Autorizzazione commerciale e condono edilizio

Se è legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono edilizio non ancora esitata dall'amministrazione

 

La disamina della presente questione si risolve nello stabilire se sia legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, ovvero alla somministrazione di alimenti e bevande, in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata da parte dell’amministrazione comunale.

Giova premettere, al riguardo, che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella commerciale, da un lato, e quella condonistica, dall’altro) hanno alimentato la querelle che, solo di recente, ha trovato soluzione nelle, non sempre univoche, pronunce dei Tribunali amministrativi.

In maggior dettaglio, la normativa commerciale (D.lgs 114/98, Legge 287/91 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le attività devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienica-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.

Precedentemente all’entrata in vigore della suddetta disciplina normativa (e nel vigore dell’art. 24, comma III, Legge 426/71), la giurisprudenza amministrativa era pervenuta alla conclusione che non competesse all’amministrazione verificare, in sede di rilascio dell’autorizzazione, la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica o con la normativa edilizia, in quanto gli interessi diversi da quelli commerciali, indicati nell’abrogato art. 24 della Legge 426/71, dovevano essere tutelati con altre modalità ed in diverse sedi (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 30 settembre 1986, n. 1957; Tar Veneto, 4 dicembre 1985, n. 942; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 6 giugno 1988, n. 177; Tar Lazio, Latina, 27 gennaio 1990, n. 41; Tar Toscana, sez. II, 20 marzo 1996, n. 155; Tar Sardegna, 23 agosto 1996, n. 1971).

Tale orientamento giurisprudenziale, rinvenibile oggi sono in alcune isolate pronunce (cfr. Cons. Stato, sez. III, 02 dicembre 2003, n. 1879), muoveva dalla considerazione per cui la disciplina dettata in materia di commercio non subordinava esplicitamente il rilascio o il mantenimento dell’efficacia dell’autorizzazione all’accertamento della compatibilità del pubblico esercizio da autorizzare con le norme e prescrizioni urbanistiche, ma si limitava a stabilire che l’esercizio dell’attività non esclude il rispetto delle norme e prescrizioni suddette, restando salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 2 agosto 1993, n. 659).

Con l’entrata in vigore della Legge 287/91, prima, e del D.lgs 114/98 e del D.lgs n. 59/2010, poi, è maturata la consapevolezza che le disposizioni in materia di commercio stabiliscono un stretto collegamento tra la programmazione delle rete commerciale e la pianificazione urbanistica, sicché l’apertura e degli esercizi commerciali e di quelli di somministrazione di alimenti e bevande, è subordinata alle previsioni di quest’ultima, trattandosi di un rapporto tra attività di gestione e attività programmatoria (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 03 febbraio 2006, n. 160; Tar, Lombardia, 17 ottobre 2008, n. 5154), anche in considerazione della circostanza per cui l’amministrazione comunale non potrebbe tollerare una situazione che, per altri versi, dovrebbe reprimere (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 08 agosto 2007, n. 7409; TRGA, Bolzano, sez. I, 01 ottobre 2003, n. 427).

Con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali e di somministrazione presuppongono la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2001; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2521; Tar Campania, Napoli, sez. III. 23 febbraio 2003, n. 1250).

Tale orientamento, peraltro, è stato di recente ribadito dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa il quale ha avuto modo di chiarire che “in ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme ancora più puntuali. Così, il già citato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426, al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge”. Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nell’art. 3 L. 25 agosto 1991 n. 287, il quale dispone che le attività relative devono essere esercitate “nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma). Dal confronto tra i due testi, per altro, si evince agevolmente come, se non vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme in questione ha il valore, fatto palese nel secondo, di elemento costitutivo della fattispecie normativa…..Senza in alcun modo disconoscere, quindi, che nelle materie del commercio e dell’edilizia poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità alle disposizioni più volte citate, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio. A chiusura del sistema, del resto, va notato che tra le norme di cui il menzionato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza vi sono quelle della stessa legge n. 426 e, quindi, anche quelle più sopra considerate che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la relazione che si è detta. Si ritiene, in conclusione, di poter affermare che alla stregua della normativa vigente l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistico-edilizia…..rappresenta un momento istruttorio necessario, in quanto diretto ad accertare l’esistenza di un presupposto espressamente previsto dalla legge e che, pertanto, sia inibito all’autorità amministrativa il rilascio degli atti autorizzativi quando detta conformità faccia difetto” (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. V, n. 3639/2000; Cons. Stato, sez. IV, 3027/2007).

