gli estremi della truffa si configura sempre  il meno grave delitto di cui all’art.316 ter c.p.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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MASSIME della Cassazione Penale

CASSAZIONE PENALE: annullamento senza rinvio

La Corte di cassazione pronuncia sentenza di annullamento senza rinvio se ritiene superfluo il rinvio e se, anche all’esito di valutazioni discrezionali, può decidere la causa alla stregua degli elementi di fatto già accertati o sulla base delle statuizioni adottate dal giudice di merito, non risultando perciò necessari ulteriori accertamenti di fatto.

Cass. pen. Sez. Unite, 30/11/2017, n. 3464

 

CASSAZIONE PENALE: Motivi di ricorso
In tema di ricorso per cassazione in materia penale, ricorre il vizio della mancanza, della contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione della sentenza se la stessa risulti inadeguata, nel senso di non consentire l’agevole riscontro delle scansioni e degli sviluppi critici che connotano la decisione, in relazione a ciò che è stato oggetto di prova, ovvero di impedire, per la sua intrinseca oscurità ed incongruenza, il controllo sull’affidabilità dell’esito decisorio, sempre avendo riguardo alle acquisizioni processuali ed alle prospettazioni formulate dalle parti.

Cass. pen. Sez. V, 12/12/2017, n. 5180

 

CASSAZIONE PENALE: motivazione sentenza impugnata

Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata

Cass. pen. Sez. V, 04/12/2017, n. 5175

 

CASSAZIONE PENALE: misure cautelari reali motivi di ricorso
In tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge”, per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art.325, comma 1, c.p.p., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice.

Cass. pen. Sez. III, 05/12/2017, n. 272

 

MARCHI: Contraffazione ed usurpazione del marchio

In materia di contraffazione di marchi e segni distintivi, non ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità di inganno dei consumatori. Il delitto di cui all’art.474 c.p., invero, è reato di pericolo, per la cui configurazione non serve la realizzazione della lesione del consenso negoziale dell’acquirente.

Cass. pen. Sez. II, 05/12/2017, n. 55079

 

MISURE DI PREVENZIONE: necessità dell’attualità della pericolosità sociale
Nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di “appartenere” ad una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto (In motivazione la Corte ha precisato che solo nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità). (Annulla con rinvio, App. Reggio Calabria, 01/04/2016)

Cass. pen. Sez. Unite, 30/11/2017, n. 111.

 

ARRESTO IN FLAGRANZA: esclusioni.

Lo stato di “quasi flagranza” non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato.

Cass. pen. Sez. IV, 30/11/2017, n. 39

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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MASSIME in tema di Agenzia

Cass. Civ. Sez. lavoro Sent., 24-07-2007, n. 16347

AGENZIA (CONTRATTO DI) – SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO – INDENNITÀ – IN GENERE – Indennità di cessazione del rapporto – Criteri di determinazione

In relazione ai criteri di quantificazione dell’indennità in caso di cessazione del rapporto di agenzia, l’art. 17 della direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18/12/’86, relativa al coordinamento del diritto degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti – come interpretato dalla sentenza della Corte di giustizia Cee, 23/3/’06, in causa C-465/04 – non impone un calcolo analitic0, bensì consente l’utilizzo di metodi di calcolo diversi e, segnatamente, di metodi sintetici, che valorizzino più ampiamente il criterio dell’equità e, quale punto di partenza, il limite massimo di un’annualità media di provvigioni previsto dalla direttiva medesima. Ne consegue che l’art. 1751 cod. civ. deve interpretarsi nel senso che l’attribuzione dell’indennità è condizionata alla permanenza, per il preponente, di vantaggi derivanti dall’attività di promozione degli affari compiuta dall’agente, e anche alla rispondenza ad equità dell’attribuzione, in considerazione delle circostanze del caso concreto ed in particolare delle provvigioni perse da quest’ultimo.        

FONTI Mass. Giur. It., 2007;CED Cassazione, 2007

                  

Cass. Civ. Sez. lavoro Sent., 05/09/2007, n. 18586

AGENZIA  (CONTRATTO DI)  PROVA IN GENERE (MAT. CIV.)
Esibizione di documenti

L’art. 1749 cod. civ., nel testo modificato dall’art. 2 del d.lgs. n.303 del 1991, ha riconosciuto il diritto dell’agente di esigere che gli siano fornite tutte le informazioni, in particolare un estratto dei libri contabili, necessarie per verificare l’importo delle provvigioni liquidate. Conseguentemente, in relazione a tale precisa garanzia normativa, non appare conforme a diritto la reiezione, come nella specie, dell’istanza dell’agente mirante, indipendentemente dall’espletamento di consulenza tecnica, all’acquisizione della documentazione in possesso solo del preponente, indispensabile per sorreggere, sul piano probatorio, attraverso precisi dati quantitativi, l’allegazione relativa all’aumento del numero dei clienti e del volume degli affari nel corso degli anni; né è imputabile alla parte la carenza di indicazione di tali dati quantitativi, derivando dall’inadempimento dell’obbligo di informazioni posto dalla legge a carico del preponente.                                     

FONTI Mass. Giur. It., 2007;CED Cassazione, 2007; Impresa, 2007, 10, 1416 RIFERIMENTI NORMATIVI CC Art. 1749 CPC Art. 210 DLT 10/09/1991, n. 303, art. 2
Conformi : Cass. civ. Sez. I, 17/1/’06, n. 789 V. anche: Cass. civ. Sez. lavoro, 22/11/’03, n. 17762

   

TRIBUNALE DEL LAVORO DI NAPOLI G.L. D.ssa SCELZA                                                                         Sent. n° 18652 del 20.6.2006   All’agente spetta il danno in seguito al comportamento non collaborativo della preponente

All’agente è dovuto il risarcimento del danno perchè: a) il rapporto si è risolto per esclusiva colpa della società preponente; b) per il fatto che la società preponente non inviava gli estratti conto e le fatture clienti. c) per aver consegnato all’agente un campionario scadente con prodotti spesso afflitti da vizi e difetti. d) perché affidava lo stesso campionario ad altro agente nella zona di competenza dell’agente. II danno è stato quantificato in via equitativa. Non è stato concesso il danno biologico non perché non dovuto ma, secondo il giudice, non provato sufficientemente il nesso di causalità tra patologia e comportamento della preponente.

                          

Cass. civ., Sez. lavoro, 29/12/1990, n. 12223

I.R.R. INDENNITA’ RISOLUZIONE CONTRATTO

AGENZIA (CONTRATTO DI)

E’ dovuta (PRO MANIBUS ALL’AGENTE) l’indennità di scioglimento del contratto, che è dovuta – in tutto od in parte – dal preponente, ove il medesimo non abbia provveduto a versare all’Enasarco, per l’accreditamento sul conto dell’agente, tenendo conto che è onere del proponente – il quale eccepisca essere tale indennità dovuta dall’Enasarco – provare di aver regolarmente assolto al suddetto obbligo contributivo.

FONTE Mass. Giur. It., 1990

 

 Trib. Bari Sez. II, 04/07/2012

AGENZIA (CONTRATTO DI)

In seno al contratto di agenzia, ai fini dell’accoglimento della domanda di pagamento delle provvigioni maturate in favore dell’agente, è necessario che siano indicati in maniera idonea e sufficiente a consentirne l’identificazione, i contratti che l’agente assume siano stati conclusi per il suo tramite, non potendosi considerare assolto l’onere probatorio dalla mera produzione degli ordini raccolti. Ai sensi dell’art. 1749 c.c., infatti, il diritto dell’agente alla provvigione per la conclusione degli affari che non abbiano avuto esecuzione per causa imputabile al preponente, presuppone l’effettiva conclusione del contratto. Ne deriva che non sussiste il diritto alla provvigione nel caso in cui la proposta dell’agente non sia stata seguita dall’accettazione del preponente il quale, nell’esercizio della libertà di impresa, non è vincolato dall’attività dall’agente e può legittimamente rifiutare le proposte salvo che tale rifiuto sia pregiudiziale e sistematico.

