Asse pubblico – privato per la legalità

Legge 231/01 e sgravi fiscali per le imprese

L’articolo di Repubblica di qualche giorno fa a firma del Consigliere di Stato dott. Roberto Garofoli, titolato “Un’alleanza per la legalità: l’asse pubblico-privato contro i reati economici” permette di svolgere una attenta riflessione sull’importante argomento trattato dal Magistrato.

Tale articolo ha come premessa il dibattito suscitato dalle drammatiche vicende di Genova dello scorso agosto che confermano quanto sia riduttivo ragionare in termini di sola sostenibilità economica nella disciplina e nella gestione dell’attività d’impresa, e quanto decisivo sia, invece, valorizzare e rilanciare il paradigma della cosiddetta responsabilità sociale di impresa.
Ne discende, quindi, un’enfatizzazione alla lotta alla criminalità economica attraverso gli strumenti disciplinati dal  D.L.vo n. 231 del 2001, che ha introdotto una responsabilità autonoma e diretta in capo alle imprese per l’omessa adozione delle cautele organizzative idonee ad impedire la commissione di reati da parte degli amministratori o dei dipendenti.

L’articolo è molto critico col fatto che nella pratica misure previste da questa legge non  vengono frequentemente applicate.

Se può considerarsi condivisibile l’idea che la lotta alla criminalità economica possa svolgersi  anche attraverso misure come quelle previste dalla l. nr. 231/01, al giudizio del dott. Garofoli può opporsi una prima obiezione, in quanto dall’esperienza giudiziaria emerge chiaramente che la scarsa applicazione della legge 231 deriva anche da un’incertezza applicativa degli strumenti di difesa messi a disposizione per le imprese colpite dalle predette misure, nello specifico relativamente  allo sviluppo e utilizzo dei cd. modelli organizzativi.

Per addentrarsi concretamente nel discorso va fatta, prima una breve disamina sull’argomento. Il modello cd. 231 ha la funzione di salvaguardare le società e gli enti stessi da eventuali reati commessi dai propri dipendenti o soggetti apicali. Mediante la sua adozione, la società che lo sottoscrive può chiedere legittimamente l’esclusione o la limitazione della propria responsabilità derivante da uno dei reati menzionati nella norma.

Il modello cd. 231 è un modello di organizzazione e gestione: non è obbligatorio, ma dà la possibilità per le imprese di ridurre il rischio di essere chiamate a rispondere per uno degli illeciti sanzionati dal la legge. Tutte le aziende esposte al rischio di contestazione delle violazioni citate nella norma possono sottoscrivere il modello 231, anche le piccole e medie imprese; in tal senso non ci sono limiti a riguardo.

Le tipologie di reato previste dal decreto 231/2001 sono molto varie e coprono, idealmente, tutte le aree di attività di una impresa:

  • reati contro la salute e la sicurezza sul lavoro
  • reati contro la Pubblica Amministrazione
  • reati societari
  • delitti contro la personalità individuale
  • delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico
  • reati transnazionali (traffico di migranti, riciclaggio…)
  • illeciti ambientali
  • reati di criminalità informatica
  • manipolazioni del mercato e abuso di informazioni privilegiate

Il modello organizzativo di gestione e controllo, quindi, consiste in un insieme di elementi che compongono un vero e proprio sistema di gestione preventiva di rischi.

Ecco alcuni di questi elementi:

  • disposizioni organizzative
  • procedure
  • modulistica
  • codici comportamentali
  • software
  • commissioni

Non esiste un modello generico che vada bene per ogni tipo di azienda ma ognuno di esso viene stilato in base alle caratteristiche proprie di ogni azienda, alle attività che svolgono, ai processi produttivi e agli interlocutori con cui si  interagisce. 

L’effettiva realizzazione del modello 231 prevede 5 distinte fasi:

  1. mappatura delle aree a rischio di reato
  2. valutazione del sistema di controllo interno
  3. analisi comparativa e piani di miglioramento
  4. redazione del modello vero e proprio
  5. formazione e diffusione

 

1 – Mappatura delle aree a rischio di reato

In questa prima fase bisogna individuare le possibili modalità di attuazione degli illeciti. L’analisi dei rischi dev’essere rigorosamente svolta con una visione prettamente aziendale con la valutazione dei seguenti punti:

  • quali sono le attività a rischio di reato
  • quali sono le modalità di possibili commissioni di reato
  • la gravità/intensità del rischio e le misure di prevenzione in atto

E’ fondamentale definire con molta attenzione la mappa dei processi aziendali e delle relative attività.

 

2 – Valutazione del sistema di controllo interno

Questa seconda fase prevede la valutazione del sistema di controllo presente in azienda e, nello specifico:

  • poteri di firma e autorizzativi
  • regole comportamentali in vigore
  • tracciabilità delle operazioni svolte in azienda
  • separazione delle varie funzioni aziendali

 

3 – Analisi comparativa e piani di miglioramento

Questa è una sorta di fase “fulcro” in cui si cominciano a tirare le somme e a organizzare nel vero senso della parola. Si confrontano i controlli esistenti in merito alle attività considerate maggiormente rischiose e gli eventuali standard richiesti per tenere sotto controllo questo rischio.

 

4 – Redazione del modello

Dopo tutte le valutazioni arriva il momento di creare il modello effettivo che, solitamente, è suddiviso in 3 parti:

  • parte generale: codice etico, regolamento dell’Organismo di Vigilanza, sistema disciplinare
  • parte speciale: per ogni tipo di reato sono indicate la sintesi del reato e le modalità di commissione, le funzioni e i processi aziendali coinvolti, la procedura per la formazione e l’applicazione delle decisioni
  • documenti da allegare al modello

 

5 – Formazione e diffusione

A questo punto, a modello compilato, è il momento di rendere partecipe l’intera azienda in merito al modello di organizzazione, gestione e controllo realizzato.

 

L’Organo di Vigilanza

L’organo di vigilanza rappresenta il cuore del modello 231, può essere collegiale o monocratico con componenti interni e/o esterni.

Nelle piccole aziende il decreto 231/2001 prevede che possa coincidere con l’organo amministrativo.

Questo Organo è responsabile di:

  • proporre adattamenti e aggiornamenti del modello organizzativo
  • vigilare e controllare l’osservanza e l’attuazione del Modello da parte dei destinatari
  • gestire le informazioni ricevute in merito al modello
  • gestire e tenere sotto controllo le iniziative di formazione e informazione per la diffusione della conoscenza ma, soprattutto, della comprensione del modello stesso

 

I modelli organizzativi, quindi,  hanno l’effetto di distinguere le varie responsabilità dei singoli da quelle dell’ente e, sopra ogni cosa, attribuire a ciascun individuo o funzione la propria responsabilità differenziandola nettamente da quella degli altri e da quella dell’ente mediante l’attribuzione di compiti ben precisi.

Il modello organizzativo 231, come già specificato, non è uguale per tutti, perché varia in base all’ente che lo adotta e, in tal senso, quando si parla di costi di realizzazione, si parla di quantificare tali costi in base alla complessità e al livello di rischio dell’azienda.

Tale specificità, connotata dal fatto che non esistono veri e propri strumenti pubblicistici che certificano o agevolano lo sviluppo dei predetti modelli, evidenzia la necessità di un alto tecnicismo a seconda delle esigenze richieste.

Questo richiede, quindi, un iter molto dispendioso di risorse, non solo di tempo, ma soprattutto economico.

Orbene se davvero si deve parlare di asse pubblico-privato questo può concretizzarsi davvero laddove “il pubblico” predisponesse in concreto  determinate misure agevolatrici.

 Una proposta  potrebbe esser quella di stabilire degli sgravi fiscali per le spese sostenute per la predisposizione di tali modelli, anche perché è nel tutto interesse pubblico prevenire la commissione di determinati reati.

 Un’altra idea è quella di predisporre degli organi consultivi cui i privati possono rivolgersi al fine di avere precise direttive circa i modelli e le procedure da adottare.

Un’impostazione di tal guisa, che valorizza il principio di leale collaborazione tra pubblico e privato, è stata adottata in materia di appalti pubblici, presso le prefetture, non soltanto per prevenire la commissione di determinati reati, e ciò che ne consegue, ma altresì per non lasciare le imprese in quell’incertezza circa la misura da adottare laddove siano destinatarie di interdittive o atti equiparabili che le impediscono la partecipazioni a gare o di beneficiare di autorizzazioni e concessioni.

E, infatti, in diverse prefetture è stato  istituto l’elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori esposti maggiormente a rischio,  c.d. “White List“, previsto dalla Legge 6/11/2012, n. 190 e dal D.P.C.M. del 18 aprile 2013 pubblicato in G.U.il 15 luglio 2013 ed entrato in vigore il 14 agosto 2013.

L’iscrizione nella White-List tiene luogo della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipulazione, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta.

Tale strumento, rispetto alla genericità dei citati modelli organizzativi consente alle società un’immediata percezione di quali misure adottare in via preventiva al fine di non risultare poi compromesse nello svolgimento delle loro attività e affari.

Formatosi alla Scuola del Maestro Avvocato Renato Orefice (a sua volta allievo di Giovanni Pansini), a lungo ai vertici dell’Ordine partenopeo e del Consiglio Nazionale Forense, l’Avv. Alfredo Sorge, iscritto a Cassa Forense dal 1983, primo classificato e Toga d’Onore agli esami di Avvocato nel 1985, ha preso parte a molti dei più importanti processi penali per reati contro la Pubblica Amministrazione e non solo che nel corso degli anni hanno segnato la storia giudiziaria in sede napoletana, campana e romana.

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Corruzione interna ed internazionale e strumenti di contrasto

Le tecniche di contrasto alla corruzione ed i protocolli d’indagine.

 

1- PREMESSA

La corruzione costituisce un fenomeno variegato e complesso in grado di produrre effetti in ogni campo della vita umana.