Con la conseguenza per cui “l’attività commerciale non può essere autorizzata in immobili difformi dalla disciplina urbanistica” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2005, n. 1543; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2008, n. 3398).

Nonostante l’approdo ermeneutico cui è giunta la giurisprudenza amministrativa in merito alla normativa dettata in subiecta materia, rimaneva irrisolta la questione relativa alla legittimità o meno del rilascio di un titolo autorizzatorio per immobili coperti da domanda di condono senza che la stessa fosse ancora esitata: questione, quest’ultima, alimentata dalle incertezze determinate dalla normativa condonistica di cui alla legge 47/85.

Partitamente, la disposizione a carattere generale di cui all’art. 44, primo comma della legge 47/85 stabilisce espressamente che “dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati  dall’art. 35, sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché quelli connessi all’applicazione dell’articolo 15 della legge 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo.”

Sospensione questa che comporta, quale conseguenza concreta, che la situazione dell’immobile e di ogni rapporto sussistente con il proprietario deve restare immutata rispetto alla situazione dell’immobile stesso alla data di entrata in vigore della legge, in condizioni di reciprocità, nel senso che la menzionata situazione di fatto non può né regredire, mediante iniziative della P.A. che riducono le facoltà di utilizzazione già in atto, né tantomeno può essere fatta avanzare, attraverso delle attività del privato che aumentino le facoltà già in atto.

E ciò con la ulteriore conseguenza che l’Amministrazione sarebbe tenuta a garantire al titolare della istanza di sanatoria, il mantenimento della destinazione commerciale e dell’uso dell’immobile in atto a quella data, con l’obbligo corrispettivo per esso “titolare” di non introdurre modificazioni rispetto a quella condizione di fatto innanzi indicate.

Pertanto, ove l’immobile oggetto di domanda di condono avesse destinazione commerciale, l’Amministrazione, al momento del rilascio dell’autorizzazione, non sarebbe tenuta a verificare la conformità del menzionato locale alla normativa edilizio-urbanistica, bensì esclusivamente a garantire al privato la continuazione nella utilizzazione dell’immobile secondo la propria destinazione.

Tali conclusioni, peraltro, sarebbero avallate dal regime transitorio di utilizzazione dei beni, nella condizione fissata alla data di entrata in vigore della legge 47/85, laddove si consideri che la disposizione di cui all’art. 40 della L. 47/85, fino a quando l’Amministrazione non abbia espresso un provvedimento di diniego alla istanza di sanatoria, ammette sia la commerciabilità per atto tra vivi, sia la possibilità di cederli in locazione.

Peraltro, con riferimento ad edifici destinati ad impianti produttivi, – esercizi commerciali, attività alberghiere – il combinato disposto dell’art. 34, ultimo comma e dell’art. 35, 3° comma, lett. d), ha stabilito un’oblazione pari al 50% di quella per le “residenze”, con parametri di riduzione o maggiorazione, connessi a classi di ampiezza delle opere abusive, perché venisse prodotto un certificato di iscrizione alla C.C.I.A.A., “da cui risulti che la sede dell’impresa” alla data di entrata in vigore della legge “è situata nei locali per i quali si chiede la concessione in sanatoria”; sede dell’impresa questa costituente quindi conditio sine qua non per poter beneficiare delle riduzioni per le destinazioni produttive, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 34.

L’entrata in vigore della legislazione sul “condono edilizio”, legittimerebbe, dunque, la facoltà del proprietario di poter utilizzare l’immobile per la medesima destinazione d’uso consolidatasi nell’immobile e comunque in atto alla data di presentazione della istanza di condono.