FONTI Dir. e Pratica Lav., 2013, 11, 737

                                  

Corte di Giustizia UE

L’agente ha diritto all’indennità di clientela se l’inadempimento è avvenuto dopo il recesso
Direttiva 86/653/CEE – Agenti commerciali indipendenti – Scioglimento del contratto di agenzia da parte del preponente – Diritto dell’agente ad un’indennità

L’art. 18, lett. a), della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, osta a che un agente commerciale indipendente venga privato della sua indennità di clientela qualora il preponente dimostri l’esistenza di un inadempimento di tale agente, verificatosi dopo la notifica del recesso dal contratto mediante preavviso e prima della scadenza di quest’ultimo, che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto in parola.

Sent. 465 c- 04 del 23/3/’06

L’avvocato Dario De Landro, Cassazionista, esercita la sua quasi quarantennale attività professionale esclusivamente nel campo civile trattando un po’ tutte le materie con esclusione del diritto familiare e amministrativo.
Nell’ambito del diritto del lavoro in particolare si interessa poi di rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale sia per gli agenti di commercio che per le aziende preponenti nel particolarissimo settore di nicchia di specie essendo tra l’altro fiduciario della Fnaarc Federazione Nazionale agenti e rappresentanti di commercio, che è il sindacato più rappresentativo in Italia.
E’ socio fondatore e Consigliere della A.GI.SA. Associazione Giustizia e Sanità con sede a Roma.
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MASSIME della Cassazione Penale

ART.572 C.P.: MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

 Il reato di maltrattamenti  integra una ipotesi di reato necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali isolatamente considerati potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.) ovvero non perseguibili (percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), idonei a cagionare nella vittima durevoli sofferenze fisiche e morali.

Cass. pen. Sez. III, 21/02/2017, n. 16543

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto previsto dall’art.572 c.p. richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la vittima ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza.

Cass. pen. Sez. VI, 08/02/2017, n. 10901

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto di maltrattamenti è una fattispecie necessariamente abituale che si caratterizza per la sussistenza di una serie di fatti, i quali acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo.

Cass. pen. Sez. VI, 06/04/2016, n. 24375

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: Elemento oggettivo (materiale) della condotta.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche da atti non costituenti in sè reato,  del resto, anche semanticamente, il termine “maltratta” non evoca in sè la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art.572 c.p.  (per questa affermazione cfr. Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, P., Rv.256962; per interessanti fattispecie applicative, v. Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012, dep. 2013, T., Rv. 255175, nonchè Sez. 6, n. 8396 del 07/06/1996, Vitiello, Rv. 205563).

Cass. pen. Sez. VI, 10/03/2016, n. 13422.

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

La condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere. Non può invece rientrare nella fattispecie di cui all’art.572 c.p. la costrizione del coniuge al rapporto sessuale: il rapporto di coniugio non comporta alcun diritto a pretenderne la consumazione contro la volontà del consorte, ragion per cui il predetto comportamento integra pienamente il delitto di violenza sessuale ex art.609 bis c.p.

Cass. pen. Sez. III, 19/01/2016, n. 18937

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.

Cass. pen. Sez. VI, 28/06/2017, n. 40959

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: DICHIARAZIONI DELLA PERSONA OFFESA

Le regole dettate dall’art.192, comma 3, c.p.p., non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel reato di maltrattamenti di cui all’art.572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari. Nel reato abituale il dolo non richiede infatti – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice.

Cass. pen. Sez. VI, 06/10/2017, n. 49997

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Nel reato di maltrattamenti familiari possono essere riconosciute le attenuanti generiche di cui all’art.62 bis c.p. ai genitori che, per la loro inadeguatezza etno-culturale, ritengono consentite punizioni corporali sul figlio minore che nel Paese di origine (Marocco) non costituiscono illecito, allorquando la loro incapacità culturale non gli ha permesso di rendersi conto della patologia diagnosticata al figlio stesso a causa dei loro atti, nonché per la loro incapacità di gestirne i suoi comportamenti oppositivi e provocatori (ricondotti, pur sbagliando, ad aspetti caratteriali) che si proponevano di contenere con metodi non certamente consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.

Cass. pen. Sez. VI, 15/02/2017, n. 10906

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: INCONFIGURABILITA’

In un contesto familiare di continua conflittualità, ove alla veemenza verbale ed alla collera del marito la moglie risponde con capacità reattiva e non con un supino atteggiamento, non può configurarsi il delitto di maltrattamenti in famiglia.

Cass. pen. Sez. VI, 13/11/2015, n. 5258

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: INCONFIGURABILITA’

Le condotte criminose poste in essere nei confronti del familiare convivente integranti percosse ed umiliazioni in danno del medesimo, ma prive del connotato dell’abitualità, in quanto verificatesi nell’ambito di un rapporto conflittuale, e di volta in volta commesse quale (abnorme) reazione occasionata da specifici comportamenti posti in essere dalla vittima, e, dunque, non come espressione della volontà di determinare in questa un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, non risultano sussumibili nel reato di maltrattamenti in famiglia, ma integrano distinti episodi autonomamente rilevanti (nella specie di percosse, di lesioni, ed eventualmente di diffamazione, tuttavia non perseguibili per difetto o rimessione accettata di querela).

Cass. pen. Sez. VI, 19/04/2017, n. 27088

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: Rapporti familiari di fatto – Cessazione della convivenza – Configurabilità del reato – Condizioni – Ragioni

In tema di reati contro la famiglia, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. Peraltro, il reato persiste anche in caso di separazione legale, tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dall’obbligo di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, atteso che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie incriminatrice di cui all’art.572 c.p., la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente.

Cass. pen. Sez. VI, 13/12/2017, n. 3356

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto di cui all’art.572 c.p. sussiste in caso di reiterate condotte vessatorie poste in essere in costanza di separazione legale o di fatto, in presenza della quale persistono i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà sociale sorti dal rapporto coniugale.

Cass. pen. Sez. VI, 01/02/2017, n. 10932

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

In tema di reato di maltrattamento, la cessazione della convivenza da parte di un uomo – non legato con la donna maltrattata da rapporto di coniugio – non consente di qualificare la prosecuzione della condotta persecutoria nell’ambito del reato di cui all’art.572 c.p., dovendosi tale parte della condotta qualificare nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p..  (Ferma l’eventualità ben possibile di un concorso apparente di norme che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati di maltrattamenti e di atti persecutori, il reato di cui all’art. 612 bis c.p. diviene idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale. Ciò che può valere, in particolare (se non unicamente), in caso di divorzio o di “relazione affettiva” definitivamente cessata, giacchè anche in caso di separazione legale (oltre che di fatto) questa S.C. ha affermato la ravvisabilità del reato di maltrattamenti, al venir meno degli obblighi di convivenza e fedeltà non corrispondendo il venir meno anche dei doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi (cfr.: Cass. Sez. 5, 1.2.1999 n. 3570, Valente, rv. 213515; Cass. Sez. 6,27.6.2008 n. 26571, rv. 241253) (conforme Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942)).

Cass. pen. Sez. VI, 27/06/2017, n. 35673

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche a seguito della cessazione della convivenza e in presenza della separazione, qualora l’attività persecutoria si contestualizzi in ambito familiare. Ciò in quanto, il vincolo coniugale non viene meno con la separazione legale, ma si attenua soltanto, posto che rimangono integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione tra coniugi. Ne discende che laddove la condotta criminosa incida sui rapporti familiari, la separazione non esclude il reato di cui all’art.572 c.p.

Cass. pen. Sez. II, 05/07/2016, n. 39331

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

La cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà ed assistenza, la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.

Cass. pen. Sez. VI, 20/04/2017, n. 25498

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto). (Rigetta, App. Ancona, 04/07/2016)

Cass. pen. Sez. VI, 20/04/2017, n. 25498.

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: “mobbing” – Configurabilità del reato – Condotta del datore di lavoro attuata con modalità vessatorie verso il dipendente – Configurabilità del reato di cui all’art.572 c.p. e/o del reato previsto e punito dall’art.571 c.p. – Differenze.

In tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art.571 c.p. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art.572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (nella specie, lancio di oggetti verso il dipendente e imposizione di stare seduto per lungo tempo davanti alla scrivania del datore di lavoro senza svolgere alcuna funzione). Integra il delitto di cui all’art.572 c.p. la realizzazione, da parte del datore di lavoro, di pratiche persecutorie realizzate in un contesto lavorativo caratterizzato da parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro, di abitudini di vita proprie e fisiologiche alle comunità familiari per la stretta comunanza di vita, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto (soggetto più debole) rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.