Pubblica Amministrazione, politica, finanza, mercato: nessuno di questi settori può dirsi immune da fenomeni corruttivi.

Antichissima è la storia della corruzione; nuovissimi sono, al contrario, gli strumenti attraverso i quali viene esercitata e posta in essere.

Ed è proprio questa capacità di adattarsi ai cambiamenti sociali ed alle nuove regole che informano tanto il funzionamento della res publica, quanto la struttura dei mercati industriali e finanziari, che rende particolarmente ardua l’individuazione dei fenomeni corruttivi e, conseguentemente, la loro repressione.

È innegabile che, per un lunghissimo periodo, gli strumenti apprestati dall’ordinamento (rectius, dagli ordinamenti) nella lotta alla corruzione si siano dimostrati assolutamente inadeguati. Troppo legati, infatti, ad una visione del mondo, ormai, ampiamente superata (legislazioni ed attenzione alla corruzione diversa da Stato a Stato; scarso interesse e nessuna analisi per il fenomeno della cd. globalizzazione…) e troppo incentrati (direi quasi esclusivamente) sul rapporto tra cittadini ed amministrazione pubblica, gli strumenti di cui sopra si sono rivelati inidonei a fronteggiare un fenomeno che si muove, invece, in ambito internazionale e che si manifesta sempre più spesso anche nell’ambito dell’iniziativa economica privata e nel mercato.

Proprio con riferimento alle ipotesi di incriminazione della corruzione privata ed alle proposte di legge che, in tale direzione, sono state avanzate risulta doveroso segnalare –  mi si consentirà una breve divagazione –   un interessantissimo dato politico – criminale, che merita un’attenzione particolare ed è stato efficacemente evidenziato da E. Musco,  in L’Illusione Penalistica, Milano 2004.

Si tratta del grande paradosso che vede, nell’arco di appena un decennio, il ribaltamento radicale della prospettiva del trattamento giuridico della cd. privatizzazione e, cioè, della scelta di togliere l’economia dalle mani pubbliche, per inserirla nel libero gioco del mercato. Del passaggio, in altri termini, da una visione della privatizzazione come antidoto certo ed efficace al fenomeno corruttivo a luogo, essa stessa, bisognoso della più efficace forma di protezione che lo Stato è in grado di apprestare.

 È storia di appena dieci anni fa. Non sfuggirà nemmeno agli osservatori più distratti come la scoperta della corruzione sistemica, a seguito delle inchieste portate innanzi da tutte le Procure italiane, all’interno di quel fenomeno giudiziario noto come “tangentopoli”, abbia spinto i più autorevoli rappresentanti del mondo della politica e delle istituzioni (ma anche dell’impresa, del sindacato e, finanche, il “cittadino comune”) ad individuare le privatizzazioni come il miglior rimedio attuale  contro il dilagare della corruzione: la sottrazione di sempre più ampie fette dell’economia al potere pubblico – si diceva – sarebbe stato il toccasana al male endemico della società italiana e, cioè, alla corruzione.

È ovvio che dietro un così forte input ed una così definitiva diagnosi ci fossero ragioni solide e convincenti, né avrebbe potuto di certo inficiare un siffatto esito diagnostico la presenza, peraltro sparuta, di fattispecie di corruzione privata in altri ordinamenti giuridici.

È, tuttavia, doveroso evidenziare come, a distanza di pochi anni, questo esito, questa certezza, questa “terapia”, appaia stravolta e ribaltata e, comunque privata del suo contenuto essenziale. Sulla base di una “valutazione politica” è la stessa attività imprenditoriale privata (pochi anni orsono panacea di tutti i mali), invero, ad essere indiziata di produrre corruzione a livello tale da richiedere l’immediato intervento del potere punitivo statuale.

Non è, ovviamente, un calembour, ma un concreto accadimento normativo di cui occorre cercare una spiegazione e, soprattutto, una (la) giustificazione.

A ciò si aggiunga che per troppo tempo la corruzione è stata vista come un fenomeno meramente patologico, a cui dare una risposta soltanto di tipo penal – repressivo, senza dar vita ad una seria e penetrante  indagine in ordine alle sue cause e concause e, soprattutto, agli effetti, senz’altro devastanti (sul piano etico ed economico), che essa produce nei vari aspetti della vita umana. Non si è, in altri termini, svolta un’adeguata azione preventiva, in grado di eliminare quelle sacche di inefficienza ed opacità  all’interno dell’amministrazione pubblica, della burocrazia, del mercato che costituiscono l’humus del quale la corruzione si nutre.

La risposta è stata affidata, nella quasi totalità dei casi, al solo diritto penale, dimenticando (o fingendo di dimenticare) che la risposta repressiva non può che costituire l’extrema ratio, in ossequio ai principi di sussidiarietà e residualità del diritto penale, costituzionalmente riconosciuti.

Ed invero, il diritto penale del futuro per avere effettiva incidenza e chance di realizzazione dovrà, necessariamente essere razionale, minimo ed effettivo.

Di contro, la continua proliferazione di leggi penali, il loro accentuato simbolismo, la produzione di esiti normativi spesso “schizofrenici”, hanno prodotto in generale una situazione di grandissima confusione che, da un lato, rischia di risolversi in una situazione di delegittimazione del sistema penale in quanto tale e che, dall’altro non ha arrecato alcun beneficio nella lotta alla corruzione.  Della creazione di un sistema penale ipertrofico è  certamente responsabile il legislatore che ha talvolta utilizzato, quale scorciatoia del consenso, i valori simbolici e “promozionali” impropri del diritto penale.

È, altresì, innegabile che una parte minoritaria della giurisprudenza  ha fatto massiccio ricorso all’interpretazione eccessivamente estensiva delle norme penali, interpretazione impropria che – a parere di chi scrive – non dovrebbe essere utilizzata nell’ambito penale (a differenza del diritto civile, dove l’interpretazione estensiva è, al contrario, auspicabile). Il ricorso improprio all’interpretazione estensiva rappresenta una sorta di “cavallo di Troia” attraverso cui, sovente, si consente e si tollera la violazione del divieto di analogia in materia penale.

Sul punto, per quanto attiene più specificamente ai reati contro la P.A., è opportuno evidenziare, ad esempio, l’incondivisibile equiparazione tra il concetto di induzione con quello di persuasione, i cui valori semantici sono, invece, totalmenti contrastanti. Ed ancora, del pari in relazione alle forzature interpretative dei reati contro la P.A., si segnalano gli spostamenti progressivi in tema di individuazione del momento consumativo del reato di corruzione.

 In ordine a tale individuazione, secondo un orientamento giurisprudenziale, ormai risalente nel tempo, infatti, in caso di promessa la consumazione del reato si verificherebbe non già con l’accettazione della stessa, bensì con il successivo versamento del denaro (e, nel caso di versamento in più tranche, all’ultima delle stesse).

In altri termini, si è sostenuto che, in caso di promessa accettata dal pubblico ufficiale, la ricezione di quanto pattuito, successiva alla promessa, segnerebbe la consumazione del reato. Viceversa, qualora la promessa non sia adempiuta e manchi, quindi, la dazione, il momento consumativo resterebbe ancorato a quello dell’accettazione della promessa.

Alcune pronunce della S.C., tra l’altro (per fortuna) rarissime, si sono, poi, spinte oltre arrivando ad affermare che la promessa e la successiva dazione darebbero vita a condotte “reciprocamente autonome”, di tal che, in presenza di entrambe, si realizzerebbero due distinti reati uniti dal vincolo della continuazione ai sensi dell’art 81 c.p. (cfr. ex pluribus Cass. pen., sez. VI, 12.11.1996).

Entrambi gli orientamenti non possono essere in alcun modo condivisi.

Ed invero, è appena il caso di sottolineare come il disvalore della corruzione vada in ogni caso individuato nel pactum sceleris e, cioè, nello scambio dei consensi dei due protagonisti legato al compenso (o alla promessa di compenso ) indebito.

Si tratta, del resto, di una circostanza comprovata dal fatto che nella corruzione antecedente, qualunque sia la condotta, l’atto oggetto dell’accordo – restando fuori dagli elementi costitutivi del reato – non è necessario ai fini della consumazione del reato né, tantomeno, ai fini dell’individuazione del luogo di commissione del reato.

Ebbene, se non è necessario né rileva per la consumazione neppure il compimento dell’atto oggetto dell’accordo, non si comprende perché, a maggior ragione, una simile rilevanza dovrebbe essere attribuita al successivo mero adempimento della promessa e, cioè, alla materiale consegna di quanto pattuito. Mantenimento della promessa che, come innanzi evidenziato, non costituisce una condizione necessaria ai fini della configurabilità del reato di corruzione e che, pertanto, deve essere considerato alla stregua di un post factum non punibile, potendo tutt’al più produrre effetti ai fini della determinazione della pena.

Una simile interpretazione trova, del resto, conferma nel testo degli articoli di riferimento in cui le due condotte della dazione e della promessa, presentandosi assolutamente equivalenti e fungibili tra di loro, sono poste in evidente rapporto di alternatività, di tal che risulterebbe privo di senso attribuire alle medesime un ruolo così diverso ai fini della consumazione.

Per quanto attiene, poi, l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale dazione e promessa  darebbero vita a condotte “reciprocamente autonome” e, quindi, a distinti reati uniti dal vincolo della continuazione, è appena il caso di sottolineare come, incriminando separatamente e cumulativamente promessa e dazione, si corra il rischio di violare sia il principio di legalità sia il divieto di bis in idem, atteso che la dazione presuppone indefettibilmente un previo accordo, assorbendone il disvalore penale. Punendo  alternativamente l’una e l’altra condotta, pertanto, si incorrerebbe in una parziale duplicazione delle pene, non sufficientemente temperata dalla diminuente prevista per il reato continuato.