A suffragio di tale tesi, la giurisprudenza di alcuni Tribunali Amministrativi Regionali aveva chiarito che “l’abusività del fabbricato attiene soltanto al momento genetico non potendosi escludere, nel quadro della normativa introdotta dalla legge n. 47/85, la sua postuma legittimazione e la titolarità, in capo al proprietario che di quel bene ha chiesto il condono, di una aspettativa giuridica  alla citata legittimazione tramite appunto condono. Da quanto precede discende che l’abusività del fabbricato in questione (del quale è stato chiesto il condono) è condizionata al diniego del beneficio e perciò deve ritenersi sospesa in pendenza della relativa determinazione dell’Amministrazione. Orbene prima che intervenga tale diniego (che consoliderebbe l’abusività dell’edificio), appare conforme a logica e a principi di tutela della proprietà privata che il titolare dell’aspettativa possa, in pendenza della domanda di condono, compiere atti conservativi del bene e mantenere integre le sue ragioni” (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. III, 2 febbraio 2001, n. 546/2001)

In ragione di tanto, da più parti, si era ipotizzata la possibilità di rilasciare autorizzazioni commerciali relativamente ad immobili per i quali pendeva domanda di condono non ancora esitata dall’amministrazione comunale stante l’obbligo – discendente ex lege – di garantire la continuazione nella utilizzazione del locale per la destinazione commerciale.

Per converso, dalla lettura della normativa di riferimento (D.lgs 114/98, Legge 287/91 e D.lgs n. 59/2010) discende, in positivo, che l’esistenza di un valido titolo concessorio costituisce indispensabile presupposto per il rilascio dell’autorizzazione commerciale e alla somministrazione di alimenti e bevande e, in negativo, che la stessa preclude all’amministrazione di assentire autorizzazioni in locali privi delle necessarie autorizzazioni edilizie.

Ed invero, l’autorità preposta deve verificare la sussistenza, oltre che dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo previsti dalla normativa di riferimento, anche degli ulteriori parametri indicati dalla legge, quali, in particolare, la conformità della destinazione d’uso dell’immobile da destinare ad attività commerciale ed il rispetto delle norme, prescrizioni, autorizzazioni in materia edilizia ed urbanistica.

In linea, dunque, con la granitica giurisprudenza secondo cui è “illegittima l’autorizzazione di somministrazione a causa della inidoneità dei locali, privi di concessione edilizia” (cfr. Tar Campania Napoli, sez. III, n. 4493/01; Tar Campania, 16 novembre 2000, n. 4285; Tar Campania Napoli, sez. III, 19 luglio 2001, n. 3442; Tar Campania Napoli, sez. IV, n. 164/1996; Tar Lazio Roma, sez. II, 12 novembre 2003, n. 9894; Cons. Stato, sez. V, n. 5854/04; Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639; Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2000, n. 5656) si è attestata la successiva giurisprudenza che ha avuto modo di chiarire come la mera presentazione dell’istanza di condono non risulta sufficiente a confortare del rispetto delle norme, prescrizioni vigenti in materia edilizia, atteso che “la domanda di sanatoria conferma l’abusività dei locali e non sostituisce certo la concessione”(cfr. sul punto Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 7324/2005; Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 4493/01).