Cass. pen. Sez. VI, 28/09/2016, n. 51591

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere da un sindaco nei confronti di una funzionaria comunale). (Rigetta, App. Palermo, 09/01/2013).

Cass. pen. Sez. VI, 19/03/2014, n. 24642 (rv. 260063)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche vessatorie realizzate ai danni di un lavoratore dipendente al fine di determinare l’emarginazione (cd. mobbing), anche dopo le modifiche apportate dalla legge 172 del 2012, possano integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia soltanto quando s’inquadrino nel contesto di un rapporto che – per le caratteristiche peculiari della prestazione lavorativa ovvero per le dimensioni e la natura del luogo di lavoro – comporti relazioni intense e abituali, una stretta comunanza di vita ovvero una relazione di affidamento del soggetto più debole verso quello rivestito di autorità, assimilabili alle caratteristiche proprie del consorzio familiare. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la sussistenza del delitto in parola, per essersi verificate le condotte vessatorie nel contesto di un’articolata realtà aziendale, caratterizzata da uno stabilimento di ampie dimensioni e da decine di dipendenti sindacalizzati). (Annulla senza rinvio, App. Milano, 13/03/2013).

Cass. pen. Sez. VI, 05/03/2014, n. 13088 (rv. 259591)

 

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di cui all’art.572 c.p., anche nel testo modificato dalla legge n.172 del 2012 esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella specie, la Corte pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, ha annullato con rinvio la sentenza assolutoria perché il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali). (Annulla ai soli effetti civili, App. Milano, 02/10/2012)

Cass. pen. Sez. VI, 28/03/2013, n. 28603 (rv. 255976)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la configurabilità del reato in relazione alle condotte vessatorie poste in essere dal vice Presidente di un ATER nei confronti di una dipendente). (Annulla in parte senza rinvio, App. L’Aquila, 25/11/2010)

Cass. pen. Sez. VI, 11/04/2012, n. 16094 (rv. 252609)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

 Il delitto di maltrattamenti può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. (Annulla senza rinvio, App. Lecce, 08/01/2010)

Cass. pen. Sez. VI, 28/03/2012, n. 12517 (rv. 252607)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall’art.572 c.p.). (Annulla con rinvio, Ass. App. Salerno, 06/10/2010)

Cass. pen. Sez. VI, 10/10/2011, n. 43100 (rv. 251368)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Fattispecie in cui è stata esclusa la sussistenza del reato in relazione alle vessazioni subite dalla dipendente ad opera di un dirigente di un’ azienda di grandi dimensioni). (Rigetta, App. Torino, 31 gennaio 2006)

Cass. pen. Sez. VI, 06/02/2009, n. 26594 (rv. 244457)

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA:  condotte vessatorie nei confronti di un lavoratore dipendente, il cd. “mobbing”.

Ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art.572 c.p., l’esistenza, in una casa di cura e ricovero per anziani, di un generalizzato clima di sopraffazione e violenza nei confronti degli assistiti non esime dalla rigorosa individuazione dei distinti autori delle varie condotte, in quanto il carattere personale della responsabilità penale impedisce che il singolo addetto, in mancanza di addebiti puntuali che lo riguardano, possa essere chiamato a rispondere, sia pure in forma concorsuale, del contesto in sé considerato, anche nel caso in cui da tale contesto egli tragga vantaggio. (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Brescia, 22/09/2015)

Cass. pen. Sez. VI, 10/12/2015, n. 7760 (rv. 266684)

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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CASSAZIONE CIVILE, SEZ. UNITE, 20 SETTEMBRE 2017, N.21854

FATTO E DIRITTO

Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione ha chiesto tra numerosi punti se il Giudice del Tribunale di Salerno con provvedimento 19-20 settembre 2013 – ed anche con altri provvedimenti successivi- ha ritenuto che con riferimento  agli effetti sul procedimento di esecuzione forzata, il provvedimento favorevole reso dal pubblico ministero, ai sensi della L.44 del 1999, art.20 comma 7, come modificato dalla Ln.3 del 2012, art. 2 costituirebbe “condizione necessaria ma non sufficiente ai fini della sospensione del procedimento esecutivo, rientrando per sempre nella sfera delle competenze istituzionali del giudice dell’esecuzione il potere di valutare la sussistenza dei presupposti per la sua sospensione”

In presenza di un simile provvedimento la parte istante, cioè il debitore, evidentemente di esso beneficiario, avrebbe potuto reagire e, quindi, sollecitare una ridiscussione della questione:

  • o impugnando il provvedimento ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ., cioè con opposizione agli atti esecutivi, siccome incidente sul quomodo dell’esecuzione per il tramite del rifiuto di dar corso degli effetti del provvedimento sulla “sospensione” di cui al comma 7;
  • ovvero alternativamente, pur in presenza dell’espressa esclusione, da parte del giudice dell’esecuzione, che l’istanza fosse stata introduttiva di un’opposizione ai sensi dell’art. 615 o 617 cod. proc. civ. e, dunque, della sua fase sommaria, siccome individuata dai paradigmi degli artt. 616 e 618 cod. proc. civ.:  reclamare comunque al Collegio ai sensi dell’art. 624, secondo e quarto comma, cod. proc. civ., sostenendo il contrario e, quindi, introdurre, dopo la decisione sul reclamo, la fase di merito di una di dette opposizione, secondo un’opzione ammessa dalla giurisprudenza di questa Corte (a partire da Cass. (ord.) n. 22033 del 2011); introdurre questa fase senza reclamare (sempre secondo quella opzione).

Per quanto attiene ai due provvedimenti, sempre del Tribunale di Salerno, ma in composizione collegiale, che risultano emessi in sede di reclamo ai sensi dell’art. 624 cod. proc. civ., si rileva che:
–  in uno di essi il reclamo è stato dichiarato inammissibile – dopo che il Tribunale ha motivato la tesi della vincolatività del provvedimento prefettizio, espressamente dichiarato doversi prendere atto dello stesso e, quindi della sospensione dei termini – perché il provvedimento reclamato, con cui il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di sospensione dalla debitrice esecutata, aveva invece escluso invece quella vincolatività, non sarebbe stato riconducibile all’ambito dell’art. 624 cod. proc. civ., ma sarebbe stato solo un provvedimento di quel giudice sull’esecuzione, come tale suscettibile di opposizione ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ.;
– nell’altro provvedimento, invece, risultando negata dal giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza reclamata, la vincolatività dell’effetto del provvedimento del Pubblico Ministero in un giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., il Tribunale salernitano, ribadendo l’avviso contrario al riguardo, ha accolto il reclamo e dichiarato l’intervenuta sospensione degli atti esecutivi.

Mentre nel primo caso, l’indicazione come mezzo di impugnazione dell’opposizione agli atti, avrebbe implicato la possibilità di introduzione ad iniziativa della parte interessata di un simile giudizio sull’assunto che comunque l’originaria istanza integrava quell’opposizione, nel secondo, essendo pacifico che l’istanza era stata proposta in seno ad un giudizio ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., parimenti si sarebbe potuto introdurre il giudizio a cognizione piena.

In conclusione, la Suprema Corte sancisce che i giudici di merito avrebbero dovuto attenersi ai seguenti principi di diritto:
“Il Giudice dell’esecuzione cui sia stato trasmesso il provvedimento del Pubblico Ministero che, sulla base dell’elenco fornito dal prefetto, dispone la “sospensione dei termini” di una procedura esecutiva a carico del soggetto che ha chiesto l’elargizione di cui alla L. n. 44 del 1999, non può sindacare Né la valutazione con cui il Pubblico Ministero ha ritenuto sussistente il presupposto della provvidenza sospensiva, Né l’idoneità della procedura esecutiva ad incidere sull’efficacia dell’elargizione richiesta dall’interessato.
Spetta invece al Giudice dell’esecuzione sia il controllo della riconducibilità del provvedimento del Pubblico Ministero alla norma sopra citata, sia l’accertamento che esso riguarda uno o più processi esecutivi pendenti dinanzi al suo ufficio, sia la verifica che nel processo esecutivo in corso o da iniziare decorra un termine in ordine al quale il provvedimento di sospensione possa dispiegare i suoi effetti”.