La realtà è che alcuni orientamenti  appaiono dominati dallo sforzo interpretativo estensivo finalizzato a postergare il momento consumativo, per differire l’estinzione del reato per prescrizione; scopo certamente comprensibile a fronte dell’insidiosità e della dannosità sociale dei fenomeni corruttivi, ma da perseguire con un’apposita previsione legislativa e non già con forzature interpretative  irrispettose dei principi generali dell’ordinamento (in primis il principio di legalità). 

Ritornando a quello che costituisce più propriamente il tema dell’odierno incontro va evidenziato che, a partire dalla fine degli anni ‘80 e soprattutto negli anni novanta, dietro l’impulso di organismi ed istituzioni internazionali e comunitarie (ONU, OCSE, Consiglio dell’Unione Europea) si è, però, cominciato a modificare l’approccio ai fenomeni lato sensu corruttivi, cercando di trovare (ed in molti casi trovando) strumenti idonei a fronteggiare un fenomeno in continua espansione – che, in non pochi casi, ha assunto un vero e proprio carattere “sistemico” – e sempre più insidioso.

Tre sono, in particolare, gli aspetti su cui i vari incontri e le varie convenzioni internazionali che si sono succedute (Parigi 1997, Londra 1999, Palermo 2000, Merida 2003) hanno posto maggiormente l’attenzione:

  1. la necessità di dar vita ad un’armonizzazione delle normative nazionali in tema di corruzione, in considerazione del carattere sempre più internazionale o transnazionale dei fenomeni corruttivi;
  2. l’introduzione della responsabilità per corruzione nel settore privato;
  3. la responsabilità anche delle persone giuridiche (in primis, le società commerciali), atteso che gli episodi di corruzione non sono più soltanto sintomo di devianze individuali, ma costituiscono, non di rado, vere e proprie “politiche d’impresa”.

In tale sede, considerata la vastità e la complessità dell’argomento, non è possibile dare vita ad un approccio sistematico al fenomeno corruttivo. Pertanto, tenendo ben presenti le linee guida emerse dalle convenzioni internazionali di cui sopra, si porrà l’accento su alcuni aspetti particolari che caratterizzano i reati di corruzione e sulle risposte apprestate dall’ordinamento.

Segnatamente ci si occuperà:

  1. dei limiti di una risposta esclusivamente penale al fenomeno della corruzione e della necessità di porre in essere anche strumenti di tipo preventivo, con un accenno all’istituzione dell’Alto Commissario per la corruzione ed ai protocolli di intesa da esso siglati;
  2. dell’introduzione (vera o presunta; condivisibile o non condivisibile) della responsabilità penale per corruzione nel settore privato;
  3. della responsabilità, ai sensi del decreto legislativo 231/2001, delle persone giuridiche per i reati commessi nel suo interesse.

 

 

2 – LIMITI DELL’INTERVENTO PENALE: ALTO COMMISSARIO E PROTOCOLLI D’INTESA

La corruzione costituisce, come è noto, un fenomeno criminale altamente complesso ed ambiguo.

Innumerevoli – oltre che eterogenee – sono, infatti, le sue cause; numerose sono, del pari, le sue conseguenze.

Negli ultimi anni (rectius negli ultimi decenni) la situazione si è notevolmente complicata, atteso che il fenomeno corruttivo, strutturalmente di natura occulta, ha in molti casi acquisito un carattere sistemico, venendo ad interagire “stabilmente con le regole di funzionamento di apparati burocratici e di strutture sociali, divenendone, per così dire, parte costitutiva ed integrante” (A. Spena, Il Turpe Mercato. Teoria e riforma dei delitti di corruzione pubblica, Milano, 2003).

Di fronte ad una realtà così complessa ed articolata, il diritto penale costituisce uno strumento di per sé insufficiente a fronteggiare il fenomeno.

Autorevoli commentatori hanno, al proposito, lucidamente affermato che, in materia di lotta alla corruzione, «il diritto penale ha già dato, forse (e senza forse), sin troppo; a questo punto bisogna bussare ad altre porte» (si veda, per tutti, Padovani).

Ed invero, perché la lotta alla corruzione sia efficace, arrivando ad ottenere risultati di lungo periodo e fuggendo da logiche “emergenziali”, è necessario agire, innanzitutto,  sulle cause più profonde e persistenti del fenomeno: dovrebbe quindi incentrarsi sui piani della trasparenza dell’azione amministrativa, della sua efficienza, della fiducia dei cittadini in essa.

Nell’ambito di una  strategia di prevenzione a trecentosessanta gradi è, pertanto, opportuno (necessario) predisporre strumenti in grado di consentire alla stessa P.A. di produrre i necessari anticorpi contro le minacce corruttive. Da un lato, incrementando la trasparenza dell’attività amministrativa; dall’altro, provvedendo a creare un sistema di strumenti e misure che consentano alla stessa P.A. di monitorare costantemente ed efficacemente il proprio “stato di salute”, così che si possa dall’interno, e con maggiore immediatezza ed incisività, intervenire su situazioni anomale, che lascino paventare eventuali sviluppi corruttivi.

Proprio per soddisfare tali esigenze è stato istituito, con il d.P.R. 6 ottobre 2004, n. 258,  l’«Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione».

Scopo precipuo dell’Alto Commissario è quello di potenziare il sistema italiano di lotta alla corruzione tanto sul piano della prevenzione, quanto sul piano di un sollecito impulso alla repressione dei fatti di corruzione.

Segnatamente, l’Alto Commissario ha il potere di disporre indagini, anche di natura conoscitiva, di iniziativa propria o per fatti denunciati (con esclusione di quelli indicati in denuncie anonime), o su richiesta delle amministrazioni, allo scopo, tra l’altro, di accertare l’esistenza di fenomeni di corruzione e di illecito all’interno della pubblica amministrazione.

L’Alto Commissario ha, altresì, l’obbligo di denunciare, all’autorità giudiziaria i fatti di reato ed alla Corte dei conti, nei casi previsti dalla legge, i fatti nei quali sia ravvisabile danno erariale, dei  quali sia venuto a conoscenza nell’esercizio delle funzioni; nonché, alle rispettive amministrazioni eventuali fatti, emersi dagli accertamenti compiuti, da cui possa evincersi la responsabilità amministrativa e disciplinare di un qualche pubblico dipendente. La forte aspirazione verso un potenziamento della prevenzione dei fenomeni lato sensu corruttivi,  si coglie, poi, con manifesta evidenza dal complesso degli altri poteri attribuiti all’A.C. Essa dovrebbe avere secondo la disposizione istitutiva, in particolare, il potere di disporre indagini, anche di natura conoscitiva, di iniziativa propria o per fatti denunciati (con esclusione di quelli indicati in denuncie anonime), o su richiesta delle amministrazioni, allo scopo, questa volta, di accertare le cause e le concause di fenomeni di corruzione o di illecito o di pericoli di condizionamento da parte di organizzazioni criminali all’interno della pubblica amministrazione;  il potere di disporre la elaborazione di analisi e studi sull’adeguatezza e congruità del quadro normativo, nonché delle eventuali misure poste in essere dalle amministrazioni per prevenire e per fronteggiare l’evolversi del fenomeno corruttivo; il potere, infine, di disporre attività di monitoraggio su procedure contrattuali e di spesa e su comportamenti, e conseguenti atti, da cui possa derivare danno erariale.

Ebbene, pur non essendovi dubbi sui notevoli benefici prodotti dall’istituzione di detto organismo, non è possibile, in tale sede, non evidenziarne i limiti e le contraddizioni che, purtroppo, lo caratterizzano.

Ed invero,  va  certamente accolta con favore l’istituzione di un organismo che ha per scopo, tra l’altro, quello di costituire un punto di raccolta – interno alla Pubblica amministrazione – di informazioni e cognizioni relative alle condizioni di salute della stessa pubblica amministrazione e, per così dire, al suo grado di propensione alla corruzione. Un organismo, in altri termini, deputato a costituire una sorta di banca dati permanente in cui convogliare un insieme quanto più corposo ed approfondito possibile di cognizioni su profili (cause e concause di fenomeni corruttivi, adeguatezza del quadro normativo, efficienza e correttezza delle procedure contrattuali e di spesa) che è fondamentale tenere sotto controllo, ove si voglia veramente pensare di poter porre rimedio alle più gravi forme di gestione illecita della cosa pubblica. La conoscenza e la “sistemazione” delle conoscenze costituisce, infatti, il primo fondamentale passo di ogni strategia di lotta alla corruzione: se è vero che questa costituisce un fenomeno che vive nell’opacità, e dell’opacità e della scarsa trasparenza nel funzionamento dell’amministrazione pubblica, della segretezza o della scarsa visibilità di certi tipi di interrelazioni pubblico/privato.

Sin qui gli innegabili benefici prodotti dall’istituzione dell’organismo suddetto.

Va, tuttavia, evidenziato come le prospettive aperte dall’emanazione del decreto in oggetto si prestino anche ad alcune considerazioni meno entusiastiche. Appare, soprattutto, non condivisibile la scelta di attribuire all’Alto Commissario, tra gli altri, anche il compito di svolgere indagini tese ad accertare l’esistenza di fenomeni di corruzione e di illecito all’interno della Pubblica amministrazione. Ciò, da un lato, non fa altro che sovrapporre un’ulteriore competenza (senza adeguate garanzie per il sospettato) a competenze già radicate ed esistenti (quali, in primo luogo, quelle delle diverse procure della Repubblica), con conseguenti  gravissimi pericoli di arbitrii, confusioni e conflitti; e, dall’altro, rischia di paralizzare l’attività dello stesso Alto Commissario, il quale potenzialmente potrebbe divenire il destinatario di una mole insostenibile di denunce e richieste d’indagine, virtualmente pari alla somma delle segnalazioni che, per fatti lato sensu corruttivi, arrivano alle diverse procure d’Italia.