E ciò in quanto, le attività commerciali e di somministrazione“devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni ed autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici”. Come appare pacifico già dalla mera lettura della disposizione in esame, il legislatore ha inteso affermare che, ai fini del rilascio delle autorizzazioni per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, l’autorità amministrativa competente deve verificare non solo la ricorrenza di presupposti e requisiti previsti…………. e, più in generale, dalle disposizioni volte alla disciplina delle attività commerciali, ma anche quelle più specificamente relative alla legittima utilizzabilità dei locali ai fini dello svolgimento dell’attività autorizzanda, sia sotto il profilo edilizio-urbanistico sia sotto il profilo igienico-sanitario. Ne consegue che l’accertamento della conformità del locale alla disciplina edilizia ed urbanistica, in primis asseverata attraverso la verifica della realizzazione del locale stesso sulla base di idonei e legittimi titoli autorizzatori, nonché alla disciplina igienico-sanitaria, asseverata attraverso idonea verifica, costituiscono presupposti indefettibili per il rilascio dell’autorizzazione. Di modo che, laddove il locale indicato come luogo di svolgimento dell’attività non risulti conforme alle citate prescrizioni, l’autorizzazione………. Nel caso di specie, il locale indicato ai fini dello svolgimento dell’attività da autorizzarsi è oggetto di istanza di condono edilizio ………….. sulla quale l’amministrazione comunale non si è pronunciata, come si evince sia dal certificato di agibilità provvisoria…………. Orbene, tale circostanza rende illegittima l’autorizzazione rilasciata in quanto essa riguarda una attività da svolgersi in locale che risulta, per un verso, non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica, né “ricondotto a conformità”, per effetto dell’istanza di condono presentata. …Né conduce a diversa conclusione quanto dedotto sia dal Comune sia dalla controinteressata, in ordine alla commerciabilità del bene, in pendenza di decisione sulla istanza di condono, poiché, nel caso di specie, non si discute della trasferibilità di un bene, o dei diritti sul medesimo, bensì della assentibilità di un provvedimento di natura commerciale, subordinata alla positiva verifica della conformità dei locali di svolgimento dell’attività alla normativa edilizio-urbanistica; conformità, come si è detto, assente al momento del rilascio dell’autorizzazione impugnata (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. III, 02/11/2015,  n. 5081; in terminis Tar Campania, Napoli, sez. II, 03 novembre 2005, n. 9711/06).

Di recente, peraltro, il principio è stato ribadito dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa il quale ha chiarito che “l’art. 3 comma 7, l. 25 agosto 1991 n. 287, nel disporre che le attività di somministrazione di alimenti e bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, richiede ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni che l’autorità amministrativa verifichi non solo la presenza dei presupposti e requisiti in materia di attività commerciale, ma accerti anche la conformità dei locali, da utilizzare per l’autorizzanda attività, alle norme predette sotto il profilo sia edilizio-urbanistico che igienico-sanitario; di conseguenza è illegittima l’autorizzazione rilasciata relativamente ad un’attività di somministrazione di bevande da svolgersi in un locale non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica né ricondotto a conformità per effetto dell’accoglimento dell’istanza di condono presentata ma non ancora definita”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3262).

È evidente, dunque, che le enunciazioni giuridiche dei Giudici amministrativi ribadiscono, correttamente interpretando la normativa di riferimento, orientamenti giurisprudenziali assolutamente pacifici che precludono il rilascio di un’autorizzazione alla somministrazione in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata.

La preclusione al rilascio di idoneo titolo commerciale in pendenza di domanda di condono non ancora esitata rileva, peraltro, sotto altro e diverso profilo.

Segnatamente, come noto, il rilascio dell’autorizzazione commerciale presuppone il previo rilascio del certificato di agibilità ai sensi dell’art. 24 e ss D.P.R. 380/2001, come sostituito, da ultimo, dall’articolo 3, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (ovvero il consolidarsi della Scia presentata dal privato).

La normativa richiamata, così come affermato da granitica giurisprudenza, chiarisce che il certificato de quo (recte, il c.d. consolidarsi della segnalazione di inizio attività) non ha più solo finalità igienico-sanitarie – proprie della licenza di abitabilità e agibilità previste dalla legislazione previgente – ma può essere rilasciata solo ed esclusivamente allorché siano stati accertati dall’amministrazione idonei requisiti di sicurezza degli edifici, degli impianti installati nonché la conformità dello stesso alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie.

Con la conseguenza che la pendenza della domanda di condono, rimarcando l’abusività dell’immobile, preclude all’amministrazione il rilascio anche del certificato di agibilità.

In giurisprudenza è stato ripetutamente affermato che “se i locali sono abusivi l’agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina urbanistico –edilizia o del quale non è stata o è stata falsamente attestata la conformità al progetto approvato, perché il progetto non è stato approvato o l’opera è stata realizzata in difformità da esso”(cfr. Tar Veneto, Venezia, sez. III, n. 4702/03; Tar Veneto, sez. II, 17 novembre 1997, n. 1569; Cons. Stato. Sez. VI, 15 luglio 1993, n. 535; Tar Puglia Bari, sez. II, 15 giugno 1995, n. 467; Cass. Pen., sez. III, 18 novembre 1997, n. 3905; Cass.Pen., sez. III, 10 gennaio 1994, n. 72).