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Cassazione civile , 27 febbraio 2013, n.4847, sez. un.

Al coniuge superstite spettano sempre i diritti d’uso e di abitazione sulla casa familiare

Successione legittima e necessaria – Successione del coniuge superstite – Diritto di abitazione e di uso spettanti al coniuge del de cuius ex art. 540, comma 2, c.c. – Successione legittima – Attribuzione quantitativa aggiuntiva rispetto alla quota di cui agli art. 581 e 582 c.c. – Sussistenza – Riduzione delle porzioni secondo la disciplina del concorso prevista dall’art. 553 c.c. – Applicabilità – Esclusione – Fondamento.

 

In tema di successione legittima, spettano al coniuge superstite, in aggiunta alla quota attribuita dagli art. 581 e 582 c.c., i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, di cui all’art. 540 comma 2 c.c., dovendo il valore capitale di tali diritti essere detratto dall’asse prima di procedere alla divisione dello stesso tra tutti i coeredi, secondo un meccanismo assimilabile al prelegato, e senza che, perciò, operi il diverso procedimento di imputazione previsto dall’art. 553 c.c., relativo al concorso tra eredi legittimi e legittimari e strettamente inerente alla tutela delle quote di riserva dei figli del “de cuius”.

 

 

Nota

la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 4847 del 27 febbraio 2013 ha affermato che nella successione legittima i diritti di abitazione e di uso sulla casa adibita a residenza familiare riconosciuti al coniuge si configurano come prelegati ex lege, che si cumulano alla quota prevista dagli artt. 581 e 582 c.c.. Ne deriva che il valore capitale di tali diritti attribuiti al coniuge viene detratto dalla massa ereditaria, che viene poi divisa tra tutti i coeredi secondo le norme sulla successione legittima non tenendo conto di tale attribuzione.

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T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, n. 03802/2018

R E P U B B L I C A   I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3632 del 2016, integrato da motivi
aggiunti, proposto da
Salvatore Iovine, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandro Barbieri,
Andrea Torino, Raffaele Pesce, con domicilio eletto presso lo studio
Alessandro Barbieri in Napoli, via Loggia dei Pisani, 13;

contro
Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca, in persona del
Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvoc.Distrett. dello Stato di
Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli, via Diaz, 11;
nei confronti
Maurizio Tessitore non costituito in giudizio;
per l’annullamento
previa sospensione dell’efficacia,
quanto al ricorso principale,
-) del provvedimento di mancata ammissione alla prova orale del concorso
per il reclutamento personale docente su posti comun
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grado ed afferenti alla classe di concorso a064;
-) dell’avviso di convocazione alla prova orale dell’11.07.2016;
-) dei verbali della commissione esaminatrice;
-) del verbale n. 1 del 20.06.2016 e relativi allegati;
-) dei decreti di nomina della commissione del 06.05.2016 e del 06.06.2016;
quanto al ricorso per motivi aggiunti:
-) del decreto di approvazione della graduatoria prot. AOO-DRCA-0012455
del 02.09.2016;
-) di tutti gli atti presupposti e consequenziali;

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Istruzione
dell’Universita’ e della Ricerca;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 maggio 2018 il dott. Luca Cestaro
e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

 

FATTO

1.1. Il presente ricorso è stato proposto da Salvatore IOVINE avverso gli atti
della procedura concorsuale bandita con D.D.G. M.I.U.R. n. 106/2016 per
posti di docente nella scuola e, in particolare, per posti di docente nella classe
di concorso A64 (Teoria, analisi e composizione).
1.2. Il ricorrente, infatti, non è stato ammesso alla prova orale (con atto
pubblicato sul sito del M.I.U.R. in data 12.07.2016) a seguito di una
insufficiente valutazione della prova scritta e, con il ricorso principale,
contesta tale conclusione poiché asseritamente viziata da plurimi profili di
difetto istruttorio e carenza di motivazione.
1.3.1. Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 15.09.2016 e depositato il
14.10.2016, la parte ricorrente oltre a precisare le proprie, inizialmente
generiche, censure circa l’abnormità della valutazione operata in sede di prove
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scritte, censura l’incompatibilità per conflitto di interessi del prof. Pagliarulo,
componente della commissione.
1.3.2. Il ricorrente, infatti, espone che il commissario indicato, ai sensi dell’art.
6 del CCNI del 15.06.2016 applicabile al caso di specie, potrebbe aver diritto
ad essere utilizzato quale docente nei posti eventualmente vacanti all’esito
della procedura di cui è commissario, in quanto già docente nei licei musicali
in materie affini (nelle materie afferenti alla diversa classe di concorso ex
A31). In sostanza, si lamenta che il prof. Pagliarulo potrebbe trarre un
vantaggio dalla mancata totale copertura dei posti e, invero, i vincitori di
concorso sono risultati essere appena 8 su 32 posti.
1.4. Il Collegio, che già aveva accolto l’istanza cautelare – così confermando il
precedente decreto presidenziale n. 4145/2016 – con ordinanza n.
1458/2016, rendeva una prima ordinanza istruttoria per chiarire la posizione
del prof. Pagliarulo e, inoltre, ordinava l’integrazione del contraddittorio nei
confronti dei controinteressati oltre che del medesimo Pagliarulo (ordinanza
n. 1793/2017). La parte ricorrente adempiva all’ordine di integrazione del
contraddittorio (v. doc. depositata il 25.05.2017), mentre l’Amministrazione
restava inerte, circostanza che induceva il Collegio a rendere una nuova
ordinanza istruttoria (n. 4334/2017).
1.5. La Pubblica amministrazione intimata, depositando in data 19.12.2017 la
trascrizione di una e-mail a firma del dirigente Maria Teresa De Lisa, rendeva,
al fine una scarna dichiarazione in cui confermava che il prof. Pagliarulo era,
in atto, ‘utilizzato’ quale docente della classe A64 presso l’I.S. Albertini di
Nola ai sensi dell’art. 6 bis “dell’ordinanza sulle utilizzazioni ed assegnazioni
provvisorie” e precisava che, la classe A64 era di nuovo conio (2016) di talché
non potevano esserci docenti in ruolo per tale classe di concorso.
1.6. All’esito dell’udienza pubblica del 09.05.2018, la causa era trattenuta in
decisione.