Va, altresì, evidenziato come non del tutto peregrino sia il pericolo paventato da alcuni commentatori (tra gli altri, Oberdan Forlenza), secondo i quali aver affiancato all’Alto Commissario ben due vice – commissari e cinque esperti, senza che a tale aumento di personale corrisponda un aumento ed una migliore redistribuzione dei compiti, rischia di “appesantire” ed in parte deresponsabilizzare tale organismo.

Particolare rilievo assumono, in ogni caso, i protocolli d’intesa e le convenzioni intercorse tra l’Alto Commissario ed alcuni organi istituzionali.

Tali protocolli prendono le mossa da un dato innegabile e di fondamentale importanza: la corruzione non è soltanto un fenomeno criminale (con i conseguenti risvolti penalistici che ne derivano) ma costituisce anche – e forse soprattutto – un freno alle attività economiche, alla correttezza ed alla libertà del mercato, in altre parole allo sviluppo.

Tali protocolli d’intesa hanno, pertanto, lo scopo di creare una sinergia, una collaborazione, tesa ad individuare e conseguentemente reprimere i fenomeni corruttivi, tra l’Alto Commissario ed alcuni organi istituzionali, all’interno dei quali possono annidarsi episodi di corruzione o che per l’attività svolta possono venire a conoscenza di situazioni “sospette” e potenzialmente riferibili a fenomeni corruttivi.

Tra i protocolli d’intesa siglati dall’Alto Commissario si ricordano:

  • Protocollo d’intesa con il Comune di Napoli (22.02.2008);
  • Protocollo d’intesa con l’Agenzia delle Entrate (21.12.2007)
  • Protocollo d’intesa con la Corte dei Conti (23.10.2007)
  • Protocollo d’intesa con il Ministero delle Infrastrutture (19.10.2007)
  • Protocollo d’intesa con il Ministero per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione (10.10.2007)
  • Protocollo d’intesa con la commissione parlamentare antimafia (27.06.2007)
  • Protocollo d’intesa con la Guardia di Finanza (14.10.2005)

3- VERSO LA PUNIBILITA’ DELLA CORRUZIONE NEL SETTORE PRIVATO?

 

Negli ultimi anni, anche per l’impulso di organismi internazionali (ONU ed OCSE) e comunitari, si è aperto nel nostro paese un acceso dibattito circa l’opportunità di istituire una nuova ipotesi, penalmente sanzionata, di corruzione nel settore privato.

Proprio al fine di recepire l’art. K.3 del Trattato sull’Unione Europea, sulla corruzione nel settore privato, è stata avanzata nel 2002, per iniziativa del deputato Kessler, una proposta di legge (n. 3215/2002) tesa ad introdurre nel codice penale un nuovo articolo – l’art. 513-ter – del seguente tenore: “Corruzione nel settore privato. Chiunque, dirigendo un ente di diritto privato, lavorando alle dipendenze dello stesso o comunque prestando la sua opera a favore dello stesso, riceve per sé o per un terzo denaro od altra utilità o ne accetta la promessa, allo scopo di compiere od omettere un atto in violazione di un dovere nell’ambito di un’attività d’affari è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

 Per violazione di un dovere ai sensi del primo comma deve intendersi qualsiasi comportamento sleale che costituisca una violazione di un obbligo legale, di normative professionali o di istruzioni professionali ricevute o applicabili nell’ambito dell’attività dell’ente.

 Alla stessa pena soggiace chi dà o promette danaro od altra utilità nei casi indicati dal primo comma.

 Nei casi di speciale tenuità si applica la pena della multa da duemila a cinquemila euro.

 Il fatto è punibile ove la condotta produca o possa produrre una distorsione della concorrenza nell’ambito del mercato ovvero danni economici all’ente o a terzi anche attraverso una non corretta aggiudicazione o una non corretta esecuzione di un contratto.

Dal tenore della condizione di punibilità, oltre che dall’inserimento nel capo dei delitti contro l’industria e il commercio e dalla collocazione sistematica dopo l’art. 513-bis del codice penale, risulta evidente il rapportarsi del nuovo reato proposto anche, rectius soprattutto, al modello di tutela della concorrenza.

Ed infatti il vigente art. 513-bis del codice penale limita la tutela della concorrenza, sanzionando soltanto le intimidazioni tipicamente mafiose atte ad incidere su quella fondamentale legge di mercato che vuole la concorrenza non solo libera, ma anche lecitamente attuata (Cassazione, Sez. III, sent. n. 46756/2005).

Tale proposta, tuttavia, non è mai divenuta legge.

Successivamente, con la Decisione quadro 22 luglio 2003, n. 2003/568/GAI si è convenuto che gli Stati membri della UE “devono trovare il modo di ratificare al più presto” la Criminal law convention on corruption del Consiglio d’Europa, adottata il 3-4 novembre 1998 ed aperta alla firma il 27 gennaio 1999 (firmata, tra l’altro dall’Italia) in quanto la corruzione nel settore privato “costituisce una minaccia allo Stato di diritto e inoltre genera distorsioni di concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali e ostacola un corretto sviluppo economico …”.

Il vero obiettivo della Decisione quadro è, tuttavia, quello di garantire che sia la corruzione attiva sia quella passiva nel settore privato siano considerate illeciti penali in tutti gli Stati membri, che anche le persone giuridiche possano essere considerate colpevoli di tali reati e che le sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Anche tale Decisione non ha, però, trovato concreta applicazione nel nostro ordinamento, ritenendosi sufficiente, ai fini del rispetto delle indicazioni della Comunità Europea, il vigente regime di responsabilità parapenale delle società e di punizione dell’infedeltà patrimoniale in ambito societario.

Alla stregua di quanto sin qui affermato, la domanda iniziale con cui si è aperto tale intervento, dovrebbe ricevere risposta negativa.

Occorre, tuttavia, evidenziare come in almeno in un caso – sebbene, a parere di chi scrive, assolutamente sui generis – si sia prevista un’ipotesi di responsabilità penale per fenomeni corruttivi commessi nel settore privato.

Ed invero, con l’art. 35 della L. 28 dicembre 2005, n. 262 sulla tutela del risparmio e del mercato finanziario (cd. “legge sul risparmio”), sono state introdotte nel D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 diverse ipotesi delittuose di corruzione dei responsabili della revisione su società quotate o da queste controllate o che emettono strumenti finanziari di rilevante diffusione (artt. 174-bis e 174-ter) che possono essere lette in chiave sia di rafforzamento dello stampo pubblicistico delle società di revisione, sia di sanzione della corruzione nel settore privato.

Incriminazione, quest’ultima, da tenere assolutamente distinta, da quella prevista dall’art. 2635 del codice civile (“Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”) .

Ed invero, mentre il reato ex art. 2635 del codice civile, pure esso commettibile dai responsabili della revisione, è un reato di evento in quanto si perfeziona con il prodursi di un nocumento per la società, il reato di cui all’art. 174-ter, commettibile esclusivamente dai responsabili della revisione, ha natura di reato di pericolo e presenta, pertanto, profili analoghi alle ipotesi di corruzione previste dal codice penale. Diversi sono, in altri termini, i beni giuridici tutelati: la previsione incriminatrice di cui all’art. 2635 c.c. tutela, infatti, il patrimonio sociale; l’oggetto giuridico della previsione di cui agli artt. 174-bis e 174-ter è, invece, costituito dalla tutela del mercato finanziario e, conseguentemente, delle regole di concorrenza leale che lo sorreggono.

Va, altresì, evidenziato che mentre il reato di cui all’art. 2635 c.c. è perseguibile a querela di parte (essendo posto a tutela di interessi interni alla società, della cui lesione essa può o meno dolersene), il regime sanzionatorio della corruzione dei revisori introdotto dalla legge n. 262/2005, sganciato definitivamente dall’esistenza o dal pericolo di un danno patrimoniale interno alla società, prevede la procedibilità di ufficio.

Ne consegue che detta corruzione, punita con la reclusione da uno a cinque anni, aumentabile fino alla metà in caso di concorso dei revisori con gli apici della società revisionata, partecipa a livello comparatistico della struttura propria del cosiddetto modello pubblicistico, che raccorda la corruzione privata alla corruzione amministrativa recependone lo schema, e del cosiddetto modello di tutela della concorrenza, dal momento che la corruzione del revisore è punita perché lesiva della regolarità del mercato finanziario e quindi anche delle regole di concorrenza leale che lo sorreggono.

A questo punto, evidenziato come l’unica ipotesi di incriminazione per fenomeni di corruzione nel settore privato, allo stato esistente, sia rappresentata dalla responsabilità dei revisori (i quali, come anticipato, pur essendo soggetti di diritto privato svolgono una funzione pubblicistica o para-pubblicistica), occorre tornare al quesito iniziale e chiedersi se sia opportuno introdurre ulteriori ipotesi di responsabilità per corruzione nel settore privato.

La risposta  deve essere, almeno in parte, negativa, qualora  si voglia introdurre un’ipotesi generalizzata di corruzione privata, modellata ed ancorata alla normativa prevista in tema di corruzione nel settore pubblico. Viceversa, andrebbe introdotta una normativa volta a tutelare in modo più incisivo il mercato e la libera concorrenza, anche (ma non solo) attraverso l’incriminazione di specifiche ipotesi di corruzione nel settore privato.

Segnatamente,  si auspica l’introduzione di una normativa complessa dove, accanto alla previsione di fattispecie incriminatrici volte a tutelare la collettività dai fenomeni di corruzione nel settore privato dotati di reale carica lesiva (rectius, offensività), si prevedano ulteriori tipologie di sanzioni (quali, ad esempio sanzioni pecuniarie) per punire (o scoraggiare) ipotesi minimali di mercimonio nel settore privato.

La Decisione quadro 22 luglio 2003 della UE ed il dibattito interno che ne è seguito sembrano, invece, orientate ad “una ricostruzione eticizzante del mercato”, che si muove sul terreno scivoloso “della moralizzazione dell’attività imprenditoriale privata”, laddove invece, paradossalmente,  le “tangenti private non possono assumere altro rilievo che quello di un costo” per le società e le imprese che operano nel diritto privato.

