CONSULENZA SPECIALISTICA ALLA PREVENZIONE COVID -19

CONSULENZA SPECIALISTICA ALLA PREVENZIONE COVID -19

Per ripartire bisogna organizzarsi in tempo e sapere come muoversi nel mare confuso delle ordinanze.
Per questo la Rete di Professionisti UnicaMente ha deciso di offrire una consulenza che sappia consigliare gli imprenditori e le società in questa seconda fase e possa affiancarli con serietà e professionalità.

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La corretta prevenzione si implementa nelle molteplici dinamiche aziendali.
La tutela della salute in azienda, protocolli condivisi di prevenzione, vicini alle persone.
Uno staff di specialisti: tecnici della sicurezza, medici del lavoro e consulenti giuridici è pronto a fornire alla vostra azienda quanto necessario per un corretto adeguamento alla normativa.

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LA GIUSTIZIA CIVILE AI TEMPI DEL“CORONAVIRUS”

LA GIUSTIZIA CIVILE AI TEMPI DEL“CORONAVIRUS”

La situazione di emergenza creata dal Covid-19, nel campo del processo ha determinato la “sospensione” generalizzata di udienze e termini processuali prevista dai commi 1 e 2 dell’art. 83 D.L. 18/2020.

Il termine finale di tale sospensione più volte posticipato, con tutta probabilità verrà prorogato a fine  giugno, una data  vicina al periodo feriale, per cui è facile pensare che l’attività nei Tribunali riprenderà solo dopo la pausa estiva, quando, si spera, saremo definitivamente usciti dall’emergenza .

Se vogliamo governare questa crisi dobbiamo immaginare, sin da ora, soluzioni che possano garantire un’immediata ripresa, seppure parziale, dell’attività giudiziaria. Un rinvio indiscriminato a dopo l’estate non è degno di un Paese civile. Non è accettabile che i procedimenti relativi alle controversie in materia di famiglia (a tal proposito mi chiedo fino a quando saranno sospese le negoziazioni assistite) di lavoro, di locazione, societario e fallimentare possano subire una paralisi così lunga, soprattutto se si pensa che nel nostro Paese la Giustizia è già al collasso.

Nel decreto  Cura Italia sono previsti alcuni strumenti.  Lo svolgimento delle udienze  civili mediante collegamenti da remoto non essendo tutti adeguatamente formati, con tutta probabilità determinerà la diminuzione del numero dei processi trattati per ogni singola giornata, il che comporterà, giocoforza, ulteriori differimenti con rinvii, anche delle nuove cause, al 2021.

Nel decreto è prospettata un’altra ipotesi e cioè quella di consentire la celebrazione dell’udienze nella forma cosidetta “figurata” preservando lo scambio delle difese e dei documenti all’esito del quale  il provvedimento è reso fuori udienza. Il nostro processo civile, da anni,si avvale degli strumenti telematici e chi conosce la procedura civile sa bene che il processo si svolge seguendo un binario preordinato, fatto di scadenze e decadenze. Se si esclude la fase istruttoria, per la quale è necessaria la presenza fisica dell’avvocato e dei testi, nelle altre udienze, con il deposito di difese scritte, il diritto alla difesa non è violato

Per non parlare del processo in fase di appello che si trascina stancamente senza che sia richiesta alcuna attività dell’avvocato, fatta eccezione per le udienze collegiali, che si concludono, il più delle volte con un sommesso “può passare a sentenza” nella speranza che il magistrato relatore non rinvii la causa  di un altro anno “per esigenze di ruolo”. Per dare un segnale importante  per la ripresa, gli Uffici giudiziari hanno lo strumento che gli consente di evitare lunghi differimenti e, quindi, ben venga  disciplinare, con un decreto di urgenza, l’utilizzo in modo esteso dell’udienza figurata. In questo periodo emergenziale, nei termini stabiliti e in forma sperimentale,  gli avvocati, con il processo telematico, potrebbero svolgere pienamente le proprie funzioni  difensive(si pensi al deposito delle memorie istruttorie o alla precisazione delle conclusioni)e il Giudice assumere le decisioni richieste a mezzo della propria consolle con un corretto svolgimento della causa “in remoto” ma senza contemporaneità. Questa modalità,  applicabile soltanto ad alcune fasi del processo, e previo consenso  degli avvocati, va valutata e utilizzata in forma estesa, proprio per garantire un corretto e tempestivo svolgimento di quelle udienze nelle  quali, al contrario, è necessaria la coeva presenza degli avvocati. La prima udienza di comparizione, intesa come effettivo momento di confronto e le udienze istruttorie potrebbero, così essere trattate con maggiore tempo e cura, se fissate in orari rigidamente prestabiliti. Gli avvocati sono pronti ad accettare la sfida tecnologica che la situazione d’emergenza pone e a sperimentare un nuovo modello di processo civile  che restituisca alla difesa la sua centralità. E’ del tutto evidente che le soluzioni prospettate presuppongono una convinta e fattiva collaborazione dei magistrati e l’esistenza di efficienti presidi di cancelleria, il cui personale è stato decimato da politiche scellerate di tagli di spesa. Ma come insegna questa crisi, riusciremo a superare questo difficile momento solo con una forte capacità innovativa e il contributo di tutti.

Documento redatto dalla Rete di Professionisti

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In tema di sospensione del pagamento dei canoni di locazione al tempo del virus Covid-19

Ho il piacere di girarvi due articoli sul tema scritti da due avvocati che fanno parte della nostra Rete di Professionisti UnicaMente. Entrambi i lavori esaminano le norme codicistiche alla luce della recente normativa emergenziale e mentre l’avv. Giuseppe Sparano pone, principalmente, l’accento sugli aspetti sostanziali delle norme codicistiche, l’avv. Raimondo Nocerino sofferma la sua attenzione sulla rilevanza processuale delle norme contenute nel Decreto Legge n. 18 del 20 marzo 2020 – cd. Cura Italia -. Dalla lettura di questi due interessanti interventi emerge un bel confronto, ricco di stimolanti spunti di analisi.

Prima di lasciarvi alla lettura dei due articoli, mi permetto di dare un semplice suggerimento e di fare due brevi riflessioni. Il suggerimento riguarda i conduttori ai quali consiglio di inviare (a mezzo raccomandata anticipata via fax, messaggio di posta elettronica certificata, telegramma) una tempestiva comunicazione al locatore con la quale lo si avvisa dell’impossibilità sopravvenuta di utilizzare l’immobile, per causa a lui non imputabile, e nel contempo, si formula una richiesta di sospensione del pagamento del canone di locazione, per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza.