DIRITTO

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2. Preliminarmente, va detto che il ricorso principale e il ricorso per motivi
aggiunti sono entrambi tempestivi. L’atto impugnato, infatti, è stato
pubblicato sul sito del M.I.U.R. il 12.07.2016: anche il ricorso per motivi
aggiunti, notificato, il 15.9.2016 è ampiamente entro il termine di 60 giorni di
cui all’art. 29 c.p.a. in considerazione della sospensione dei termini durante il
periodo feriale.
3.1. Nel merito, assume un rilievo del tutto assorbente il conflitto di interessi
del prof. Pagliarulo che, com’è stato riconosciuto dalla stessa
Amministrazione intimata, si trova nelle condizioni di docente “utilizzato”
nella classe di concorso in esame (quale docente di ruolo nelle classi A31,
A32, A77) e, anzi, di esserlo tutt’ora.
3.2.1. Sebbene, in assenza di abilitati nella classe di concorso A64,
l’utilizzazione di docenti provenienti da diverse classi di concorso sia un
evento ordinario (ai sensi dell’art. 6 bis del C.C.N.I. applicabile; v. prod. della
parte ricorrente del 20.01.2017), l’eventuale copertura del posto da parte di un
vincitore di concorso nella specifica classe potrebbe comportare conseguenze
non favorevoli per i docenti attualmente “utilizzati”; costoro, infatti,
potrebbero diventare soprannumerari ed essere costretti, quanto meno, al
trasferimento.
3.2.2. Prima di operare una brevissima ricostruzione della disciplina di cui al
menzionato C.C.N.I., va ulteriormente evidenziato che la P.A. non ha reso la
relazione richiesta con le menzionate ordinanze istruttorie che avrebbe potuto
lumeggiare la posizione del Pagliarulo anche sul piano della normativa
contrattuale applicabile, ma ha ammesso che costui è, in atto, utilizzato quale
docente nella classe di concorso per la quale era stato nominato commissario.
3.2.3. Passando, quindi, all’esame del predetto contratto collettivo, si
evidenzia che i docenti con possibilità di richiedere l’ ”utilizzazione” sono
quelli a cui non è stata assegnata la sede richiesta poiché, ad esempio,
soprannumerari o trasferiti a domanda condizionata o trasferiti d’ufficio o
privi di sede definitiva (v. art. 2 del C.C.N.I.). Inoltre, il sistema delle
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utilizzazioni è a domanda, con formazione di una graduatoria, circostanza che
rende evidente l’interesse del prof. Pagliarulo, quale docente appunto
“utilizzato” in altra classe di concorso, a non vedersi pregiudicato nella
propria possibilità di essere ‘utilizzato’ nelle sedi richieste (quale, si è detto, è
quella in cui attualmente presta servizio).
3.3. Né il prof. Pagliarulo, evocato quale controinteressato, né, come si è
detto, la P.A. hanno fornito le basi per una ricostruzione alternativa a quella
appena proposta, volta a escludere, ad esempio in ragione di peculiari
circostanze di fatto, la ricorrenza in concreto del conflitto di interessi.
3.4. Deve, quindi, darsi per accertato che il prof. Pagliarulo versasse in una
palmare condizione di conflitto di interessi, potendo trarre un vantaggio dalla
mancata copertura dei posti della classe A64 tra i quali la conservazione della
possibilità di essere ‘utilizzato’ negli istituti scolastici della Regione Campania,
dove i posti sarebbero stati, invece, per lo più occupati dai vincitori di
concorso.
4.1. Sebbene in un caso a questo assimilabile la giurisprudenza amministrativa
abbia deciso diversamente (T.A.R. Aosta, sez. I, 10/08/2017, n. 49), il
Collegio ritiene che in questo caso il conflitto di interessi sia rilevante e, in
quanto tale, vizi irrimediabilmente gli atti della commissione di concorso.
4.2. Va ribadito che, anche se non ricorra uno dei casi espressamente previsti
dall’art. 51 c.p.c. (che regola gli obblighi di astensione del giudice), è
necessario che l’amministrazione operi in conformità ai canoni di imparzialità
e di buona amministrazione (art. 97 Cost.) che impongono di evitare
qualsivoglia conflitto di interessi in capo ai soggetti che concorrono a formare
la volontà della P.A..
4.3. Non può, invero, dubitarsi che un simile principio sia immanente
nell’ordinamento; basti richiamare, in proposito, l’art. 6 bis della
fondamentale legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990) che
impone l’obbligo di astensione al responsabile del procedimento (e ai titolari
degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
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endoprocedimentali e il provvedimento finale) in caso di conflitto di interessi,
“segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. È, altresì, utile
richiamare l’art. 323 c.p. che, nel delineare i presupposti per la configurabilità
del reato di abuso di ufficio, prevede, appunto l’ipotesi del conflitto di
interesse tra quelle idonee a integrare il reato (vi sono, poi, altri presupposti
che non occorre precisare in tale sede).
4.4. Va segnalato che la giurisprudenza amministrativa, specialmente in tempi
recenti, ha assunto orientamenti improntati a una crescente severità sul punto,
sanzionando, ad esempio, con l’annullamento le valutazioni delle commissioni
di concorso in cui fosse venuto in evidenza un intenso rapporto di
collaborazione scientifica tra commissario e candidato (v. Consiglio di Stato,
sez. VI, 18/07/2014, n. 3850; T.A.R. Napoli, sez. II, 25/01/2017, n. 503;
T.A.R. Palermo, sez. II, 18/10/2016, n. 2397).
4.5. La sussistenza del conflitto di interessi in capo al prof. Pagliarulo, integra,
quindi, l’illegittimità dell’atto sia per la violazione del principio di imparzialità
sia, comunque, in quanto costituisce un evidente indice sintomatico di uno
sviamento rilevante come eccesso di potere nella misura in cui è stata coperta
una percentuale minima dei posti messi a concorso (appena 8 su 32).
5.1. Neppure può farsi ricorso alla cd. prova di resistenza onde verificare se il
voto del Pagliarulo sia o meno stato determinante ai fini della bocciatura del
ricorrente e ciò in quanto la giurisprudenza ha chiarito che è già viziante la
mera partecipazione ai lavori del collegio del componente portatore
dell’interesse divergente da quello che dovrebbe guidare la valutazione tecnica
dell’organo.
5.2. Infatti, la mera partecipazione alla discussione è sufficiente per
influenzare gli altri componenti con conseguente alterazione dell’ordinario
procedimento di formazione della valutazione collegiale (Consiglio di Stato,
sez. V, 13/06/2008, n. 2970; T.A.R. Salerno, sez. II, 17/03/2014, n. 576;
T.A.R. Genova, sez. I, 15/05/2010, n. 2584).
7/6/2018 https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsavvocati/ucmProxy
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6.1 Le ulteriori censure svolte da parte ricorrente sono da ritenersi, quindi,
superate in quanto l’illegittima composizione della commissione rende del
tutto irrilevante l’eventuale erroneità del singolo giudizio formulato
nell’esercizio della propria attività tecnico-discrezionale (i cui margini di
sindacabilità, peraltro, sarebbero stati ridotti).
6.2. Il conflitto di interessi segnalato, peraltro, oltre a costituire una violazione
di legge per il mancato rispetto del principio di imparzialità, costituisce, altresì,
sintomo di eccesso di potere per sviamento.
7.1. Resta da esaminare la questione della perimetrazione della pronuncia di
annullamento, dovendosi considerare che, per quanto il ricorrente abbia
insistito nel proporre la domanda di annullamento limitatamente alla parte in
cui non ammette il ricorrente allo svolgimento della prova orale, la censura è
senz’altro idonea a travolgere l’intera procedura.
7.2. Invero, la giurisprudenza amministrativa qualifica la graduatoria di
concorso come atto plurimo – come tale composto da singoli atti riferibili ai
singoli partecipanti – con la conseguenza che i motivi di ricorso che si
appuntino sulla posizione soggettiva di uno o più ricorrenti non si estendono
agli altri soggetti che sono, quindi, onerati a proporre un distinto gravame.
Tuttavia, quando, come nel caso di specie, i vizi inficino l’atto “globalmente”,
si impone la diversa conclusione che anche l’annullamento debba essere
riferito all’intera procedura; si determina, infatti, “l’invalidità di tutta l’attività
compiuta dall’organo viziato, ivi compresi le prove e l’esito del concorso”
(Consiglio di Stato, sez. V, 07/10/2002, n. 5279; v. anche, Consiglio di Stato,
sez. IV, n. 2826/2013 e sez. III, n. 5413/2017. Per l’annullamento dell’intera
graduatoria in ragione dell’illegittima composizione della commissione v.
T.A.R. Napoli, IV sezione, n. 1821/2014 e n. 2037/2014 e T.A.R. Milano,
sez. III, 23/07/2015, n. 1808).
7.3. Non v’è ragione, invece, né interesse all’annullamento degli atti generali
del M.I.U.R. rispetto ai quali il ricorrente, pur menzionandoli, non muove
alcuna censura.
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8.1. Alla luce di tutto quanto precede, il ricorso deve essere accolto con
conseguente annullamento degli atti della intera sequenza procedimentale a
partire dal decreto di nomina della commissione, ivi compresi, quindi, le
prove, le valutazioni effettuate e l’intera graduatoria.
8.2. Le spese di lite – liquidate in dispositivo – seguono la soccombenza come
per legge.