Simili affermazioni – mutuate dalla teoria funzionalistica dei fenomeni corruttivi, di matrice anglosassone (per una critica all’approccio funzionalista si veda Becquart-Leclercq, Paradoxes of Political Corruption: A French View) –  senz’altro “forti” , vanno, tuttavia, sebbene temperate, tenute ben in considerazione allorchè si intenda dar vita ad una fattispecie generale di incriminazione della corruzione privata che sia effettivamente rispettosa dei principi di tassatività e determinatezza e che, nel contempo, tuteli adeguatamente la concorrenza di mercato.

Occorre, a tal fine, chiedersi innanzitutto quale sia il significato di “violazione di un dovere”, perifrasi che riecheggia in quasi tutte le proposte di legge avanzate al fine di introdurre l’incriminazione per corruzione privata nel nostro ordinamento.

 Ebbene per violazione di un dovere non può che intendersi l’inadempimento di una regola di correttezza commerciale. Se così è, occorre ulteriormente chiedersi quale sia il ramo dell’ordinamento giuridico più idoneo a garantirne l’integrità. Difficile (se non impossibile) negare, allora, che il livello di lesività sia, nella gran parte dei casi, talmente basso da far apparire la reazione penale assolutamente sproporzionata e, quindi, ingiustificata.

Per fronteggiare un siffatto inadempimento potrebbero essere addirittura sufficienti i codici di comportamento, opportunamente rivalutati nell’attuale momento storico o, al più, gli ordinari strumenti della tutela civil – lavoristica, rispettando in tal modo il principio di sussidiarietà e residualità del diritto penale.

Per concludere, ai fini di apprestare una più incisiva tutela al mercato ed alla concorrenza (questo dovrebbe essere, infatti, il fine ultimo di un’eventuale incriminazione per corruzione nel settore privato), pare preferibile, piuttosto che introdurre una fattispecie generale di incriminazione della corruzione privata, troppo legata ad aspetti e schemi pubblicistici, prevedere strumenti ad hoc (anche, ma non solo, di tipo penalistico) in grado di assicurare, nel rispetto delle garanzie dell’individuo, l’osservanza delle regole della concorrenza e la tutela della libertà  e della correttezza del mercato.

Occorre, in altri termini, partire da un dato semplice ma di fondamentale importanza: la fattispecie delittuosa della corruzione nel settore pubblico è posta a tutela della trasparenza e dell’imparzialità (il cd. “buon andamento”) della Pubblica Amministrazione; l’eventuale ipotesi di corruzione nel settore privato mira, invece, a tutelare e proteggere il libero giuoco della concorrenza. Se diversi sono i beni giuridici meritevoli di tutela, diversa dovrà essere, necessariamente, la risposta dell’ordinamento.

In particolare, per quanto attiene la corruzione nel settore privato, la risposta repressiva del diritto penale dovrà intervenire non già in presenza di qualsiasi episodio astrattamente riconducibile allo schema della corruzione (cosa che avviene, invece, nel settore pubblico, dove ai fenomeni corruttivi non può che attribuirsi anche un disvalore, per così dire, etico), ma soltanto in presenza di fenomeni effettivamente idonei a restringere o inquinare in modo sensibile la libera concorrenza.

 

 

 

4- CORRUZIONE: RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI AI SENSI DEL DECRETO LEGISLATIVO 231/2001

Se si sofferma l’attenzione sui principi che informano il diritto penale, si deve constatare che l’impresa non è, in quanto tale, destinataria di specifica sanzione. Destinataria delle sanzioni penali è, infatti, soltanto la persona fisica che pone materialmente in essere l’attività.

Nel caso in cui l’impresa sia individuale, tuttavia, la normale identificazione tra essa ed il suo titolare fa sì che la sanzione a carico di quest’ultimo finisca per colpire anche l’impresa.

La questione si pone in termini del tutto differenti quando l’impresa fa capo ad enti collettivi (ad es. società), tanto più se muniti di personalità giuridica.

In questo caso, infatti, va sottolineato che un sistema penale incentrato sulla punizione di figure illimitatamente sostituibili (fungibili), quali amministratori, sindaci etc…, ha il difetto di non incidere sull’effettiva capacità dell’impresa di perpetrare modelli illeciti. L’importanza della questione è evidente dato che l’impresa, specie se non di piccole dimensioni, si presenta prevalentemente nelle forme delle società (soprattutto s.p.a.).

Di qui la particolare rilevanza che ha, nell’ambito del diritto penale societario, il problema se la persona giuridica possa essere o meno soggetto attivo di reato.

È controverso se alla stregua dell’art. 27 Cost. debbano o meno ravvisarsi preclusioni all’affermazione della responsabilità penale delle persone giuridiche. Non vi sono, in ogni caso, dubbi che il diritto positivo italiano non preveda la responsabilità penale delle persone giuridiche, potendo essere soggetto attivo del reato soltanto la persona fisica, secondo l’antico brocardo “societas delinquere non potest”.

L’inadeguatezza del principio di irresponsabilità delle persone giuridiche si è manifestata con sempre maggiore intensità man mano che è progredita l’internazionalizzazione dei mercati. La materia ha assunto risalto soprattutto con riguardo al tema della corruzione, utilizzato come strumento di conquista di nuovi mercati.

Di qui una forte tensione internazionale che ha portato all’adozione di alcune convenzioni (Convenzione OCSE di Parigi del 17 novembre 1997; Convenzione Europea del 1997, Carta di Merida del 2003).

L’esecuzione delle convenzioni citate è avvenuta in Italia in una duplice direzione.

In primo luogo, la legge 300/2000 ha introdotto nel codice penale l’art. 322 bis, concernente l’estensione dei delitti di peculato, concussione e corruzione degli esponenti della Comunità Europea e degli stati esteri.

In secondo luogo, con la medesima legge 300/2000 è stata data delega al governo per l’introduzione della responsabilità degli enti. In esecuzione di tale delega, è stato emanato il d.lgs. 231/2001.

A fronte del tenore dell’art. 27 Cost., il legislatore ha ritenuto di non poter introdurre una responsabilità penale delle persone giuridiche ed ha, perciò, ripiegato su di una responsabilità amministrativa, ma in realtà modellata sui principi che caratterizzano la responsabilità penale.

Ecco, quindi, che a prescindere dalla terminologia utilizzata, è stata introdotta nell’ordinamento italiano una diretta responsabilità da reato degli enti. Tale responsabilità, proprio per le peculiarità che la caratterizzano, è stata qualificata come tertium genus e da alcuni, addirittura, come un’ipotesi di responsabilità “parapenale”.

Il Decreto Legislativo 231/2001, e le successive modifiche ed integrazioni, hanno introdotto  un principio fino a quel momento totalmente estraneo alla cultura giuridica italiana, quello della responsabilità amministrativa (rectius, “quasi – penale”) degli enti collettivi (comprese quindi le imprese), derivante da reati commessi a vantaggio o nell’interesse dell’ente stesso da parte di persone che:

  1. a) rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione degli enti medesimi;
  2. b) esercitino, anche di fatto, la gestione o il controllo dell’ente;
  3. c) siano sottoposte alla direzione dei precedenti.

I principali reati indicati dalla normativa di riferimento, che determinano la responsabilità amministrativa/penale di cui sopra, sono quelli relativi ai rapporti con la Pubblica Amministrazione ed i c.d. reati societari.

Per ciò che attiene più propriamente alla corruzione, l’articolo 25 dispone che:

“Concussione e corruzione

  1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321 e 322, commi 1 e 3, del codice penale, si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote.
  2. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 319, 319-ter, comma 1, 321, 322, commi 2 e 4, del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote.
  3. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 317, 319, aggravato ai sensi dell’articolo 319-bis quando dal fatto l’ente

ha conseguito un profitto di rilevante entita’, 319-ter, comma 2, e 321 del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote.

  1. Le sanzioni pecuniarie previste per i delitti di cui ai commi da 1 a 3, si applicano all’ente anche quando tali delitti sono stati commessi dalle persone indicate negli articoli 320 e 322-bis.
  2. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno.”

Tra le sanzioni previste, oltre a quelle pecuniarie (comprese tra i 50 milioni e i 3 miliardi di vecchie lire) la normativa contempla sanzioni di natura interdittiva ( interdizione all’attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze e concessioni; esclusione da agevolazioni, contributi o sussidi e revoca di quelli già concessi, ecc.) che possono compromettere gravemente la normale prosecuzione dell’attività aziendale. Ma il rischio più concreto, anche in considerazione della vasta e “severa” giurisprudenza in materia, è dato dall’adozione, su richiesta del PM, dei provvedimenti interdittivi di natura cautelare.

 Va, altresì, segnalato che le sanzioni interdittive possono essere applicate anche in via definitiva, qualora ne ricorrano i presupposti.

La confisca è sempre disposta, ha ad oggetto il profitto del reato e può essere eseguita per equivalente. La confisca del beneficio che l’ente ha tratto dal reato deve intervenire anche se l’ente non sia stato reputato responsabile dell’illecito.

Va evidenziato, sul punto, che la responsabilità dell’ente è, in ogni caso, autonoma. Ciò significa che essa sussiste anche quando l’autore del reato non sia stato individuato o non sia imputabile e quando il reato si sia estinto per causa diversa dall’amnistia.

I criteri di imputazione variano a seconda della posizione dell’autore del reato.

Quando questi  si trova in una posizione apicale vale il principio di identificazione: la fattispecie è, cioè, trattata come se il reato fosse stato posto in essere direttamente dall’ente.

Quando, viceversa, il reato è stato commesso da un soggetto in posizione subordinata, è necessario, ai fini della sussistenza della responsabilità in capo all’ente, che la commissione del reato sia stata resa possibile dall’inosservanza, da parte di chi è in posizione apicale, degli obblighi di vigilanza e direzione.