La prima riflessione riguarda la necessità che il Governo e il Parlamento intervengano con un provvedimento legislativo che, quantomeno, preveda agevolazioni fiscali anche nei casi in cui il contratto di locazione per uso diverso riguardi gli immobili di categoria A e non solo quelli di categoria C, come finora avviene.

La seconda riflessione è un invito alle parti a trovare una soluzione conciliativa secondo criteri di solidarietà e buona fede, ispirati prima che dal diritto, dal buon senso non essendo interesse.

Avv. Alessandro Senatore

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni.
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Inadempimento e responsabilità nel decreto cura Italia. Avv. Raimondo Nocerino

Il Decreto Legge n. 18 del 20 marzo 2020 – cd. Cura Italia – “trapianta” la fenomenologia dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, della quale a più titoli esso si interessa, nella materia delle obbligazioni e del relativo adempimento. Ciò avviene, in particolare, attraverso la disposizione dell’art. 91 co. 1 del Decreto citato: disposizione che aggiunge infatti un comma 6 bis all’articolo 3 del decreto  legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13. Secondo la previsione normativa: “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Vi è stata, in prima battuta, la tentazione di leggere nella disposizione l’introduzione opelegis  di una sorta di “autotutela” del debitore, quasi che il contesto emergenziale che l’Italia – e la sua economia nazionale – vive sia in sé ragione sufficiente a “scriminare”, e sempre, il debitore inadempiente. Ancora, una ulteriore lettura della disposizione parrebbe ricondurre il suo contenuto precettivo all’istituto della impossibilità della prestazione, quale cristallizzato dall’art. 1256 c.c. Chi scrive è in disaccordo con entrambe le declinazioni ermeneutiche offerte, essendo viceversa persuaso che il legislatore d’urgenza abbia avuto  comunque un  –diverso – merito nell’introdurre il dettato normativo qui in considerazione. Chiarisco le conclusioni che ho succintamente anticipato, con alcune brevi argomentazioni. I) Anzitutto,  l’ambito oggettivo di applicazione della disposizione posta dall’art. 91 co. 1 del D.L. cit. è ben più ampio della materia contrattuale e, segnatamente, dei contratti a prestazioni corrispettive (1467 c.c.); la previsione normativa, come si è visto, si riferisce al “debitore” e cioè al soggetto passivo del rapporto obbligatorio, il quale ultimo, come è noto, non origina esclusivamente da contratto (art. 1173 c.c.).  Ora, questa precisazione preliminare non deve essere trascurata. Infatti,  l’impossibilità della prestazione è elevata dalla disciplina codicistica, rispettivamente, a causa estintiva della obbligazione (art. 1256 c.c.) e a ragione di risoluzione del contratto (art. 1463 c.c. e ss.). Sicché, apparirebbe quanto meno curioso che un intervento emergenziale – che si ispira, per definizione, alla necessità di superare le difficoltà del momento –  abbia inteso identificare la fenomenologia emergenziale in considerazione con una ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione: l’effetto che ne deriverebbe sarebbe, per i contratti, l’impossibilità per la controparte di richiedere la (contro) prestazione e l’obbligo di restituirla se già l’avesse ricevuta; in parole diverse, sarebbe stata introdotta una ulteriore causa legale estintiva/risolutiva. Le conseguenze pratiche di un tale ragionamento condurrebbero a ritenere, allora, che a) il conduttore inadempiente dovrebbe rilasciare l’immobile locato; b) il mutuatario inadempiente all’obbligo di pagare alcune rate dovrebbe restituire la somma mutuata. Un approdo draconiano del tipo di cui si è detto mi pare vada escluso, e, sul piano dei criteri ermeneutici che fondano l’attività interpretativa, è, a ben considerare, lo stesso art. 91 co. 1 cit. ad escluderlo; così, in particolare, quando – non casualmente – esso disposto non opera richiamo letterale all’art. 1256 c.c. (ovvero all’art. 1463 c.c.). Non  casualmente, appunto. La disposizione posta dall’art. 1256 c.c., del resto, tradizionalmente avvince la casistica della impossibilità fisica di esecuzione piuttosto che quella giuridica (Cass., sez. III, n. 26959/2007, richiamata più recentemente da Cass., sez. III, 29/03/2019, n.8766, riferisce il campo applicativo della disposizione codicistica al caso in cui “impossibile [è] l’esecuzione della prestazione del debitore”). Orbene, nel conduttore che, in ragione del contesto emergenziale, non adempia al pagamento dei canoni medio tempore dovuti non si registra alcuna impossibilità tecnica o esecutiva nell’adempimento. II) In senso diverso, l’art. 91 co. 1 cit. ha riguardo non all’adempimento della prestazione ma, propriamente, all’inadempimento di essa ed alla responsabilità che ne consegue (art. 1218). E, per questo, introduce, per così dire, un criterio (relativo) di esonero di responsabilità per l’inadempimento, il quale – è bene sottolinearlo – non dispiega (se verificato come ricorrente nel caso di specie) portata caducante di un più ampio rapporto nel quale la prestazione inadempiuta si innestasse. In estrema sintesi, l’art. 91 co. 1 cit. valorizza l’impossibilità soggettiva di adempiere ai soli fini della eventuale esclusione della affermazione della responsabilità da inadempimento del debitore ex art. 1218 c.c. Non si tratta di un semplice gioco di parole. Il legislatore (come visto), lungi dal tipizzare una causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione, ha, propriamente, tipizzato il perimetro  della valutazione giudiziale, la quale sarà chiamata a considerare il presupposto normativo (del “rispetto delle misure”) ex art. 91 cit. ai fini della affermazione della “non imputabilità dell’inadempimento” e, dunque, dell’esonero della responsabilità ex art. 1218 c.c.  III. Il criterio introdotto dall’art. 91 co.1, inoltre, è relativo in quanto  “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto” va sempre valutato (dal Giudice) ai fini della affermazione della responsabilità da inadempimento ovvero del suo esonero, ma non esonera esso stesso dalla responsabilità. Ciò significa, si ribadisce, che la disposizione non ha portata sostanziale, etero-regolando il rapporto debito-credito; si tratta, in sintesi, di una direttiva che il legislatore dell’emergenza impone al Giudicante in sede di eventuale controversia (o alle parti stesse in sede di ipotetica  prodromica negoziazione/mediazione). Si è al cospetto, ancora, di direttiva che è senz’altro obbligatoria per il Giudicante, fermo l’esito della “valutazione” che questi condurrà in concreto. Un tale valutazione, diversamente detto, potrà conchiudersi nel ritenere che il rispetto delle misure escluda, nel caso concreto, la responsabilità da inadempimento ovvero, ed all’opposto, nel senso che il rispetto di tali misure non valgano ad escludere la responsabilità in argomento.  In ultima analisi, in costanza di emergenza cd. coronavirus, il decreto legge si limita a chiarire che, ai fini dell’art. 1218 c.c., la non imputabilità dell’inadempimento dovrà essere apprezzata, caso per caso, alla luce del rispetto“delle misure di contenimento di cui presente decreto”. Il che, né più e né meno, significa imporre al Giudicante l’osservanza di una direttiva ermeneutica in sede di “concretizzazione” di una clausola generale (nella specie, art. 1218 c.c. in parte qua si legge “a lui non imputabile”).