 

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Quarta),
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto:
-) accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla gli atti della procedura concorsuale
a partire dal decreto di nomina della commissione sino agli atti di
approvazione della graduatoria;
-) condanna il M.I.U.R. al pagamento delle spese di lite in favore della parte
ricorrente che si liquidano in euro 2.000,00 oltre agli accessori di legge, al
contributo unificato nella misura effettivamente versata e alle spese di
integrazione del contraddittorio;
-) ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2018 con
l’intervento dei magistrati:

Anna Pappalardo, Presidente
Ida Raiola, Consigliere
Luca Cestaro, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE

Luca Cestaro

IL PRESIDENTE

Anna Pappalardo

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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T.A.R. Brescia, (Lombardia), sez. II, 17/10/2017,  n. 1246

Massima

Il dato letterale dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lg. n. 50 del 2016 esclude la possibilità di dare rilevanza alla precedente risoluzione del contratto, stipulato tra la stessa Stazione Appaltante e lo stesso imprenditore partecipante alla gara successiva, in tutti i casi in cui la risoluzione sia sub judice. Invero, la lettura obbligata in tal senso induce a ritenere la norma sospetta di incostituzionalità e di violazione dei principi comunitari, nella misura in cui, di fatto, vanifica gli effetti propri della risoluzione contrattuale, non precludendo alla parte in danno della quale è stato risolto il contratto di partecipare alla gara per l’affidamento dello svolgimento della parte residua del medesimo contratto che, per definizione, si è dimostrata inidonea a eseguire.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 770 del 2017, proposto da:

(omissis)  S.r.l.,  in  persona  del  legale  rappresentante    p.t.,

rappresentata e difesa dagli avvocati Marianna  Saldigloria  e  Carlo

Ablondi, con domicilio eletto in Brescia, presso lo  studio  Stefania

Curci, via Mantova N. 38;

contro

Comune di Brescia, rappresentato e difeso  dagli  avvocati  Francesca

Moniga e Andrea Orlandi, con  domicilio  eletto  in  Brescia,  presso

l’avvocato Andrea Orlandi, Corsetto Sant’Agata, 11/B;

nei confronti di

Consorzio Stabile A.L.P.I. Scarl non costituito in giudizio;

per l’annullamento

– del provvedimento, datato 13.07.2017 e ricevuto in  pari  data,  di

esclusione  della  (omissis)  s.r.l.  dalla  procedura  ad   evidenza

pubblica espletata  dal  Comune  di  Brescia  per  l’affidamento  del

servizio di manutenzione ordinaria del verde  pubblico  comunale  con

clausola che  prevede  l’inserimento  di  persone  svantaggiate  zona

sud-ovest – periodo 1.1.2018 – 31.12.2020;

– dell’atto di avvio del procedimento di  esclusione  del  21.06.2017

PG106390/2017 e della nota del Comune di Brescia dell’11.07.2017 – PG

117760  inviata  ad  ANAC,  tutti,  espressamente   richiamati    nel

provvedimento del 13.7.2017 che  ha  determinato  l’esclusione  dalla

gara;

– della comunicazione del 28.07.2017 con cui il Comune di Brescia  ha

confermato l’esclusione  dalla  gara  e  rigettata  la  richiesta  di

annullamento in autotutela del provvedimento espulsivo;

– dei verbali di gara del 20.06.2017 e del 17.07.2017 per le parti di

interesse;

– di ogni  verbale  di  gara,  atto  e/o  provvedimento  presupposto,

successivo e/o consequenziale  e/o  comunque  connesso  ancorché  non

cognito  afferente  i  provvedimenti  impugnati  ivi   compreso    il

disciplinare di gara ove interpretato in maniera difforme  da  quanto

rappresentato nel presente ricorso.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Brescia;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti gli artt. 74 e 120, comma 2 bis, cod. proc. amm.;

Relatore nella camera di consiglio del  giorno  11  ottobre  2017  la

dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi  per  le  parti  i  difensori  come

specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO e DIRITTO

Il Comune di Brescia ha disposto l’esclusione della (omissis) s.r.l. dalla gara per l’affidamento del servizio di manutenzione ordinaria del verde pubblico comunale per il periodo 1.1.2018 – 31.12.2020, a causa della risoluzione per inadempimento del contratto di appalto precedentemente sottoscritto con la stessa ditta per l’esecuzione del medesimo servizio di manutenzione ordinaria del verde, sullo stesso lotto (Zona sud-ovest) e delle gravi infrazioni compiute, che hanno determinato la risoluzione stessa.

Appare opportuno precisare, per una migliore comprensione dei fatti, che, successivamente al provvedimento di risoluzione, il Comune di Brescia ha provveduto, ai sensi dell’art. 140 del D.lgs. 163/2006, all’interpello degli operatori economici che seguivano l’impresa (omissis) nella graduatoria riguardante il lotto n. 4 (approvata con la determinazione dirigenziale n. 510 del 23.2.2016), ma tale procedura ha avuto esito negativo. Per tale ragione, il Comune è stato costretto – previo affido del servizio, medio tempore, a una impresa aggiudicataria di un altro lotto – ad avviare (con bando pubblicato il 14 aprile 2017) una nuova procedura di gara per l’affidamento del medesimo servizio, alle medesime condizioni contrattuali di cui al contratto stipulato con (omissis) e risolto in danno dell’impresa, che, ciononostante, ha ritenuto di avere titolo per partecipare alla gara.

Il primo, essenziale, punto fermo che si deve assumere, al fine della corretta risoluzione della controversia è, dunque, il fatto che il contratto oggetto della gara, l’esclusione dalla quale è avversata, è esattamente lo stesso contratto precedentemente affidato alla ricorrente e ora risolto (si tratta, infatti, del quarto lotto di cinque, unitari e collegati, avente il medesimo oggetto e la stessa scadenza di quello già risolto, collegata con quella degli altri cinque, gestiti sempre unitariamente).

Non ci si trova, dunque, in presenza, come sostiene, invece, parte ricorrente, di una nuova e autonoma gara d’appalto, ma della rinnovazione del procedimento di scelta del contraente per l’esecuzione del medesimo contratto risolto in danno di (omissis).

Ciò chiarito, il provvedimento di esclusione dalla rinnovata procedura richiama, a fondamento della stessa, il potere riconosciuto alle stazioni appaltanti di precludere la partecipazione alla gara a imprese che non siano idonee a garantire la corretta esecuzione del contratto ai sensi delle lettere a) e c) del comma 5 dell’art. 80 del d. lgs. 50/2016. Il Comune, infatti, oltre a ritenere rilevante la risoluzione del precedente contratto, ha inteso valorizzare anche la ravvisata gravità delle infrazioni in materia di sicurezza, lavoro e ambiente contestate dal Comune stesso alla ricorrente, sempre nell’esecuzione del precedente contratto.

La (omissis), però, considerato che la risoluzione contrattuale invocata dal Comune di Brescia è stata contestata (con atto di citazione notificato il 27 marzo 2017), ha ritenuto che la esclusione fosse stata disposta in violazione dell’art. 80, comma 5, lett c) del Codice degli appalti (che limita la possibilità della stessa ai soli casi in cui la risoluzione contrattuale sia incontestata o confermata da una sentenza passata in giudicato) e, conseguentemente, ha avviato un procedimento di precontenzioso presso l’Autorità Nazionale Anticorruzione.

Il Comune ha rigettato la richiesta di aderire alla procedura di precontenzioso e, secondo la (omissis), solo in tale occasione avrebbe rappresentato, non direttamente all’impresa, ma ad ANAC, a giustificazione del proprio rifiuto, di aver ravvisato, nei confronti della (omissis), anche gravi infrazioni in materia di sicurezza, lavoro e ambiente, ex art. 80, comma 5, lett. a), pur omettendo di indicare alcuna circostanza o verbale di accertamento riferiti alle asserite gravi infrazioni.

Ciò sarebbe, secondo parte ricorrente, ulteriormente lesivo della propria posizione, a causa della possibile annotazione nel Casellario che potrebbe essere disposta da ANAC a seguito della segnalazione e, pertanto, la (omissis) si è determinata a notificare il ricorso in esame.

Con esso è stata dedotta, in primo luogo, l’illegittimità del provvedimento per violazione e falsa applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. c) del d. lgs. 50/2016 e s.m..

L’avviso di avvio del procedimento di esclusione riporterebbe solo il riferimento all’art. 80, comma 5, lett.re a) e c) del Codice degli appalti e si sarebbe limitato a dare conto di quanto già contestato nel provvedimento di risoluzione del contratto e nel correlato giudizio. Ciò integrerebbe, secondo la ricorrente, la palese violazione dell’art. 80, lett. c), in quanto tale disposizione imporrebbe l’esclusione delle sole imprese cui sia imputabile un inadempimento contrattuale non contestato o confermato in giudizio, non potendosi configurare gravi illeciti professionali nelle ipotesi in cui sia intervenuta la contestazione giudiziale della risoluzione.