A ben vedere, nonostante le differenze evidenziate, il fondamento della responsabilità dell’ente è il medesimo in entrambi i casi. Esso va ravvisato nella mancanza di una organizzazione dell’impresa idonea a prevenire la commissione di reati. L’ente, in altri termini, è responsabile per i reati commessi, in quanto non ha avuto l’accortezza di creare una struttura organizzativa idonea ad evitare che, nel suo ambito, siano commessi determinati reati (cd. “colpa in organizzazione”).

La possibilità di evitare o ridurre l’applicazione delle sanzioni è subordinata all’adozione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire il compimento dei reati ex D.Lgs. 231/2001.

Statuisce , infatti, l’articolo 6:

“Se il reato e’ stato commesso dalle persone indicate nell’articolo 5, comma 1, lettera a), l’ente non risponde se prova che:

  1. a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
  2. b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e’ stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
  3. c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
  4. d) non vi e’ stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo preposto.

In relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di organizzazione devono rispondere alle seguenti esigenze:

  1. a) individuare le attivita’ nel cui ambito possono essere commessi reati;
  2. b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
  3. c) individuare modalita’ di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
  4. d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
  5. e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

 I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati.

 Negli enti di piccole dimensioni i compiti di vigilanza e controllo possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente.

I modelli di cui alla legge 231/2001 devono, quindi, essere basati su un’effettiva ripartizione delle funzioni dell’ente e devono prevedere l’adozione di un codice etico, di specifiche procedure per le fasi decisionali e del controllo conseguente, e soprattutto un incisivo sistema disciplinare atto a scoraggiare il compimento dei reati. Devono essere, altresì, modelli non standardizzati, ma basati sulla realtà di ogni singola azienda. E’, inoltre, prevista la nomina di un Organismo di Vigilanza, dotato di imparzialità e competenze idonee, con il compito di verificare l’effettività del modello, il suo funzionamento e le necessità di aggiornarlo.

Dopo essere stato accompagnato per lungo tempo da una sorta di “non applicazione”, in attesa della stesura da parte delle associazioni di categoria delle linee guida previste dal Decreto, di recente i Giudici per le indagini preliminari hanno cominciato ad applicare sempre più frequentemente le sanzioni ex D. Lgs. 231/2001. I rischi connessi a tale normativa risultano quindi sufficienti a far comprendere l’importanza per ogni impresa di dotarsi dei modelli organizzativi previsti.

L’Avv. Domenico Ciruzzi, dopo la laurea in Giurisprudenza conseguita con il punteggio di 110/110 e lode, inizia la sua attività forense sul finire degli anni ’70 nello studio dell’Avv. Vincenzo Maria Siniscalchi, tra i più noti ed apprezzati penalisti napoletani, già Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, già deputato dei Democratici di Sinistra e già Consigliere presso il C.S.M..
Nel corso della collaborazione prestata accanto all’Avv. Siniscalchi, l’Avv. Ciruzzi è stato coinvolto nelle difese relative a casi giudiziari di risonanza nazionale dei processi contro Pubblici Amministratori, presunti esponenti della criminalità organizzata, giornalisti, per reati di diffamazione a mezzo stampa.
Intorno alla metà degli anni ’80, intraprendeva un autonomo percorso professionale, affrontando processi penali di notevole clamore, tra i quali la vicenda relativa alla presunta organizzazione camorristica denominata “Nuova Camorra Organizzata”, che vedeva imputato, tra gli altri, il noto presentatore televisivo Enzo Tortora.

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Una pericolosa carenza

Un vuoto legislativo in caso di sentenza di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione in presenza di errori materiali o di fatto.

 

La sentenza della S.C. (la nr. 53415 della VI sezione penale in data 22 ottobre – 22 dicembre 2014, Pres. Ippolito, Rel. Bassi) permette una riflessione che evidenzia la necessità di studiare un rimedio legislativo finalizzato ad ovviare una pericoloso “vuoto” che appare esistere nel nostro codice di rito in tema di rimedi esperibili avverso decisioni (non ultimative, ma di annullamento con rinvio) della Corte di Cassazione frutto di vizi in procedendo.

Giova anzitutto ricordare brevemente la fattispecie concreta giudicata dalla S.C.: il P.M. proponeva ricorso diretto per cassazione avverso una sentenza assolutoria che fondava il suo giudizio sull’inutilizzabilità di dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p. di un teste-persona offesa che, a dire del giudice di primo grado, avrebbe dovuto essere sentito ab initio con l’assistenza del difensore ed avvertito della facoltà di non rispondere ai sensi dell’art. 63 c.p.p. in quanto indiziato di reato probatoriamente collegato, mentre, a dire del P.M. ricorrente, giacché il soggetto rivestiva la qualità di p.o., le di lui dichiarazioni erga alios erano comunque utilizzabili.

La II sezione penale della S.C., con sentenza del 22.05.2009, accoglieva il ricorso e annullava la sentenza assolutoria con rinvio stabilendo il principio di diritto secondo il quale erano utilizzabili le dichiarazioni del teste-p.o. come invocato dal P.M.: la S.C., però, procedeva senza avvisare il difensore di fiducia, che dunque rimaneva estraneo al giudizio (l’avviso dell’udienza era inviato a un iniziale difensore da tempo revocato).

Davanti alla Corte di Appello, giudice del rinvio, il difensore di fiducia, stavolta avvisato dell’udienza, preliminarmente eccepiva quanto sopra, chiedendo, in osservanza degli artt. 178 lettera c), 180, 185 c.p.p., l’annullamento della sentenza della Corte di Cassazione per violazione del diritto di difesa.

La Corte di Appello disattendeva l’eccezione del difensore e, in applicazione del principio di diritto statuito dalla S.C., giudicava utilizzabili le dichiarazioni erga alios della p.o., dichiarando gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti.

La Corte di Appello sulla questione processuale per cui si discute osservava che a norma del quarto comma dell’art. 627 c.p.p. (“giudizio di rinvio dopo annullamento”) le eventuali nullità, anche assolute, verificatesi nel corso delle precedenti fasi del procedimento non possono essere rilevate nel corso del giudizio di rinvio, trovando applicazione in via analogica il divieto previsto dall’art. 627, comma quarto, c.p.p., essendo la sentenza resa dalla Corte di Cassazione impugnabile solo con il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p.. Pertanto, pur rilevando che effettivamente risultava avvisato per il giudizio di Cassazione solo l’avvocato revocato e non il difensore di fiducia, concludeva affermando che la suddetta nullità non può essere rilevata in sede di giudizio di rinvio.

Gli imputati ricorrevano per cassazione proponendo quale principale motivo procedurale la questione sopra esposta: in particolare sul punto deducevano la nullità della sentenza emessa dalla Corte di Appello ex artt.178 segg.-185 e 606 lett. b), c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità concernenti: la citazione degli imputati davanti al giudizio della Cassazione, laddove venne dato avviso al difensore revocato e non già al difensore di fiducia, patologia da cui, ad avviso dei ricorrenti, conseguiva la nullità del giudizio e della sentenza della S.C. del 22.5.09, nullità specificamente e preliminarmente dedotta all’udienza davanti alla Corte di Appello, e la nullità di tutti gli atti consecutivi e dunque del giudizio di rinvio e della gravata sentenza.

La difesa, in sintesi, sosteneva che una lettura costituzionalmente orientata della norma permettesse di affermare che la preclusione di cui all’art. 627 comma 4 si pone per sua natura come eccezione alla regola generale in tema di rilevabilità della cause di invalidità processuali e, quindi, come tale, insuscettibile di applicazione analogica, peraltro in malam partem, quale risulta l’esito interpretativo adottato dalla Corte territoriale.

D’altra parte, la difesa adduceva di non avere altri rimedi per far valere l’omesso avviso al difensore di fiducia del giudizio davanti alla S.C., per far cioè rilevare la grave e sostanziale lesione del diritto di difesa in quanto, per espresso dettato normativo e per costante giurisprudenza, il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. è ammissibile soltanto a favore del condannato e dunque non afferisce alla fattispecie concreta in cui il provvedimento inaudita altera parte della Corte di Cassazione non è stato un verdetto ultimativo bensì una sentenza di annullamento con rinvio (di un precedente verdetto assolutorio).

In via gradata, la difesa sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p. – per contrasto quantomeno con gli artt. 3 (tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e dunque a situazioni processuali uguali il sistema deve assicurare uguale rimedio), 24 (la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dunque anche davanti al giudice della legittimità) e 111 (in tema di giusto processo) della nostra Costituzione – nella parte in cui sarebbe impossibile al giudice del rinvio rilevare una nullità di ordine generale posta in essere dalla Corte di Cassazione.

***

Con la sentenza citata in apertura del presente lavoro la VI sezione della S.C. (che, va detto, ha comunque annullato la sentenza, accogliendo altro motivo di ricorso della difesa su un diverso profilo di inutilizzabilità delle dichiarazioni de quibus ex art. 512 c.p.p. ovvero la non imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione) ha disatteso le doglianze della difesa affermando che la regula iuris di cui al chiaro disposto di cui all’art. 627 comma 4 del codice di rito “…fa sì che non siano deducibili vizi che siano in corso nei precedenti giudizi neanche allorché essi riguardino il giudizio celebrato innanzi alla Suprema Corte, come appunto nel caso in oggetto”.