Avv. Raimondo Nocerino

Raimondo Nocerino, classe 1976, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Napoli
Federico II nel 2000 con lode, maturando esperienze di studio in Spagna.

Dottore di ricerca.

Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Diritti dell’Uomo presso l’Ateneo Federiciano nel marzo 2006 e presso la stessa Università, nel2012, il diploma di perfezionamento in “Diritto dell’unione Europea: la tutela dei diritti”.

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Effetti della pandemia sui contratti – tesi dell’unitarietà – Avv. Giuseppe Sparano

Sul noto presupposto dell’articolazione codicistica tra i Capi e le diverse Sezioni delle obbligazioni in generale (con le dicotomie e complementarietà ad es. degli l’artt.1176 e 1218 c.c.), resa ulteriormente complessa dagli indispensabili raffronti con la normativa concernente i contratti in generale e quelli singoli, l’attuale indagine si limita all’inadempimento (come vicenda dell’obbligazione) per verificarne le ipotesi e gli effetti della non imputabilità.
La dichiarata pandemia e i relativi provvedimenti legislativi adottati in Italia nell’ultimo periodo sono da qualificarsi come factum principis caratterizzato da essere un evento:
– estraneo alla sfera di controllo del contraente
– inevitabile (trattasi di provvedimenti a tutela della collettività ed il singolo, pur avendone teoricamente facoltà, ha un interesse inesistente o alquanto affievolito ad impugnarli).
La potestà legislativa che ha consentito anche soltanto alcuni specifici intervenuti sui contratti di lavoro (Titolo II D.L. 18/2020 Misure a sostegno del lavoro – artt.20 e ss. attribuendo in particolare anche la specifica codifica causale ex art.8 DM 9544/2016), sui contratti di patrocinio legale (Titolo V Ulteriori misure – art.83 e ss. sospensione delle udienze/procedimenti), su contratti di soggiorno e di acquisto di titoli di accesso a spettacoli di qualsiasi natura (art.88) e su alcuni contratti di appalto pubblico (art.91 col quale è aggiunge il comma 6 bis all’art.3 del DL 6/2020 convertito con modificazioni con Legge 13/2020) è, a mio avviso, sufficiente affinché sul piano giuridico ciò debba necessariamente valere per tutti i contratti.
In ogni contesto in cui l’adempimento o meglio l’inadempimento è in stretto rapporto causale con la legislazione limitativa ricorre l’esimente. Le regole codicistiche sono generali e i principi di coerenza giuridica e di equanimità prevedono che una volta applicate anche soltanto ad alcune delle predette fattispecie devono riguardare l’intero sistema: se il presupposto dell’impossibilità sopravvenuta è il medesimo anche gli effetti lo devono essere.
Al contempo il predetto evento esimente deve essere in rapporto causale con l’effettiva impossibilità di adempiere.
Il principale ambito di intervento della decretazione d’urgenza è l’inibizione per legge di un corposo numero di attività produttive al quale si aggiunge quella degli spostamenti sul territorio (riguardante prevalentemente le attività di trasporti anche se di minore impatto stante la deroga per conclamata necessità).
La complessiva entità dei molteplici contratti di ogni singola attività produttiva forzatamente impedita dalla decretazione, a mio avviso, subisce la modifica del sinallagma e dei reciproci obblighi dei contraenti con i relativi effetti da valutare, a seconda dei casi, a mezzo delle regole codicistiche e di eventuali contrattualizzate clausole in caso di pandemia.
La disamina di alcune ipotesi concrete da per presupposto che l’indagine concerne quei contratti i cui termini per l’adempimento non è ancora scaduto (o scaduto nelle more della decretazione) e di quelli ad esecuzione continuata o periodica.
Nei contratti di fornitura in cui la merce non è stata consegnata, l’acquirente al quale è stata impedita l’attività ha il diritto a far valere la cessazione dell’interesse alla merce rispetto al venditore che ne attende il pagamento.
A mio avviso ricorre l’impossibilità sopravvenuta stante il diretto rapporto causale con l’esimente: l’acquisto è funzionale all’attività. Le conseguenze sono il diritto di non adempiere ed evitare la consegna senza ulteriori aggravi. Similare situazione è quella in cui la merce sia stata già consegnata con il diritto a poterla restituirla senza adempiere al pagamento. In entrambi i casi gli effetti sono l’estinzione delle reciproche obbligazioni ai sensi dell’art.1256 c.c. E’ ipotizzabile che ciò valga per l’intera filiera anche a monte del fornitore per i contratti di approvvigionamento della materia prima e così via, con i dovuti discrimini per il permanere del necessario rapporto causale nella sua continuità.
Tra i contratti a prestazione continuata, le obbligazioni concernenti le locazioni subiscono, a mio avviso, similari conseguenze. Al contempo ricorre la peculiare previsione dell’art.1467 c.c. che consente anche la modifica concordata delle condizioni del contratto (l’ipotesi codicistica di “avvenimenti straordinari ed imprevedibili” possono ricondursi alla descritta medesima impossibilità sopravvenuta). Il conduttore la cui attività produttiva è stata impedita dalla decretazione d’urgenza ha il diritto di ritardare il pagamento dei canoni e/o di concordarne di diversi.
Per i contratti di patrocinio legale la prestazione è anch’essa impedita e ciò vale quale esimente da imputazioni di inadempimento. Al contempo, come in molteplici altri rapporti contrattuali, l’impossibilità è temporanea e gli effetti sono sia quelli stabiliti dal citato art.1467 c.c. e sia dall’art.1256, co.2 c.c.. Ai contraenti è rimessa la valutazione sul titolo dell’obbligazione e sulla natura dell’oggetto: ad esempio il cliente, quale creditore della prestazione, può dichiarare di non averne più interesse con estinzione dell’obbligazione, oppure il legale, per il perdurare dell’impossibilità può ritenere di non poter più espletare l’incarico ed anche in tal caso ricorre l’estinzione.
L’interesse delle parti alla prosecuzione o all’estinzione del contratto è coerente alla peculiare ipotesi di impossibilità sopravvenuta di carattere non definitivo (come invece
fu ad es. il divieto di meretricio imposto nel 1956 dalla cd legge Merli o i divieti a contrarre disposti dalle leggi razziali del 1939 in danno dei cittadini qualificati di “razza ebrea”). La temporaneità è inoltre per un periodo di tempo indeterminato (corrispondente a quanto durerà l’emergenza e sino a quando non verranno revocati i provvedimenti assunti) con un precedente rinvenibile nella legislazione speciale sugli ammassi agricoli del 1939, rimasta in vigore ben oltre la conclusione del secondo conflitto mondiale.
Avv. Giuseppe Sparano
Dottore di ricerca
Università Federico II Napoli