Il motivo di ricorso risulta, però, solo parzialmente fondato. Non lo è nella parte in cui prende le mosse dal presupposto che alla (omissis) sarebbe stata correttamente contestata la sola applicazione dell’art. 80, comma 5, lett. c) del d. lgs. 50/2016.

Anche nella comunicazione di avvio del procedimento di esclusione, infatti, si fa espressamente riferimento alle ipotesi di legge individuate alle lettere a) e c) della disposizione in parola, nonché al “provvedimento di risoluzione del contratto n. 450 del 17.2.2017”, ma anche a “tutti gli atti di contestazione e documenti del relativo procedimento” che riguardano proprio quelle violazioni di legge che sono state elencate negli atti successivi a dimostrazione dell’inaffidabilità della concorrente ai sensi della lettera a) del comma quinto dell’art. 80 citato.

Solo apparentemente, dunque, la stazione appaltante si sarebbe limitata a soffermarsi sulla risoluzione, dovendosi, invece, ritenere che la stessa abbia considerato parimenti rilevanti, rispetto alla risoluzione in sé (solo in parte dovuta alla non corretta esecuzione del contratto), i fatti e le conseguenti violazioni di legge che hanno determinato il ricorso alla risoluzione, integrando la violazione delle disposizioni poste a tutela dell’ambiente e dei lavoratori, per tutto quanto si avrà modo di meglio evidenziare nel prosieguo.

Ciò chiarito, la doglianza merita apprezzamento laddove deduce la non corretta applicazione, nella fattispecie, dell’esclusione ex art. 80, comma 5, lettera c).

Il dato letterale delle norma esclude la possibilità di dare rilevanza alla precedente risoluzione del contratto, stipulato tra la stessa stazione appaltante e lo stesso imprenditore partecipante alla gara successiva, in tutti i casi in cui la risoluzione sia sub judice.

Invero la lettura obbligata in tal senso induce a ritenere la norma sospetta di incostituzionalità e di violazione dei principi comunitari, nella misura in cui, di fatto, vanifica gli effetti propri della risoluzione contrattuale, non precludendo alla parte in danno della quale si è risolto il contratto di partecipare alla gara per l’affidamento dello svolgimento della parte residua del medesimo contratto che, per definizione, si è dimostrata inidonea a eseguire.

In altre parole, la mancata previsione di un’eccezione per i casi come quello in esame, consentirebbe agli operatori di strumentalizzare il fatto di avere contestato giudizialmente il provvedimento di risoluzione, per vedersi riassegnato lo stesso contratto dal quale potrebbe anche, come nel caso di specie, aver richiesto essa stessa, in via riconvenzione, al giudice, di essere sciolta.

Ne deriva una normativa fortemente sospetta di incompatibilità con la direttiva comunitaria (considerando 101 e art. 57 paragrafo 4 lett. g) della direttiva 2004/24) e di illegittima costituzionale, come già rilevato, peraltro, anche dal Consiglio di Stato, sez. V, nella sentenza del 27 aprile 2017, n. 1955 in cui si è, però, ritenuto non sussistere l’interesse a sollevare la questione di compatibilità, così come si dimostrerà, anche nel caso in esame.

L’esclusione, infatti, è stata disposta dal Comune di Brescia anche in ragione della lettera a) dello stesso comma 5 dell’art. 80 del d. lgs. 50/2016.

Poiché, quindi, il provvedimento risulta reggersi anche solo su tale presupposto, come meglio si chiarirà, la questione non può essere qualificata come “rilevante” ai fini della definizione della controversia, con la conseguenza che il giudizio di legittimità costituzionale e rinvio pregiudiziale sono preclusi a causa della carenza del necessario presupposto.

Precisato, dunque, che la censurata esclusione trova fondamento nelle previsioni delle direttive comunitarie, così come recepite e attuate dal legislatore nazionale e, dunque, non può in alcun modo ritenersi improprio o tantomeno illegittimo il richiamo operato dal Comune ai principi comunitari, come invece sostenuto nella seconda censura, si può passare all’esame delle doglianze sub 3 e 4, che possono essere trattate congiuntamente.

Con la prima di esse, (omissis) ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 80, comma 5, lettera a) per carenza assoluta di motivazione: l’astratto e generico richiamo ad atti e provvedimenti adottati in seno al procedimento di risoluzione anticipata del contratto, non integrerebbe l’adempimento dell’obbligo c.d. “rinforzato” di motivare i provvedimenti espulsivi dalle gare pubbliche. Inoltre, (censura n. 4) la ricorrente aveva chiesto che fossero espunti, in sede di autotutela, i riferimenti a fattispecie delittuose e debitamente accertate cui si riferirebbe la lettera a) del comma 5 dell’art. 80 del d. lgs. 50/2016 e che non sussisterebbero nel caso di specie. L’istanza è stata rigettata sulla scorta di una lettura della norma – per cui alla stazione appaltante sarebbe consentito di dimostrare con qualunque mezzo adeguato la sussistenza di gravi infrazioni alla norme in materia di sicurezza e in materia ambientale – avversata da parte ricorrente, ritenendo non ipotizzabile che il legislatore abbia inteso trasferire alla stazione appaltante competenze spettanti alla polizia giudiziaria, agli ispettori del lavoro o dell’INPS o addirittura all’Autorità Giudiziaria, precludendo la possibilità all’impresa di difendersi.

 

Il Collegio non ritiene condivisibile la tesi.

In primo luogo, come evidenziato dal Comune, il provvedimento avversato è stato adottato, per quanto qui di interesse, sulla scorta della norma che consente alle Stazioni Appaltanti di escludere gli operatori economici da una gara pubblica dimostrando le gravi infrazioni in cui gli stessi sarebbero precedentemente incorsi con qualunque mezzo adeguato.

Tali violazioni coincidono, nel caso di specie, con quelle già contestate alla odierna ricorrente (e che hanno condotto alla risoluzione del contratto) e rappresentate dalla violazione di norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e, più in generale, di quelle che impongono, ai sensi del comma 3 dell’art. 30 del medesimo codice degli appalti, agli operatori economici di rispettare “gli obblighi in materia ambientale, sociale e del lavoro stabiliti dalla normativa europea e nazionale, dai contratti collettivi o dalle disposizioni internazionali elencate nell’allegato X)”. A (omissis), infatti, sono stati contestati: il mancato rispetto della clausola sociale, il non aver impiegato le figure professionali né i mezzi tecnici proposti nell’offerta tecnica; l’aver smaltito i residui degli sfalci eseguiti nel SIN Caffaro, potenzialmente contaminati da PCB, come se fossero stati rifiuti biodegradabili e quindi destinati al compostaggio, l’aver violato, sotto più profili ed in più occasioni, le norme a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori.

Il Collegio ritiene, dunque, di poter condividere la tesi del Comune, secondo cui “Si trattava di condotte assolutamente rilevanti nella valutazione dell’inaffidabilità di (omissis) nella selezione dell’aggiudicatario del servizio di manutenzione del verde pubblico nel lotto già affidato alla cura della ricorrente.” (così la memoria del Comune a pag. 8).

È pur vero che si tratta di contestazioni mosse dal Comune e che non vi sono state fattispecie delittuose accertate da sentenze penali e/o civili e verbali di accertamento provenienti da autorità giudiziarie e/o amministrative.

Ciononostante, tenuto conto di quanto evidenziato nelle apposite linee guida ANAC, può ritenersi legittimo il provvedimento di esclusione fondato anche solo sull’applicazione delle penali e l’avvio del procedimento di escussione della polizza fideiussoria, entrambi intervenuti nella fattispecie e di per sé soli sufficienti a giustificare il giudizio di inaffidabilità dell’impresa ai sensi del punto 2.1.1.1 lett. b) delle linee guida stesse.

Ad abundantiam, peraltro, la corretta applicazione della disposizione può essere desunta considerando che la lettera a) del comma 5 dell’art. 80 del d. lgs. 50/2016, prevede che “la stazione appaltante possa dimostrare con qualunque mezzo adeguato la presenza di gravi infrazioni debitamente accertate”.