La Corte di Cassazione ha altresì stabilito che non è possibile una lettura della norma nel senso di ritenere ammissibile la deduzione nel giudizio di rinvio dei vizi occorsi nella fase celebrata innanzi alla Corte di Cassazione affermando che “il dettato normativo – avuto riguardo al senso fatto palese dal significato proprio delle parole usate secondo la connessione di esse (in ossequio al disposto di cui all’art. 12 delle Preleggi) -, è netto nel precludere la deduzione di qualunque nullità o inammissibilità verificatasi nei precedenti giudizi, con ciò segnando un limite invalicabile fra il giudizio di rinvio e tutte le fasi processuali ad esso precedenti. D’altra parte, la preclusione scolpita nell’art. 627, comma 4, costituisce naturale corollario della inoppugnabilità delle sentenze della Corte di Cassazione che – salvo non contengano errori materiali o di fatto emendabili con il mezzo straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p. – coprono il dedotto ed il deducibile e, quindi, anche l’implicita decisione negativa in ordine all’esistenza di eventuali cause di nullità, di inutilizzabilità o di inammissibilità”.

La S.C. ha articolato, poi, la sua motivazione richiamando la decisione della Corte Costituzionale (la nr. 501 del 17.11.2000) che aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 627 comma 4 c.p.p. osservando che “la norma denunciata risulta pienamente rispondente all’obiettivo di evitare la perpetuazione dei giudizi che costituisce un interesse fondamentale dell’ordinamento e che risponde alla logica che ispira il sistema delle impugnazioni ordinarie rispetto alla quale è incompatibile un controllo del giudice del rinvio circa la sussistenza o meno di vizi in procedendo nella fase del giudizio svoltasi dinanzi alla Corte di Cassazione”. Ed invero, per la Corte delle Leggi “è connaturale al sistema delle impugnazioni ordinarie che vi sia una pronuncia terminale – identificabile positivamente in quella della Cassazione per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad esso affidato dalla stessa Costituzione (art. 3, settimo comma) – la quale definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta o deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso”.

La S.C. ha inoltre richiamato una precedente decisione della Corte Costituzionale (la nr. 224 del 26 giugno 1996) che aveva giudicato infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 c.p.c., in quanto i vizi in procedendo (non emendabili attraverso lo strumento della revocazione ex art. 391 bis c.p.c.) posti in essere nel procedimento davanti al giudice di legittimità non possono essere rilevati e rimossi dal giudice del rinvio in assenza della previsione “di idoneo mezzo straordinario di impugnazione che rientra nelle attribuzioni discrezionali del legislatore”.

La S..C., infine, riteneva non vi fosse spazio per sollevare la questione, pure invocata, in via subordinata, dalla difesa dei ricorrenti, di legittimità costituzionale dell’art. 624 comma 4 giacché in ogni caso “la Corte di Appello, ammessa l’eccezione e rilevatane la fondatezza, non potrebbe mai addivenire ad una pronuncia di annullamento della sentenza della Corte di Cassazione con rinvio avanti alla stessa, non essendo tale iter processuale percorribile nell’ambito del nostro ordinamento, giusta il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’impossibilità di inquadrare un giudizio di gravame siffatto negli schemi processuali tipici”.

***

La sentenza della S.C., dunque, permette di evidenziare la sussistenza di un vulnus, di una carenza codicistica che va emendata attraverso una riforma legislativa che a questo punto urge proprio a seguito della interpretazione fatta dalla S.C..

L’urgenza della riforma è dettata proprio dal contenuto della decisione della S.C. che ha respinto la proposta, avanzata dalla difesa ricorrente, di una lettura costituzionalmente orientata della norma in parola (art. 627 comma 4), lettura che pure sembrava possibile in quanto il testo codicistico non si riferisce alle nullità verificatesi davanti alla Corte di Cassazione e fa solo riferimento alla impossibilità nel giudizio di rinvio di rilevare nullità, anche assolute, verificatesi nel corso delle indagini preliminari o nei precedenti giudizi (il legislatore ovviamente esamina la fattispecie fisiologica delle nullità poste in essere nei gradi di merito che avevano preceduto il giudizio della cassazione).

D’altra parte, anche e soprattutto a fronte dei casi dubbi ed incerti, deve sempre esservi una lettura costituzionalmente orientata del diritto in generale e del codice di rito nella fattispecie concreta, lettura che permetta alla parte che abbia subito una ingiusta disavventura processuale di chiedere ad altro giudice la eliminazione e la riparazione dell’errore alla base di quella disavventura.

Diversamente, ci troveremmo di fronte ad un sistema che renderebbe impossibile l’eliminazione del vizio per cui si discute e, dunque, ad un sistema in parte qua palesemente incostituzionale: un sistema processuale non può mai essere imperfetto, non può cioè non prevedere rimedi ad un errore, dalle gravi conseguenze peraltro, come la fattispecie concreta ben dimostra.

Ed allora, alla luce della decisione della S.C., che ha pure ritenuto di non sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p., appare ineludibile (ed urgente) una novella legislativa che completi la riforma introdotta al codice di rito con l’art. 6, comma 6, della legge nr. 128 del 26 marzo 2001 (che innovò il codice con l’inserimento della norma ex art. 625 bis), novella che estenda la possibilità di richiedere la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione non soltanto in favore del condannato ma anche in favore di tutti gli interessati ovvero anche nel caso di decisione non ultimativa ad opera della S.C. (all’uopo potrebbe essere sufficiente sostituire alla parola “del condannato” contenuta nei primi due commi dell’art. 625 bis c.p.p. il termine “di tutti gli interessati”, modificando anche il comma 2 prevedendosi che il termine decorra “dal momento in cui si è avuto conoscenza del deposito del provvedimento”).

Formatosi alla Scuola del Maestro Avvocato Renato Orefice (a sua volta allievo di Giovanni Pansini), a lungo ai vertici dell’Ordine partenopeo e del Consiglio Nazionale Forense, l’Avv. Alfredo Sorge, iscritto a Cassa Forense dal 1983, primo classificato e Toga d’Onore agli esami di Avvocato nel 1985, ha preso parte a molti dei più importanti processi penali per reati contro la Pubblica Amministrazione e non solo che nel corso degli anni hanno segnato la storia giudiziaria in sede napoletana, campana e romana.

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Art. 388 c.p. Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice

È colpevole la madre che non rispetta l’ordine di far vedere la figlia al padre “quando vuole”?

 

La lettura della sentenza, n.1748 del 16 Gennaio 2018 emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di Cassazione, ci permette di affrontare una questione particolarmente delicata  e di interesse sociale  in materia di  provvedimenti riguardanti l’affidamento dei minori  emessi dal Giudice Civile.

Il comma secondo dell’art.388 c.p. punisce tutte le condotte che costituiscono consapevole elusione del provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento dei minori, ovvero quei comportamenti che rendano vane le legittime pretese altrui.

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che la rilevanza penale dell’inosservanza del provvedimento del giudice debba essere ancorata al concreto disvalore della condotta, giacché la ratio della norma è quella di punire chi agendo  in spregio delle prescrizioni impartite ostacoli il diritto del minore ad essere accompagnato nella propria crescita da entrambi i genitori.

Per tale ragione,  in una materia così delicata ove soprattutto nella prima fase delle separazione tra i coniugi il livello di  conflittualità è molto alto,  si appalesa la necessità che il Giudice Civile statuisca in modo chiaro e dettagliato le modalità di visita del genitore non affidatario.

L’incapacità dei genitori di riuscire a regolamentare i loro rapporti in modo civile, e di garantire soprattutto, per quel che interessa, la crescita equilibrata dei figli in presenza di entrambe le figure genitoriali, impone l’emissione da parte del Giudice Civile di provvedimenti ove i diritti ed i doveri di ciascuna parte   siano ben chiari ed esplicitati. Non è peregrino sottolineare, infatti, che è proprio l’incapacità di una coppia a regolare i propri rapporti, a seguito della fine del matrimonio, a giustificare il ricorso al Tribunale Civile.

Il caso concreto posto all’attenzione della Corte di Cassazione: il Presidente del Tribunale di Roma, in sede di giudizio di separazione, aveva riconosciuto al padre  il diritto di fare visita alla figlia presso l’abitazione materna quando vuole e proprio la vaghezza e la genericità di tale prescrizione aveva reso i rapporti tra i coniugi maggiormente conflittuali. Il padre della bambina, in forza di tale mera dicitura comunicava semplicemente  quando intendeva recarsi dalla minore  senza in alcun modo armonizzarsi con gli impegni e con le esigenze dell’affidataria, la quale dal canto suo in varie occasioni avrebbe negato il diritto di visita al padre in base ad impegni precedentemente presi, esigenze lavorative e di salute.

Tale  situazione, però,   sarebbe cessata con l’emissione di un nuovo provvedimento da parte del Presidente del Tribunale di Roma, che  revocato l’incondizionato diritto di visita del padre, aveva diversamente disciplinato i rapporti tra il  genitore non affidatario e la minore.

I Giudici di merito pur avendo riconosciuto che  in alcune occasioni le sussistenti esigenze di lavoro e di salute avrebbero impedito alla imputata di osservare il contenuto del provvedimento obiettivamente generico emesso dal Presidente del Tribunale di Roma e di garantire quindi il diritto di visita del padre, ritenuta integrata l’ipotesi di reato,  condannavano la madre affidataria alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti dell’ex coniuge.

 Il ricorso presentato  dall’imputata è  articolato in due motivi, con i quali, da un lato, viene dedotto il vizio di violazione di legge in relazione alla fattispecie di cui all’art.388 del codice penale, e, dall’altro, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.

La decisione della Corte di Cassazione: i giudici di legittimità approfondiscono il contenuto del provvedimento con cui il Presidente del Tribunale aveva disciplinato il diritto di visita della figlia in favore del padre, evidenziando, al pari di quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la vaghezza e genericità delle prescrizioni, poi in un secondo momento revocate.

La Corte di Cassazione si sofferma sul percorso motivazionale seguito dai giudici di merito evidenziandone l’illogicità e la contraddittorietà. Ed infatti pur leggendosi nella sentenza della Corte di Appello che il padre della minore avesse obbiettivamente approfittato della genericità del provvedimento del giudice civile e che  in alcuni casi le violazioni erano state giustificate  da esigenze di lavoro della donna nonché da problematiche di salute, ha ritenuto integrato il comma secondo dell’art.388 c.p..