Avv. Giuseppe Sparano, nato a Napoli il 18.2.1965

Laureato nel 1987 con lode, presso l’Università Federico II di Napoli
Iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 22.2.1991 -patrocinio presso le Corte Superiori.
Dottore di ricerca in Diritto delle Imprese in crisi –  Università Federico II di Napoli
Docente di Diritto Commerciale corso in “Diritto dei contratti d’impresa” nelle Scuole di Specializzazione delle Professioni Università Federico II di Napoli e Università Vanvitelli (già  Seconda Università di Napoli).
Presidente dei Collegio dei probiviri della Camera degli Avvocati Civili di Napoli (già segretario e tesoriere).

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Le segnalazioni presso la Centrale d’Allarme Interbancaria

Quali sono le conseguenze del mancato pagamento degli assegni per difetto di provvista?

Il mancato pagamento di un assegno, bancario o postale, per assenza di provvista configura un’ipotesi di illecito che, per effetto di una precisa scelta legislativa improntata alla depenalizzazione dei reati minori, determina, oggi, l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie ed interdittive in luogo di quelle penali.

Al centro del sistema sanzionatorio introdotto dal D. Lgs. n. 507/1999 vi è la Centrale d’Allarme Interbancaria, un archivio informatizzato istituito presso la Banca d’Italia, che registra le irregolarità attinenti non solo agli assegni ma anche alle carte di credito ed ha lo scopo di elevare il grado di affidabilità dei predetti strumenti di pagamento.

In particolare, presso l’archivio informatizzato vengono segnalati i nominativi di coloro che hanno emesso assegni “senza autorizzazione” o “senza provvista” o di coloro ai quali sia stata revocata l’autorizzazione all’uso di carte di credito e di debito a causa di mancati pagamenti relativi a transazioni e/o prelevamenti effettuati con gli stessi.

Il responsabile di emissioni illecite di assegni è, pertanto, punibile, ai sensi degli artt. 1) e 2) della L. n. 386/1990, come modificata dal d.lgs. n. 507/1999, con l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ed è soggetto all’applicazione di ulteriori misure di carattere inibitorio, finalizzate ad escludere, in via temporanea, l’utilizzo di tale strumento di pagamento.

L’inserimento del nominativo del soggetto responsabile dell’emissione di un assegno “senza provvista”, nel segmento C.A.P.R.I. della C.A.I. determina la cd. “revoca di sistema” ed alla predetta iscrizione si deve riconoscere un’efficacia costitutiva, ovvero solo dal momento in cui il nominativo del soggetto segnalato viene iscritto nell’apposito segmento in essere presso l’archivio informatizzato, la revoca acquista efficacia di diritto e si applica la sanzione civile della cd. “interdizione bancaria” rappresentata: – 1) dalla revoca di tutte le autorizzazioni ad emettere assegni, per il periodo di sei mesi; – 2) dal divieto, per Istituti bancari ed uffici postali, di stipulare nuove convenzioni di assegni e di pagare assegni tratti dal medesimo dopo l’iscrizione nell’archivio, anche se emessi nei limiti della provvista.

L’Ente segnalante è, pertanto, il soggetto attivo che determina l’applicazione della sanzione, senza la necessità di controllo da parte del Prefetto e del Giudice, e esercita tale potere senza alcun margine di discrezionalità, non essendo la segnalazione vincolata ad una valutazione circa le ragioni del mancato pagamento, né tanto meno, come accade per la segnalazione a “sofferenza” della Centrale Rischi, ad una valutazione sulla solvibilità dell’autore dell’illecito.

Il soggetto passivo della sanzione è il traente ovvero il soggetto che ha emesso l’assegno non pagato per difetto di provvista; se il conto corrente è cointestato, ed uno solo dei cointestatari è stato interessato dalla sanzione dell’interdizione bancaria, la stessa non si estenderà ai cointestatari, mentre se il conto corrente risulta intestato ad una Società, la revoca disposta nei confronti dell’Amministratore p.t. determinerà anche la revoca dell’autorizzazione di tutti i conti della Società e di quelli personali.

Considerate le rilevanti conseguenze della misura interdittiva, la disciplina prevede, a tutela del responsabile della condotta trasgressiva e per la sola ipotesi di emissione di assegno senza provvista, un obbligo di carattere informativo a carico dell’Ente segnalante, rappresentato dal “preavviso di revoca” e la possibilità di estinguere il procedimento sanzionatorio attraverso il cd. “pagamento tardivo”, nei modi e tempi previsti.

In ordine all’obbligo informativo posto a carico dell’Ente segnalante va evidenziato che il “preavviso di revoca” deve essere effettuato con atto scritto, inviato, per telegramma o raccomandata a/r ovvero altro mezzo concordato tra le parti, di cui sia certa la data di spedizione e quella di ricevimento, entro 10 giorni della presentazione al pagamento, con l’avvertenza che, alla scadenza del termine di 60 giorni concesso per il “pagamento tardivo” ed in mancanza di prova idonea a confortare il predetto adempimento, il nominativo verrà iscritto nell’archivio informatizzato C.A.I., con la conseguente revoca di ogni autorizzazione ad emettere assegni.

In ordine al cd. “pagamento tardivo” va, invece, evidenziato che rappresenta una facoltà concessa al responsabile della condotta trasgressiva di estinguere il procedimento sanzionatorio effettuando un pagamento che comprenda, per espressa previsione normativa, oltre all’importo portato dal “titolo”, gli interessi legali, la penale prevista dall’art. 3 della Legge n. 386/1990 e le eventuali spese per il protesto o per la constatazione equivalente.

