Art. 388 c.p. Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice

È colpevole la madre che non rispetta l’ordine di far vedere la figlia al padre “quando vuole”?

 

La lettura della sentenza, n.1748 del 16 Gennaio 2018 emessa dalla VI Sezione Penale della Corte di Cassazione, ci permette di affrontare una questione particolarmente delicata  e di interesse sociale  in materia di  provvedimenti riguardanti l’affidamento dei minori  emessi dal Giudice Civile.

Il comma secondo dell’art.388 c.p. punisce tutte le condotte che costituiscono consapevole elusione del provvedimento del giudice civile che concerna l’affidamento dei minori, ovvero quei comportamenti che rendano vane le legittime pretese altrui.

La Corte di Cassazione con la sentenza in esame chiarisce che la rilevanza penale dell’inosservanza del provvedimento del giudice debba essere ancorata al concreto disvalore della condotta, giacché la ratio della norma è quella di punire chi agendo  in spregio delle prescrizioni impartite ostacoli il diritto del minore ad essere accompagnato nella propria crescita da entrambi i genitori.

Per tale ragione,  in una materia così delicata ove soprattutto nella prima fase delle separazione tra i coniugi il livello di  conflittualità è molto alto,  si appalesa la necessità che il Giudice Civile statuisca in modo chiaro e dettagliato le modalità di visita del genitore non affidatario.

L’incapacità dei genitori di riuscire a regolamentare i loro rapporti in modo civile, e di garantire soprattutto, per quel che interessa, la crescita equilibrata dei figli in presenza di entrambe le figure genitoriali, impone l’emissione da parte del Giudice Civile di provvedimenti ove i diritti ed i doveri di ciascuna parte   siano ben chiari ed esplicitati. Non è peregrino sottolineare, infatti, che è proprio l’incapacità di una coppia a regolare i propri rapporti, a seguito della fine del matrimonio, a giustificare il ricorso al Tribunale Civile.

Il caso concreto posto all’attenzione della Corte di Cassazione: il Presidente del Tribunale di Roma, in sede di giudizio di separazione, aveva riconosciuto al padre  il diritto di fare visita alla figlia presso l’abitazione materna quando vuole e proprio la vaghezza e la genericità di tale prescrizione aveva reso i rapporti tra i coniugi maggiormente conflittuali. Il padre della bambina, in forza di tale mera dicitura comunicava semplicemente  quando intendeva recarsi dalla minore  senza in alcun modo armonizzarsi con gli impegni e con le esigenze dell’affidataria, la quale dal canto suo in varie occasioni avrebbe negato il diritto di visita al padre in base ad impegni precedentemente presi, esigenze lavorative e di salute.

Tale  situazione, però,   sarebbe cessata con l’emissione di un nuovo provvedimento da parte del Presidente del Tribunale di Roma, che  revocato l’incondizionato diritto di visita del padre, aveva diversamente disciplinato i rapporti tra il  genitore non affidatario e la minore.

I Giudici di merito pur avendo riconosciuto che  in alcune occasioni le sussistenti esigenze di lavoro e di salute avrebbero impedito alla imputata di osservare il contenuto del provvedimento obiettivamente generico emesso dal Presidente del Tribunale di Roma e di garantire quindi il diritto di visita del padre, ritenuta integrata l’ipotesi di reato,  condannavano la madre affidataria alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti dell’ex coniuge.

 Il ricorso presentato  dall’imputata è  articolato in due motivi, con i quali, da un lato, viene dedotto il vizio di violazione di legge in relazione alla fattispecie di cui all’art.388 del codice penale, e, dall’altro, la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata.

La decisione della Corte di Cassazione: i giudici di legittimità approfondiscono il contenuto del provvedimento con cui il Presidente del Tribunale aveva disciplinato il diritto di visita della figlia in favore del padre, evidenziando, al pari di quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la vaghezza e genericità delle prescrizioni, poi in un secondo momento revocate.