La disposizione attua il considerando 101 della direttiva, a mente del quale le amministrazioni aggiudicatrici “dovrebbero continuare ad avere la possibilità di escludere operatori economici che si sono dimostrati inaffidabili”, ed in particolare dovrebbero “mantenere la facoltà di ritenere che vi sia stata grave violazione dei doveri professionali qualora, prima che sia stata presa una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori, possano dimostrare con qualsiasi mezzo idoneo che l’operatore economico ha violato i suoi obblighi”.

Un’interpretazione comunitariamente e costituzionalmente orientata impone, dunque, di qualificare come adeguatamente dimostrata la sussistenza di gravi infrazioni quando la loro contestazione abbia condotto alla risoluzione della precedente relazione contrattuale intercorrente tra la stessa stazione appaltante e la stessa impresa, per l’esecuzione del medesimo appalto.

Può, dunque, concludersi che il Comune di Brescia, abbia, sia nel corso del procedimento, sia nella presente sede giudiziaria, debitamente dimostrato la gravità dell’inadempimento contestato a (omissis), risultando del tutto indifferente, ai fini che qui ci occupano, il fatto che le violazioni ravvisate siano negate dall’impresa: non può, infatti, formare oggetto del giudizio avanti al giudice amministrativo l’accertamento dell’effettiva sussistenza delle violazioni che hanno condotto alla risoluzione del contratto (che riguardano sia il profilo ambientale, dal momento che alla (omissis) è contestato il mancato rispetto del corretto conferimento dei rifiuti, che sarebbe stato desunto dalla mancata produzione dei formulari di raccolta attestanti il conferimento al punto di raccolta di “Aprica A2A” con riguardo al codice CER 2002203 (non biodegradabili), pur essendo prevedibile che vi sia stato lo sfalcio di una certa quantità di erba nel sito della ex Caffaro, di cui, però, non vi è traccia), che la sicurezza dei lavoratori, che, in più occasioni, avrebbero operato senza l’impiego dei presidi di sicurezza.

Se, dunque, si negasse che le violazioni contestate alla ricorrente e puntualmente ricostruite nella determinazione che ha disposto la risoluzione del contratto, siano riconducibili a quelle “gravi infrazioni debitamente accertate” che il legislatore ha indicato come presupposto per escludere dalla gara un concorrente, si finirebbe per riconoscere un indebito spazio a un vero e proprio abuso del diritto da parte dell’impresa che ha invocato il fatto dell’avvenuta contestazione in giudizio della risoluzione del contratto per paralizzare il potere del Comune di Brescia di escluderla dalla gara.

Come chiarito dal Consiglio di Stato, nella sentenza n. 693 del 2014, infatti, “l’abuso del diritto, lungi dal presupporre una violazione in senso formale del diritto, comporta l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore”.

Prendendo, quindi, le mosse dalla considerazione che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che, nel caso della lettera a), vi sia la discrezionalità della stazione appaltante nell’individuare la “grave infrazione” (con conseguente onere motivazionale, debitamente espletato nel caso di specie) e è sufficiente che si riscontri un’infrazione che sia stata oggetto di un’autonoma verifica da parte dell’Amministrazione (Cons. Stato, 4519/2012, Tar Marche, 292/2005), la previsione deve ritenersi integrata, nel caso di specie. Il provvedimento che contiene l’accertamento amministrativo delle violazioni è, infatti, individuabile nella stessa determinazione n. 450 del 17 febbraio 2017, con cui il Comune ha disposto la risoluzione del contratto nei confronti della (omissis), richiamando tutte le precedenti contestazioni delle violazioni rilevate e le sanzioni applicate (di lieve entità, ma ripetute).

Ritenere che la mera contestazione di tali violazioni da parte dell’impresa destinataria di esse sia sufficiente ad impedire che la stazione appaltante possa escludere dalla partecipazione all’esecuzione della parte rimanente del contratto risolto la precedente aggiudicataria equivarrebbe, dunque, a legittimare un abuso del diritto, che precluderebbe, di fatto, all’ente pubblico contraente di avvalersi della facoltà riconosciutagli dall’ordinamento di risolvere, a determinate condizioni, il contratto.

Ancorché l’attività contrattuale dell’ente pubblico sia soggetta all’evidenza pubblica, tale possibilità è puntualmente prevista da specifica disciplina, per quanto riguarda l’accesso alla stessa, ma ciò non esclude che i principi contenuti nell’art. 1453 e riferiti agli effetti della risoluzione contrattuale non possano trovare applicazione.

È pacifica, in giurisprudenza, l’applicabilità di tale articolo e dei seguenti alla fase dell’esecuzione anche del contratto pubblico.

In particolare, tale disposizione prevede che “non può più chiedersi l’adempimento quando è stata domandata la risoluzione. Dalla data della domanda di risoluzione l’inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione.”.

Si tratta di puntualizzazioni che tendono ad affermare il principio secondo cui, quando ricorrono le condizioni cui il legislatore subordina la possibilità di sottrarsi unilateralmente al vincolo contrattuale, mediante la risoluzione, la controparte non può in alcun modo imporre, altrettanto unilateralmente, l’esecuzione del contratto.

Considerato che tale disposizione non attiene alla sfera della scelta del contraente, disciplinata dalla peculiare normativa dei contratti pubblici non si ravvisa alcuna ragione per cui il principio non possa trovare applicazione con riferimento all’esecuzione di un contratto stipulato con una pubblica amministrazione.

Conseguentemente:

 

  1. a) sulla base della giurisprudenza costante nel tempo, è sufficiente, ai fini di integrare una grave inadempienza, che si riscontri un’infrazione che sia stata oggetto di un’autonoma verifica da parte dell’Amministrazione: non appare ravvisabile ragione per cui tale principio, affermato in relazione alla previgente normativa, non posso trovare applicazione anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice che, sul punto, non pare aver introdotto alcuna sostanziale novità con riferimento alla particolare ipotesi di esclusione dalla gara oggi disciplinata alla lettera a) del comma 5 dell’art. 80 del d. lgs. 50/2016;

 

  1. b) la possibilità di risolvere il contratto stipulato con l’operatore inidoneo e responsabile di gravi infrazioni sarebbe definitivamente frustrata se questi non potesse essere escluso dalla partecipazione alla gara che la stazione appaltante sia costretta a bandire per l’esecuzione della parte restante del medesimo contratto (non potendo scegliere direttamente un diverso interlocutore);

 

  1. c) in ogni caso, ai sensi dell’art. 1453, l’operatore che, come nel caso di specie (omissis), abbia esso stesso chiesto (con domanda riconvenzionale) la risoluzione del contratto non può più chiederne l’esecuzione e anche tale disposizione risulterebbe priva di significato se tale soggetto potesse poi concorrere all’affidamento della parte residua del contratto risolto.

 

Ne deriva l’infondatezza anche della quinta censura, con cui (omissis) ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 1453 del codice civile, laddove il Comune ha individuato un ulteriore motivo di esclusione dalla gara della ricorrente nella impossibilità per (omissis) di richiedere l’affidamento del servizio oggetto del precedente contratto risolto e, comunque, l’inapplicabilità dell’art. 1453 del c.c. nelle gare pubbliche.

Tutto quanto sin qui evidenziato vale a escludere anche la dedotta violazione degli artt. 24 e 97 della Costituzione, semmai invocabili, per le considerazioni che precedono, a tutela della posizione dell’Amministrazione che finirebbe per vedersi preclusa la possibilità di ottenere, in un’ottica di perseguimento dell’interesse pubblico, la risoluzione di un contratto stipulato con un operatore che non ha saputo garantire il rispetto della normativa in materia di ambiente, sicurezza e lavoro.

Così respinto il ricorso, le spese del giudizio seguono l’ordinaria regola della soccombenza.

 

P.Q.M

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida, a favore dell’Amministrazione, nella somma di euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre ad accessori, se dovuti. .

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 11 ottobre 2017 con l’intervento dei magistrati:

 

Alessandra Farina, Presidente

Mara Bertagnolli, Consigliere, Estensore

Alessio Falferi, Consigliere

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 17 OTT. 2017.

 

Raimondo Nocerino, classe 1976, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli
Federico II nel 2000 con lode, maturando esperienze di studio in Spagna.

Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Diritti dell’Uomo presso l’Ateneo Federiciano nel marzo 2006 e presso la stessa Università, nel2012, il diploma di perfezionamento in “Diritto dell’unione Europea: la tutela dei diritti”.

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