Il predetto “pagamento tardivo”, per poter determinare l’estinzione del procedimento sanzionatorio, deve intervenire nei limiti temporali previsti ovvero nei sessanta giorni dalla scadenza del termine previsto per la presentazione all’incasso del titolo e deve essere provato attraverso una quietanza liberatoria, con firma autenticata, rilasciata dall’originario beneficiario dell’assegno.

All’inserimento del nominativo presso la Centrale d’Allarme Interbancaria consegue, inoltre, la trasmissione della segnalazione al Prefetto, che entro 90 giorni dalla ricezione notifica all’interessato gli estremi della violazione ex art. 14 L. n. 689/1981, da considerarsi termini perentori, il cui mancato rispetto determinano l’estinzione dell’obbligazione relativa alla sanzione dovuta.

Il Prefetto concede il termine di 30 giorni per la presentazione di osservazioni difensive, nelle quali è possibile richiedere l’audizione personale del soggetto che ha emesso l’assegno non pagato per difetto di provvista, la cui mancata audizione è stata, però, ritenuta compatibile con la caratteristica di celerità del procedimento sanzionatorio e, quindi, non rappresenta causa di illegittimità dell’Ordinanza motivata che definisce il procedimento avverso la quale è sempre possibile proporre impugnazione davanti all’Ufficio del Giudice di Pace ex art. 22/bis L. n. 689/1981.

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Il trasferimento del bene pignorato inclusione dei beni ex art. 2912 c.c. Cass., Sez. III Civ., 28 giugno 2018, n. 17041

Decreto di trasferimento: cosa contiene ed è impugnabile?

Dopo il versamento del prezzo, il giudice dell’esecuzione può sospendere la vendita quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto, ovvero pronunciare decreto con il quale trasferisce all’aggiudicatario il bene espropriato, ripetendo la descrizione contenuta nell’ordinanza che dispone la vendita, e ordinando che si cancellino le trascrizioni dei pignoramenti e le iscrizioni ipotecarie, se queste ultime non si riferiscono ad obbligazioni assuntesi dall’aggiudicatario a norma dell’articolo 508 c.p.c. Il Giudice con il decreto ordina anche la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie alla trascrizione del pignoramento.

Il decreto contiene altresì l’ingiunzione al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto, lo stesso costituisce titolo per la trascrizione della vendita sui libri fondiari e titolo esecutivo per il rilascio.

Relativamente alla funzione ed agli effetti del decreto di trasferimento si può affermare che ai sensi dell’art. 586 c.p.c., che regola la liquidazione eseguita in sede concorsuale, rappresenta titolo esecutivo nei confronti dell’esecutato, e quindi del fallito, ma anche dei terzi detentori, se il loro godimento non discende da un titolo valido, che attribuisca situazioni di diritto oggettivo già opponibili alla massa e, in quanto tale, opponibile anche all’aggiudicatario, cui l’immobile sia stato trasferito in via forzata.

Al riguardo, il trasferimento della vendita forzata, il trasferimento dell’immobile aggiudicato è l’effetto di una serie di atti complessi, costituiti dall’aggiudicazione, dal successivo versamento del saldo del prezzo e infine dal decreto di trasferimento, quest’ultimo con funzione di verifica ed accertamento della sussistenza degli altri presupposti e, quindi, privo di autonoma efficacia traslativa in assenza delle altre condizioni. Pertanto il mancato pagamento del saldo prezzo di aggiudicazione dell’immobile pignorato legittima la revoca, anche d’ufficio, del decreto di trasferimento fino al momento in cui lo stesso venga portato in esecuzione.

L’avvenuto versamento del saldo prezzo da parte dell’aggiudicatario costituisce il termine finale nell’espropriazione forzata immobiliare.

L’effetto del trasferimento della proprietà del bene aggiudicato e tutti gli altri effetti, compreso il diritto del compratore di ottenere la consegna della cosa nelle condizioni in cui essa si trovava al momento della vendita medesima, si producono all’atto della pronuncia del decreto di cui all’art 586 c.p.c.

Il Decreto di trasferimento contiene l’indicazione dei confini catastali dell’immobile per permetterne l’identificazione, tale Decreto è titolo esecutivo per il rilascio (art.605 c.p.c.) in favore dell’aggiudicatario  e contro non solo il debitore, ma chiunque si trovi nel possesso o detenzione dell’immobile senza averne titolo: anche quest’ultimo è obbligato al rilascio purché, gli venga notificato oltre al decreto (quale titolo esecutivo) anche il precetto (art. 479 c.p.c.).

Il decreto di trasferimento, in quanto atto conclusivo del procedimento espropriativo, è sicuramente impugnabile con il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi (art.617 c.p.c.). si esclude qualsiasi altro gravame, come ad esempio il ricorso per cassazione, non avendo il decreto alcun contenuto decisorio, non essendo stato emesso all’esito di un contraddittorio per la composizione di situazioni soggettive in conflitto e non rivestendo la forma della sentenza.

Nel caso relativo alla sentenza Cass. Sez III del 28/06/2018 n.17041, la stessa stabilisce che il pignoramento di un terreno comporta l’estensione automatica dello stesso anche a tutti quegli ulteriori beni ad esso connessi, ex art. 2912 c.c., per accessione.

Infatti il punto essenziale dell’identificazione dell’immobile trasferito attraverso il decreto di cui all’art 586 c.p.c deve avvenire sulla base dei confini catastali del bene contenuti nel decreto di trasferimento del Giudice dell’Esecuzione, poiché l’identificazione dei beni trasferiti a conclusione di un espropriazione immobiliare deve essere compiuta in base alle indicazioni del decreto di trasferimento di cui all’art 586 c.p.c. vanno aggiunti quei beni a cui gli effetti del pignoramento si estendono automaticamente ex art 2912 c.c., anche se non espressamente menzionati nel predetto decreto e salvo che non ricorrano elementi tali da far ritenere che, in sede di vendita, si sia inteso escludere l’applicazione dell’anzidetta estensione, ne consegue che se il provvedimento di aggiudicazione e di trasferimento non dispone diversamente, l’estensione della vendita deve essere cosi prevista dalla legge per il pignoramento.

Pertanto, all’esito di un’aggiudicazione in seno al processo esecutivo immobiliare, vanno trasferiti, in favore dell’aggiudicatario, i beni indicati nel decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., corrispondenti a quelli di cui all’atto di pignoramento, in uno a tutti quei beni considerati come accessori, pertinenze, frutti, miglioramenti, addizioni, o che siano uniti fisicamente alla cosa principale, tale da non poter essere divisi.