La Corte di Cassazione si sofferma sul percorso motivazionale seguito dai giudici di merito evidenziandone l’illogicità e la contraddittorietà. Ed infatti pur leggendosi nella sentenza della Corte di Appello che il padre della minore avesse obbiettivamente approfittato della genericità del provvedimento del giudice civile e che  in alcuni casi le violazioni erano state giustificate  da esigenze di lavoro della donna nonché da problematiche di salute, ha ritenuto integrato il comma secondo dell’art.388 c.p..

In merito a tale reato,  la Sesta Sezione della Corte di Cassazione, ha ribadito che: “..integra una condotta elusiva dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile concernente l’affidamento di minori, rilevante ai sensi dell’art. 388 c.p., comma 2, anche il mero rifiuto di ottemperarvi da parte del genitore affidatario, salva la sussistenza di contrarie indicazioni di particolare gravità, quando l’attuazione del provvedimento richieda la sua necessaria collaborazione. “Eludere” significa frustrare, rendere vane le legittime pretese altrui e ciò anche attraverso una mera omissione; il genitore affidatario è tenuto a favorire, a meno che sussistano contrarie indicazioni di particolare gravità, il rapporto del figlio con l’altro genitore, e ciò proprio perché entrambe le figure genitoriali sono centrali e determinanti per la crescita equilibrata del minore. Ostacolare gli incontri tra padre e figlio, fino a recidere ogni legame tra gli stessi, può avere effetti deleteri sull’equilibrio psicologico e sulla formazione della personalità del secondo (in tal senso, Sez. 6, n. 12391 del 18/03/2016, M. Rv. 266675; Sez. 6, n. 27995, del 05/03/2009, Fichera, Rv. 244521)”

Secondo il dictum della Cassazione ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art.388 comma secondo, c.p., e che non è stato chiarito attraverso idonea e logica  motivazione da parte della Corte di Appello, se nel caso di specie vi sia stato un atto di rifiuto, una espressa manifestazione da parte della madre affidataria posta in essere in una qualsiasi forma, di non ottemperare alle legittime pretese altrui nascenti da un  provvedimento, definito “vuoto e generico”, del Giudice Civile.

Nell’impugnata sentenza questa problematica viene ignorata perché non chiarisce quale fosse il limite di esigibilità del comportamento della madre affidataria rispetto ad un diritto rimesso all’arbitrio incondizionato del padre non affidatario.  Nemo tenetur ad impossibilia: la madre affidataria  non avrebbe mai  potuto allontanarsi dalla propria abitazione per non sottrarsi alla richiesta incondizionata e non previamente concordata del padre  di   fare visita alla bambina.

Nel caso di affidamento di un figlio minore, le prescrizioni  poste dal giudice civile hanno la finalità di contemperare e tutelare i diritti di entrambi i genitori per il bene  del minore.

Per tali ragioni la Corte di Cassazione in accoglimento del ricorso presentato in favore della madre affidataria ha annullato la sentenza impugnata  rinviando per un nuovo giudizio innanzi ad altra sezione della Corte di Appello  che dovrà procedere, in maniera non sbrigativa,  a chiarire i punti indicati e verificare  se ed in che limiti il comportamento della imputata sia sussumibile nell’ambito della fattispecie di reato contestata.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Art. 468 cod. procedura penale: Citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici

Processo penale: quali sono i limiti che giustificano la non ammissione di un testimone?

 

L’art. 468, comma 1, c.p.p.  prevede che “le parti che intendono chiedere l’esame di testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210 devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria, almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con la indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame”.

Come chiarito anche dalla Suprema Corte, la parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge ha la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, “considerato che il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall’art. 468, comma 1, soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria, e che l’opposta soluzione vanificherebbe il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa” (Cass. pen., Sez. V, 12 novembre 2013, n. 2815; negli stessi termini, Cass. pen., Sez. V, 3 novembre 2011, n. 9606).