In merito a tale reato,  la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, ha ribadito che: “..integra una condotta elusiva dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori, rilevante ai sensi dell’art. 388 c.p., comma 2, anche il mero rifiuto di ottemperarvi da parte del genitore affidatario, salva la sussistenza di contrarie indicazioni di particolare gravità, quando l’attuazione del provvedimento richieda la sua necessaria collaborazione. “Eludere” significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione; il genitore affidatario è tenuto a favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. Ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo (in tal senso, Sez. 6, n. 12391 del 18/03/2016, M. Rv. 266675; Sez. 6, n. 27995, del 05/03/2009, Fichera, Rv. 244521)”

Secondo il dictum della Cassazione ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art.388 comma secondo, c.p., e che non è stato chiarito attraverso idonea e logica  motivazione da parte della Corte di Appello, se nel caso di specie vi sia stato un atto di rifiuto, una espressa manifestazione da parte della madre affidataria posta in essere in una qualsiasi forma, di non ottemperare alle legittime pretese altrui nascenti da un  provvedimento, definito “vuoto e generico”, del Giudice Civile.

Nell’impugnata sentenza questa problematica viene ignorata perché non chiarisce quale fosse il limite di esigibilità del comportamento della madre affidataria rispetto ad un diritto rimesso all’arbitrio incondizionato del padre non affidatario.  Nemo tenetur ad impossibilia: la madre affidataria  non avrebbe mai  potuto allontanarsi dalla propria abitazione per non sottrarsi alla richiesta incondizionata e non previamente concordata del padre  di   fare visita alla bambina.

Nel caso di affidamento di un figlio minore, le prescrizioni  poste dal giudice civile hanno la finalità di contemperare e tutelare i diritti di entrambi i genitori per il bene  del minore.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso presentato in favore della madre affidataria ha annullato la sentenza impugnata  rinviando per un nuovo giudizio innanzi ad altra sezione della Corte di Appello  che dovrà procedere, in maniera non sbrigativa,  a chiarire i punti indicati e verificare  se ed in che limiti il comportamento della imputata sia sussumibile nell’ambito della fattispecie di reato contestata.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Art. 468 cod. procedura penale: Citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici

Processo penale: quali sono i limiti che giustificano la non ammissione di un testimone?

 

L’art. 468, comma 1, c.p.p.  prevede che “le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”.

Come chiarito anche dalla Suprema Corte, la parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge ha la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, “considerato che il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall’art. 468, comma 1, soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria, e che l’opposta soluzione vanificherebbe il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa” (Cass. pen., Sez. V, 12 novembre 2013, n. 2815; negli stessi termini, Cass. pen., Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9606).

Tale orientamento  giurisprudenziale  risulta essere aderente ai principi che regolano il diritto dell’imputato alla controprova, tenuto conto, in primo luogo, del disposto dell’art. 495, comma 2, c.p.p., che  sancisce il diritto dell’imputato di ottenere l’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a e soprattutto, dei principi costituzionali in materia (art. 111, comma 3, Cost.) ed è rispettoso della Cedu (art. 6, paragrafo 3, lett. D),Cedu).

In altri termini, l’imputato ha sempre diritto all’ammissione delle prove che tendono a negare i fatti di cui è chiamato a rispondere ed analogo diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a discarico indicate dall’imputato.

Tale breve inquadramento tematico si è ritenuto necessario per affrontare la questione relativa al bilanciamento tra la discrezionalità, riconosciuta dal Legislatore, in capo al  Giudicante  nel valutare la necessità o meno di ammettere  un mezzo istruttorio ed il diritto costituzionalmente garantito all’imputato a vedersi ammessa  prova diretta o contraria. Tale delicato tema unitamente a quello relativo alla cd. prova decisiva è stato affrontato dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione con la pronuncia n.53823/2017.

La Suprema Corte in accoglimento dei motivi della difesa del ricorrente ha emesso il seguente principio di  diritto:  la circostanza per la quale in sede dibattimentale siano già stati sentiti numerosi testimoni non vale, di per sé, a giustificare la compressione del diritto della difesa di assumere la deposizione di un teste rilevante (rectius, decisivo), essendo ovviamente scopo del processo quello di pervenire ad una decisione “giusta” all’esito di un processo “giusto”, il che impone e presuppone la più ampia disponibilità di elementi di prova al fine di evitare che residuino lacune “colmabili” attraverso, appunto, l’ammissione di uno o più elementi probatori.

La vicenda processuale: la Corte d’appello aveva confermato la condanna irrogata nei confronti dell’imputato in  primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia per fatti commessi anche in presenza dei figli minori. Secondo quanto argomentato dai Giudici di merito, la prova era stata desunta dalle  dichiarazioni della vittima e da quelle rese dalla nonna materna che avrebbe riferito in dibattimento di fatti e di vicende apprese dal racconto fattole dalla nipotina minorenne. La testimonianza della minore, però, veniva ritenuta dal Giudice del primo grado superflua senza che venisse addotta  alcuna specifica e necessaria  motivazione trattandosi di un testimone che non solo risultava essere stato indicato nella lista testimoniale ammessa della difesa, ma anche soggetto  che avrebbe dovuto essere escusso a conferma delle dichiarazioni de relato della nonna.

Proponeva ricorso per cassazione, avverso la sentenza di condanna, l’imputato censurando sotto molteplici profili la decisione della Corte di Appello. Non solo la ritenuta configurabilità del reato contestato e delle ritenute aggravanti, ma anche l’assenza di motivazione in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e la conseguenziale lesione  del diritto alla prova contraria erano oggetto degli  specifici ed analitici motivi di impugnazione.

La  Cassazione ha accolto le doglianze difensive riconoscendo come nel caso di specie vi fosse la necessità, in considerazione degli elementi emersi nel contraddittorio, ad escutere la figlia minore per poter ottenere la reale e riscontrata ricostruzione degli accadimenti. Decisiva, sotto tale profilo, appariva per la Cassazione la prova omessa, in quanto, la concreta assunzione della testimonianza avrebbe potuto concretamente intaccare la trama della sentenza impugnata erta sulle sole dichiarazioni della p.o., e su quelle prive di conferma rese  de relatodalla nonna.

I Giudici di legittimità hanno criticano, inoltre, la motivazione della Corte d’appello che, senza in alcun modo soffermarsi sull’importanza della testimonianza richiesta, si era limitata a rappresentare che erano stati escussi ben 7 testimoni della difesa. Da qui l’annullamento della sentenza essendo  sempre necessario l’ approfondimento delle fonti di prova disponibili al fine di giungere ad una sentenza giusta.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Indebita percezione di erogazione a danno dello Stato e non truffa all’Inpdap

Familiare che non comunica all'INPS il decesso del prossimo congiunto e incassa la pensione: non è truffa aggravata

 

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza emessa in data 10/11/2017 n.55525, ha annullato senza rinvio, previa riqualificazione del fatto contestato, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma che  aveva confermato la decisione del Tribunale di Rieti  che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del delitto di truffa aggravata in danno dell’Inpdap per l’omessa comunicazione all’istituto del decesso del genitore percettore di pensione.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere la prospettazione difensiva secondo cui il comportamento omissivo contestato all’imputato non si prestava a costituire l’elemento strumentale della truffa, sulla scia di  quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n.16568/200, ha statuito: “Questa Corte ha precisato che integra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter cod. pen. e non quella di truffa aggravata l’indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’Ente previdenziale il decesso del pensionato (Sez. 2, n. 48820 del 23/10/2013, Brunialti, Rv. 257430), evidenziando che quello che essenzialmente rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel primo di detti reati e presente, invece, nel secondo. Nel solco tracciato dalla pronunzia delle Sezioni Unite, n. 16568 del 19/04/2007 , Carchivi, Rv. 235962, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p. abbraccia situazioni residuali rispetto alle contigue fattispecie ex artt. 640, comma 2, e 640 bis cod.pen., come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, il meno grave delitto di cui all’art. 316 ter è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa (Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Oro, Rv. 266979; n. 49642 del 17/10/2014, Ragusa, Rv. 261000). Deve, pertanto, ritenersi che integri la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che ometta di comunicare all’istituto erogante il trattamento pensionistico il decesso del congiunto titolare dello stesso, così continuando a percepirlo indebitamente, come nella specie accaduto.”

La condotta  tenuta dall’imputato essendo, infatti, consistita unicamente nell’omessa comunicazione all’Inpdap del decesso del genitore, e non  essendo  tale comportamento omissivo stato accompagnato da ulteriori comportamenti fraudolenti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non integra l’artifizio e raggiro richiesto per poter configurarsi il reato di truffa aggravata ex art.640 bis c.p..

Ciò che rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel reato previsto e punito dall’art.316 ter c.p. e presente, invece, in quello p.e p. dall’art.640 bis c.p..  L’assenza di un positivo comportamento fraudolento rileva nella configurabilità di una o l’altra ipotesi delittuosa.

L’art.316 ter c.p. punisce tutte le condotte non fraudolenti nel conseguimento di erogazioni pubbliche: condotte che, pur avendo causato l’indebita percezione di erogazioni pubbliche, non siano propriamente consistite in artifici o raggiri. E tale condotta essendo  considerata dal Legislatore di minore disvalore  è  punita in maniera meno grave rispetto alla truffa aggravata.

E’ necessario sottolineare che dalla pronunzia delle dalle Sezioni Unite del 19 Aprile del 2007 n.16568, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art.316 ter c.p. comprende ipotesi  residuali rispetto alle fattispecie previste negli articoli 640 e 640 bis c.p., come quelle del mero silenzio o di condotte che non inducano in errore lo Stato o l’Ente erogatore  della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, laddove difettino nella condotta dell’imputato  gli estremi della truffa si configura sempre  il meno grave delitto di cui all’art.316 ter c.p.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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