La Corte di Cassazione Civile, Sezione III con la sentenza n. 17041 del 28/06/2018, ha confermato  nel caso di specie quanto era già stato statuito nei primi due gradi di giudizio, rigettando la richiesta dell’esecutato, avanzata nei confronti dell’aggiudicatario, di ottenere la convalida di sfratto, la risoluzione del contratto di locazione ed il rilascio dell’immobile insistente sul terreno pignorato, assumendo che il fabbricato, tra l’altro abusivo, insistente sul terreno pignorato, fosse di sua esclusiva proprietà e, pertanto, non trasferibile, insieme al bene principale, all’esito della procedura esecutiva.

La Corte, ha sancito che “l’identificazione dei beni trasferiti a conclusione di un’espropriazione immobiliare deve essere compiuta in base alle indicazioni del decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c., cui vanno aggiunti quei beni ai quali gli effetti del pignoramento si estendono automaticamente, ai sensi dell’art. 2912 c.c., come accessori, pertinenze, frutti ed anche i miglioramenti e le addizioni, ancorché non espressamente menzionati nel predetto decreto”, precisando che “qualora nell’ordinanza di vendita di un terreno non si faccia menzione di una costruzione insistente su di esso, è ammissibile la proposizione, nei termini di legge, di un’opposizione agli atti esecutivi, ma non, in prosieguo, la contestazione del diritto dell’aggiudicatario a procedere ad esecuzione forzata”.

Il ricorso, pertanto è stato rigettato.

Quanto emerge dalla sentenza oggetto di commento è che i beni trasferiti all’esito di una espropriazione immobiliare forzata sono quelli indicati nel decreto di trasferimento stesso emesso ex art. 586 c.p.c., ai quali si aggiungono i beni che si estendono all’effetto del pignoramento stesso in modo automatico, ai sensi dell’art 2912 c.c., come accessori, pertinenze, frutti, miglioramenti ed addizioni, oltre i beni che non espressamente menzionati nel decreto stesso, siano uniti fisicamente alla cosa principale cosi da costituirne parte integrante, come le accessioni.

Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Napoli. Diritto civile, in particolare nel contenzioso, procedure esecutive immobiliari, diritto comunitario, arbitrato e mediazione nazionale ed internazionale, diritto di famiglia, risarcimento del danno nell’ambito della responsabilità medica.

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Direttiva europea sul copyright

Il Parlamento europeo ha approvato la direttiva: cosa prevede e quali sono i punti di discussione?

Lo scorso 12 settembre è stata approvata la direttiva europea in materia di diritto d’autore relativamente alla sua applicazione online. La direttiva, si propone, infatti, di ridisegnare la mappa dell’utilizzo dei contenuti online, incoraggiata, senza dubbio, dal contesto normativo fermo ormai al 2001 quando internet non aveva ancora un ruolo centrale nel mercato degli Stati membri.

Proprio per questo una disciplina in materia si è resa necessaria e l’Europa ha risposto a questa esigenza di storicizzazione. Non mancano però consistenti dubbi in merito alla sua reale applicazione. Difatti, se da un lato l’Europa ha risposto a un’esigenza di modernità normativa, dall’altro, con la presente direttiva, si rischia di limitare il ruolo di internet.

Ma andiamo per gradi.

L’art. 1 della direttiva in parola espressamente prevede che: “La presente direttiva stabilisce norme volte ad armonizzare ulteriormente il quadro giuridico dell’Unione applicabile al diritto d’autore e ai diritti connessi nell’ambito del mercato interno, tenendo conto in particolare degli utilizzi digitali e transfrontalieri dei contenuti protetti. Stabilisce inoltre norme riguardanti le eccezioni e le limitazioni e l’agevolazione della concessione delle licenze, nonché norme miranti a garantire il buon funzionamento del mercato per lo sfruttamento delle opere e altro materiale”. Pertanto, l’intervento del Parlamento europeo mira a disciplinare gli utilizzi online dei contenuti protetti dal diritto d’autore, prevedendo licenze e concessioni per l’utilizzo a fronte del pagamento di una fee. Certamente assistiamo a uno sfruttamento incondizionato dei contenuti protetti su internet che, se da un lato pregiudica gli interessi dei soggetti che si ritengono lesi, dall’altro favoriscono una libera informazione. Quello che ci si chiede, infatti, è se siano stati correttamente bilanciati i due interessi.

A destare una particolare preoccupazione sono gli articoli 11 e 13 della direttiva.

Articolo 11 della direttiva.

Il primo va a disciplinare la protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale ed indubbiamente va ad incarnare le istanze degli editori che si ritengono lesi dai motori di ricerca che fungono da aggregatori di notizie (un esempio è indubbiamente costituito da google news). Pertanto, l’articolo 11, in particolare, viene considerato – dai più – come il manifesto della vittoria della lotta, intercorsa negli anni, tra i grandi gruppi editoriali e google. Viene infatti previsto: 1. il riconoscimento a favore degli editori di una remunerazione equa e proporzionata per l’utilizzo digitale dei loro contenuti da parte dei prestatori di servizi delle società di informazione; 2. il riconoscimento a favore degli autori di una quota adeguata dei proventi supplementari percepiti dagli editori per l’utilizzo di pubblicazioni di carattere giornalistico da parte dei prestatori di servizi della società dell’informazione.

Preoccupa innanzitutto che non siano stati precisati i criteri per stabilire la detta remunerazione a favore degli editori e degli autori. Pertanto, la norma si presta a un’interpretazione ampia che, in fase di recepimento, può limitare eccessivamente la libera circolazione dei contenuti in internet ovvero lasciare tutto il sistema internet assolutamente invariato, non risolvendo così il quesito della storicizzazione. La limitazione principale può avvenire nel momento in cui, a fronte della previsione della remunerazione, i motori di ricerca ritengano troppo dispendiosa tale attività e, di conseguenza, non facciano più da aggregatori di notizie, limitando la libera informazione in danno agli utenti e molto probabilmente in danno agli stessi editori. Pertanto, l’articolo 11 porta con sé un rischio concreto di una limitazione eccessiva per quanto concerne la circolazione dei contenuti online. E tale rischio non si presenta a monte, come da molti sostenuto: difatti, lo stesso articolo 11 precisa che tale limitazione non si applica nei confronti di utilizzi privati ovvero non commerciali. Ciò vuol dire che ciascun utente potrà sempre liberamente condividere notizie ed articoli – del resto anche il collegamento ipertestuale (c.d. snippet) è sempre consentito. Ma il problema rimane a valle. Vero è che gli utenti potranno condividere liberamente i contenuti giornalistici, ma se i contenuti giornalistici non vengono diffusi dai motori di ricerca, è chiaro che l’intero sistema d’informazione viene necessariamente compresso. Pertanto, il rischio vero è che il reale perdente della surriferita lotta tra i grandi gruppi editoriali e google sia proprio il “diritto acquisito” (finalmente) con internet a una libera informazione.