Tale orientamento  giurisprudenziale  risulta essere aderente ai principi che regolano il diritto dell’imputato alla controprova, tenuto conto, in primo luogo, del disposto dell’art. 495, comma 2, c.p.p., che  sancisce il diritto dell’imputato di ottenere l’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a e soprattutto, dei principi costituzionali in materia (art. 111, comma 3, Cost.) ed è rispettoso della Cedu (art. 6, paragrafo 3, lett. D),Cedu).

In altri termini, l’imputato ha sempre diritto all’ammissione delle prove che tendono a negare i fatti di cui è chiamato a rispondere ed analogo diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a discarico indicate dall’imputato.

Tale breve inquadramento tematico si è ritenuto necessario per affrontare la questione relativa al bilanciamento tra la discrezionalità, riconosciuta dal Legislatore, in capo al  Giudicante  nel valutare la necessità o meno di ammettere  un mezzo istruttorio ed il diritto costituzionalmente garantito all’imputato a vedersi ammessa  prova diretta o contraria. Tale delicato tema unitamente a quello relativo alla cd. prova decisiva è stato affrontato dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione con la pronuncia n.53823/2017.

La Suprema Corte in accoglimento dei motivi della difesa del ricorrente ha emesso il seguente principio di  diritto:  la circostanza per la quale in sede dibattimentale siano già stati sentiti numerosi testimoni non vale, di per sé, a giustificare la compressione del diritto della difesa di assumere la deposizione di un teste rilevante (rectius, decisivo), essendo ovviamente scopo del processo quello di pervenire ad una decisione “giusta” all’esito di un processo “giusto”, il che impone e presuppone la più ampia disponibilità di elementi di prova al fine di evitare che residuino lacune “colmabili” attraverso, appunto, l’ammissione di uno o più elementi probatori.

La vicenda processuale: la Corte d’appello aveva confermato la condanna irrogata nei confronti dell’imputato in  primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia per fatti commessi anche in presenza dei figli minori. Secondo quanto argomentato dai Giudici di merito, la prova era stata desunta dalle  dichiarazioni della vittima e da quelle rese dalla nonna materna che avrebbe riferito in dibattimento di fatti e di vicende apprese dal racconto fattole dalla nipotina minorenne. La testimonianza della minore, però, veniva ritenuta dal Giudice del primo grado superflua senza che venisse addotta  alcuna specifica e necessaria  motivazione trattandosi di un testimone che non solo risultava essere stato indicato nella lista testimoniale ammessa della difesa, ma anche soggetto  che avrebbe dovuto essere escusso a conferma delle dichiarazioni de relato della nonna.

Proponeva ricorso per cassazione, avverso la sentenza di condanna, l’imputato censurando sotto molteplici profili la decisione della Corte di Appello. Non solo la ritenuta configurabilità del reato contestato e delle ritenute aggravanti, ma anche l’assenza di motivazione in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e la conseguenziale lesione  del diritto alla prova contraria erano oggetto degli  specifici ed analitici motivi di impugnazione.

La  Cassazione ha accolto le doglianze difensive riconoscendo come nel caso di specie vi fosse la necessità, in considerazione degli elementi emersi nel contraddittorio, ad escutere la figlia minore per poter ottenere la reale e riscontrata ricostruzione degli accadimenti. Decisiva, sotto tale profilo, appariva per la Cassazione la prova omessa, in quanto, la concreta assunzione della testimonianza avrebbe potuto concretamente intaccare la trama della sentenza impugnata erta sulle sole dichiarazioni della p.o., e su quelle prive di conferma rese  de relatodalla nonna.

I Giudici di legittimità hanno criticano, inoltre, la motivazione della Corte d’appello che, senza in alcun modo soffermarsi sull’importanza della testimonianza richiesta, si era limitata a rappresentare che erano stati escussi ben 7 testimoni della difesa. Da qui l’annullamento della sentenza essendo  sempre necessario l’ approfondimento delle fonti di prova disponibili al fine di giungere ad una sentenza giusta.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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Indebita percezione di erogazione a danno dello Stato e non truffa all’Inpdap

Familiare che non comunica all'INPS il decesso del prossimo congiunto e incassa la pensione: non è truffa aggravata

 

La Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza emessa in data 10/11/2017 n.55525, ha annullato senza rinvio, previa riqualificazione del fatto contestato, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma che  aveva confermato la decisione del Tribunale di Rieti  che aveva riconosciuto l’imputato colpevole del delitto di truffa aggravata in danno dell’Inpdap per l’omessa comunicazione all’istituto del decesso del genitore percettore di pensione.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere la prospettazione difensiva secondo cui il comportamento omissivo contestato all’imputato non si prestava a costituire l’elemento strumentale della truffa, sulla scia di  quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la pronuncia n.16568/200, ha statuito: “Questa Corte ha precisato che integra la fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter cod. pen. e non quella di truffa aggravata l’indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’Ente previdenziale il decesso del pensionato (Sez. 2, n. 48820 del 23/10/2013, Brunialti, Rv. 257430), evidenziando che quello che essenzialmente rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel primo di detti reati e presente, invece, nel secondo. Nel solco tracciato dalla pronunzia delle Sezioni Unite, n. 16568 del 19/04/2007 , Carchivi, Rv. 235962, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p. abbraccia situazioni residuali rispetto alle contigue fattispecie ex artt. 640, comma 2, e 640 bis cod.pen., come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, il meno grave delitto di cui all’art. 316 ter è configurabile solo quando difettino nella condotta gli estremi della truffa (Sez. 2, n. 23163 del 12/04/2016, Oro, Rv. 266979; n. 49642 del 17/10/2014, Ragusa, Rv. 261000). Deve, pertanto, ritenersi che integri la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non di truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di colui che ometta di comunicare all’istituto erogante il trattamento pensionistico il decesso del congiunto titolare dello stesso, così continuando a percepirlo indebitamente, come nella specie accaduto.”

La condotta  tenuta dall’imputato essendo, infatti, consistita unicamente nell’omessa comunicazione all’Inpdap del decesso del genitore, e non  essendo  tale comportamento omissivo stato accompagnato da ulteriori comportamenti fraudolenti, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, non integra l’artifizio e raggiro richiesto per poter configurarsi il reato di truffa aggravata ex art.640 bis c.p..

Ciò che rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla induzione in errore, assente nel reato previsto e punito dall’art.316 ter c.p. e presente, invece, in quello p.e p. dall’art.640 bis c.p..  L’assenza di un positivo comportamento fraudolento rileva nella configurabilità di una o l’altra ipotesi delittuosa.

L’art.316 ter c.p. punisce tutte le condotte non fraudolenti nel conseguimento di erogazioni pubbliche: condotte che, pur avendo causato l’indebita percezione di erogazioni pubbliche, non siano propriamente consistite in artifici o raggiri. E tale condotta essendo  considerata dal Legislatore di minore disvalore  è  punita in maniera meno grave rispetto alla truffa aggravata.

E’ necessario sottolineare che dalla pronunzia delle dalle Sezioni Unite del 19 Aprile del 2007 n.16568, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che l’ambito di applicabilità dell’art.316 ter c.p. comprende ipotesi  residuali rispetto alle fattispecie previste negli articoli 640 e 640 bis c.p., come quelle del mero silenzio o di condotte che non inducano in errore lo Stato o l’Ente erogatore  della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità. Pertanto, laddove difettino nella condotta dell’imputato  gli estremi della truffa si configura sempre  il meno grave delitto di cui all’art.316 ter c.p.

Giuseppe Biondi, nato a Napoli il 9 Luglio 1971,avvocato abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, si è laureato in Giurisprudenza nel 1996 presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”.

E’ stato cultore della materia in  Criminologia e Legislazione Minorile presso l’Università degli studi di Napoli “FedericoII” e si è formato professionalmente presso importanti studi legali specializzati in diritto penale.

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