Articolo 13 della direttiva.

Altro articolo della direttiva che desta particolare preoccupazione è l’art. 13 che disciplina l’utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi di condivisione di contenuti online. Prevede infatti che i prestatori di servizi di condivisione di contenuti vadano a concludere accordi di licenza equi ed adeguati con i titolari dei diritti (case discografiche, cinematografiche ecc.). Ciò vuol dire che le piattaforme online possano ovvero debbano esercitare un controllo sui contenuti caricati dagli utenti, escludendo, pertanto, quelli di cui gli utenti non detengono i diritti. Questa norma desta particolare preoccupazione perché impone che i prestatori di servizi di condivisione (molto probabilmente la norma vuole riferirsi ai fornitori di servizi di hosting) svolgano un ruolo di controllo preventivo e generalizzato. Si discute, infatti, se si debba fare ricorso a sistemi tecnologici come quelli di cui dispone youtube (Content ID) in grado di bloccare direttamente i contenuti che ledono i diritti d’autore, senza un reale riscontro dei presupposti di legittimità.

Dai numerosi dubbi che scaturiscono dalla lettura della norma, si comprende, anche in questo caso, il timore di non giungere a una esatta ovvero idonea interpretazione della stessa.

***

Non deve sfuggire, però, che la direttiva deve essere recepita all’interno di ciascun Stato membro e il processo di recepimento sarà esso solo in grado di superare i dubbi sollevati, di sollevare le reali criticità ovvero di redimere le questioni sorte in questa fase. Certamente, seppure in via ipotetica, non è mai troppo presto per riflettere sulle sue possibili applicazioni e sui rischi ad essa connessi soprattutto quando in ballo ci sono interessi come quelli relativi alla libera informazione e libera circolazione della cultura.

Paola Carmela D’Amato, nata ad Avellino il 5 luglio 1984, avvocato civilista, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II di Napoli.
Dopo una proficua collaborazione con lo Studio legale Sparano ha iniziato l’attività professionale in proprio fondando lo Studio legale D’Amato e dedicandosi, prevalentemente, al diritto della proprietà industriale ed intellettuale.
E’ iscritta nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato.
Assiste diverse aziende campane nella tutela dei marchi.
Assiste aziende di produzione cinematografica nella stipula di contratti e nella gestione legale dei prodotti cinematografici.

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Assegni di divorzio, i nuovi criteri tutelano di più le donne del Sud

La recente sentenza della Cassazione, a Sezioni Unite, nel travolgere il recente criterio dell’autosufficienza economica, introdotto dalla contestata sentenza dello scorso anno, restituisce al matrimonio il suo carattere solidaristico.
A chi reclama un intervento normativo in materia di assegno divorzile rispondo preoccupato che il nostro legislatore negli ultimi tempi ha dato il peggio di se e che la materia non può essere mortificata da asettici criteri tabellari.
In questa fase di grande confusione, dovuta alle poco illuminanti sentenze della Cassazione, spetterà agli avvocati e ai giudici di merito lavorare insieme per elaborare nuovi criteri giurisprudenziali che, nell’esaminare caso per caso nel contempo salvaguardino i principi di solidarietà e pari dignità dei coniugi e contrastino insopportabili comportamenti speculativi.

Questo è il testo del mio intervento pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno (Campania) dello scorso 19 luglio.

Assegni di divorzio, i nuovi criteri tutelano di più le donne del Sud
di Alessandro Senatore Avvocato cassazionista e presidente di «Unicamente Rete di professionisti»

Caro direttore, il dibattito — giurisprudenziale e non — attorno alla questione dell’assegno divorzile è, da tempo immemore, foriero di dubbi e attriti. Nel tentativo di dirimere i conflitti tra gli ex coniugi ed i contrasti interpretativi tra gli operatori del diritto, la Cassazione civile è intervenuta a più riprese con sentenze che hanno segnato dei punti di svolta importanti. Dopo la nota sentenza numero 11504/2017 con la quale, non senza suscitare qualche perplessità, la Corte di Cassazione si era pronunciata affermando l’eliminazione, dai criteri di determinazione dell’assegno divorzile all’ex coniuge, del riferimento al tenore di vita in costanza di matrimonio, di recente la Cassazione, questa volta a Sezioni Unite, è intervenuta nuovamente sulla questione. La sentenza numero 18287/2018 dello scorso 11 luglio ha, in un certo qual modo, aggiustato il tiro della pronuncia precedente che a molti, tra gli addetti ai lavori, era apparsa troppo radicale e difficilmente adattabile in un ambito così delicato e peculiare come quello dei rapporti matrimoniali. Se la sentenza del 2017, infatti, aveva attribuito priorità all’applicazione del principio della pari dignità di genere rispetto al principio di solidarietà tra ex coniugi, con lo scopo di evitare che il rapporto matrimoniale, anche se definitivamente estinto sul piano personale, potesse dare adito al perpetuarsi di ingiustificati vincoli patrimoniali ultronei rispetto al divorzio, questa volta le Sezioni Unite sono giunte a considerare che non tutti i matrimoni rispondono alle medesime dinamiche. Si tratta di un traguardo importante che, senza smettere di guardare al futuro e dunque ai mutamenti di costume che sono intervenuti nella nostra società e che, correttamente, hanno valorizzato l’indipendenza e l’autonomia della donna e richiamato ciascun coniuge all’autoresponsabilità, non dimentica di considerare quei nuclei familiari in cui le scelte di vita economiche e personali risultano ancora legati a retaggi del passato o a condizioni contingenti.

La sentenza delle Sezioni Unite, che non ha reintegrato il criterio del «tenore di vita», contempla una serie di parametri compositi in cui assume preliminare importanza il contributo apportato dal coniuge alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto all’assegno divorzile. Alla pronuncia del 2017 erano seguite una serie di sentenze che nella rigida affermazione del principio dell’indipendenza e autosufficienza economica penalizzava il coniuge debole considerato, dopo il divorzio, come individuo avulso dal pregresso familiare e personale nonché dal contesto economico e sociale di appartenenza. I parametri delineati con la sentenza del 2017, infatti, non tenevano in considerazione quei matrimoni tuttora numerosi in cui le donne, per indole o cultura familiare, decidono di dedicarsi completamente alla cura dei figli e della casa, trascurando la professione o, ancora, quelle crisi coniugali intervenute in età avanzata, quando l’ingresso nel mercato del lavoro diventa più difficile, specie in realtà come quelle del Mezzogiorno in cui il lavoro manca o è mal pagato. Allo stesso tempo, questa sentenza riporta al centro della questione la figura dell’avvocato matrimonialista il fondamentale compito di sapere rappresentare scrupolosamente al giudice la presenza di uno squilibrio economico sussistente tra i due coniugi e l’apporto effettivo, in termini di sacrifici anche di carattere personale, prestato dal coniuge richiedente l’assegno.

Un grande lavoro in sede probatoria che comporterà, alla luce delle regole processuali vigenti, una dilatazione dei tempi del processo che già adesso appaiono inconciliabili con i tempi della vita quotidiana che, certamente, non può restare cristallizzata al momento della fase istruttoria. Il rischio, dunque, è quello di ottenere sentenze che arrivano troppo in ritardo mentre nel frattempo nella vita degli ex coniugi sono intervenuti profondi cambiamenti, personali o economici. Quello che ci si auspica è che il legislatore italiano intervenga sull’assetto processuale al fine di snellire la procedura in modo da consentire agli operatori del diritto di operare compiutamente ed a quanti si apprestano ad affrontare il dolore di un fallimento coniugale di poter riprendere in mano la propria esistenza in tempi brevi e nel migliore dei modi.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Le start up innovative

Il progredire tecnologico, un’opportunità di approfondimenti anche giuridici e la tempestività nelle risposte dei consulenti giuridici

Sempre di più, nel sentire quotidiano, si utilizza il termine start up il quale corrisponde a realtà imprenditoriale ben determinata, soprattutto in Italia, essendo oggetto di leggi speciali fortemente incentivanti e agevolative: a partire dalla semplificazione nella costituzione.

Da una parte l’intraprendenza di tanti giovani che hanno voglia e capacità di affacciarsi al mondo dell’impresa col desiderio di mettere a frutto doti informatiche e le visioni innovative del mondo degli affari e degli interessi anche in ambito sociale.

Dall’altra i tradizionali percorsi per trasformare gli iniziali accordi tra amici in rapporti societari che reggano nel tempo e che diventino anche lo strumento giuridico per affrontare il non facile mondo delle realtà imprenditoriali, anch’esse sempre più complesse.

L’idea e le capacità ci sono e si è anche scelto il team giusto e affiatato: gli accordi da prendere sono tanti, magari perché uno ha avuto l’idea, ma è poco capace nell’attuarla, un altro è a tempo pieno lo sviluppatore, un altro trova il primo investitore o cliente: nel gergo si chiama gestire l’equity di ogni founder.

Le tante riflessioni comuni le tante parole devono concretizzarsi e devono assumere una veste tecnica: occorre una corretta veste giuridica e per far ciò il modo migliore per partire e di rivolgersi consulenti esperti. Gli strumenti sono ipertecnici anche e forse soprattutto per traghettare idee innovative in accordi societari; si potrà pensare a patti parasociali ma occorre aver consapevolezza che essi prima della costituzione della società rientrano nei contratti preliminari i quali devono, pertanto, rispettare, a pena di nullità, la forma prescritta per la costituzione della società e precisamente quella di atto pubblico.

Se la fase preliminare degli accordi è complessa lo è anche la successiva e cioè quella attuativa. Le domande maggiormente ricorrenti sono: come posso costituire la s.r.l., spendendo il meno possibile, anche per i futuri oneri fiscali –  cosa devo inserire nello statuto e nell’atto costitutivo, ad es. con un forte interesse all’exit –  posso aprire una s.r.l.s., così spendo di meno –  quali potranno essere i costi: consulenti, commercialista ecc. –  meglio aprire in Italia o all’estero.

Le esigenze sono sempre più complesse perché le relazioni e i contatti sono in costante progressione, ognuno ha libero accesso a infiniti sguardi sul mondo imprenditoriale a volte dimenticandosi che probabilmente potrà essere il futuro proprio concorrente. Lo startupper ha estese conoscenze che spesso però rimangono superficiali perché nell’ordinamento giuridico valgono una serie di principi che non si sorreggono su approssimazioni ma su tesi e antitesi attentamente valutate. Ne consegue che chi vorrà, ad esempio, voler promettere quote della società in cambio di prestazioni di servizi e/o di opere o dovrà necessitare di ulteriore capitale di rischio dovrà concretizzare le idee in precisi articoli degli statuti societari, in apposite scelte societarie, in delibere inoppugnabili e per far ciò è utile se non indispensabile il consulente giuridico per prevenire errori e pericoli.

Di pari passo vi è necessità di assistenza nella preliminare disamina dei documenti che l’investitore sottoporrà all’attenzione dello startupper, cd. termsheet di investimento e ad esempio nella redazione e operatività di clausole a garanzia dei soci costituenti.

Nel concetto di start up vi è anche quello di coltivare un’idea innovativa affinché il progetto possa replicarsi nel mercato, e anche in tal caso gli scenari sono diversificati a partire dalla esatta e capillare individuazione dei potenziali interessati anche a mezzo di una valutazione degli strumenti giuridici più appropriati e sicuri per operazioni che si mantengano stabili nel tempo.

In conclusione le leggi speciali hanno dato una forte spinta soprattutto per il sistema di  deroghe anche rilevante rispetto ai canoni societari tradizionali, basti pensare alla non fallibilità delle start up innovative ma vi è al contempo l’esigenza che si impari a utilizzare al meglio i nuovi impianti giuridici e per far ciò è indispensabile l’imprenditore lungimirante e amante del voler far e far bene, consapevole dei propri limiti e, quindi, anche compiaciuto nel saper farsi adiuvare da validi coadiutori anche nell’ambito dei consulenti giuridici.

Avv. Giuseppe Sparano, nato a Napoli il 18.2.1965
Laureato nel 1987 con lode, presso l’Università Federico II di Napoli
Iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 22.2.1991 -patrocinio presso le Corte Superiori.
Dottore di ricerca in Diritto delle Imprese in crisi –  Università Federico II di Napoli
Docente di Diritto Commerciale corso in “Diritto dei contratti d’impresa” nelle Scuole di Specializzazione delle Professioni Università Federico II di Napoli e Università Vanvitelli (già  Seconda Università di Napoli).
Presidente dei Collegio dei probiviri della Camera degli Avvocati Civili di Napoli (già segretario e tesoriere).

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