Ed ancora “L’esercizio dissociato dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi sussista un obiettivo collegamento, contrasta con il basilare criterio di ragionevolezza e, pertanto, è in evidente contrasto con il principio di buona amministrazione esplicitato anche dalla l. n. 241 del 1990: pertanto, pur non disconoscendosi che poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, la stretta connessione tra diversi tipi di provvedimento può legittimamente indurre ad indicare il medesimo fatto quale presupposto per l’esercizio di poteri diversi e dunque, nella specie, è legittimo il diniego dell’agibilità dei locali per ragioni paesistico – urbanistiche”(cfr. Consiglio Stato , sez. V, 05 aprile 2005, n. 1543).

Dello stesso avviso, la dottrina prevalente che subordina “il rilascio del certificato di agibilità alla accertata conformità del manufatto alla normativa edilizia ed urbanistica”(N.Assini-P.Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè edizione, 2007, pag. 835 e ss; M. Baroni, I presupposti per la licenza di abitabilità: non è vero che occorrono solo requisiti igienico-sanitari, TAR, 1987, II, 89 ss; V.Vincenzi, Abitazioni (igiene delle), EGI, I, Roma, 1988; C. De Caro Bonella, La licenza di abitabilità, Napoli, 1978, pag. 30 ss; V. Domenichelli, Alcune (tristi) riflessioni sulla nuova disciplina del certificato di abitabilità, D. REG (Veneto), 1986, pag. 445 ss; M.S.Giannini, In tema di licenza di abitabilità, FA, 1956, I, 2, 517 ss; F. Gaualandi, La disciplina del certificato di abitabilità: nuove problematiche alla luce del D.P.R. 22 aprile 1994, RG ED, 1995, II, pag. 53 ss; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2002, pag. 351 ss.).

E ciò in quanto “il procedimento di rilascio come un momento riepilogativo del controllo sull’attività edilizia, “data la stretta connessione fra norme previste dalla leggi sanitarie e quelle sancite dalla legge urbanistica in materia di costruzioni, che non consente una distinzione tra tutela di fini esclusivamente igienico-sanitari e tutela di fini esclusivamente urbanistico-edilizi”(cfr. De Caro Bonella, op. cit., pag. 30 ss).

Appare evidente, anche per tale ulteriore considerazione, che in ogni caso il certificato di agibilità (il consolidarsi della relativa SCIA) non può essere rilasciato laddove l’immobile risulta abusivo, e dunque realizzato in assenza dei necessari titoli abilitativi che ne certifichino la conformità alle prescrizioni e di carattere squisitamente urbanistico, sebbene pendente una domanda di condono.

Con la conseguenza per cui sarebbe illegittimo il rilascio da parte dell’amministrazione di una certificazione provvisoria di agibilità “non prevista dall’ordinamento che, comunque, può riguardare solo manufatti conformi alla disciplina edilizia ed urbanistica, e sulla cui base, pur avendo essa efficacia temporaneamente definita (un anno), è stata rilasciata l’autorizzazione senza particolari prescrizioni temporali e quindi fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello del rilascio”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3262).

Recentemente è stato, peraltro, chiarito che “la conformità dei manufatti alle norme urbanistico – edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del 1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico – edilizia” (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VI, 29 gennaio 2016, n. 592; T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 01-08-2012, n. 1447).

Con la conseguenza per cui “il certificato di agibilità non può essere ottenuto, in relazione ad immobili abusivi, se non quando risulti rilasciato il permesso di costruire in sanatoria” (cfr. in terminis, Tar Campania, Napoli, Sezione VII, 21 dicembre 2012 n. 5293).

E ciò in quanto, non essendo previsto nel nostro ordinamento giuridico la figura del titolo abilitativo provvisorio tale figura si porrebbe in contrasto con il principio di tipicità che sovrintende il principio dell’adozione di atti amministrativi validi ed efficaci.

L’agibilità provvisoria materializzerebbe aberrante figura di titolo rilasciato dall’amministrazione in precario che, viceversa, non ha cittadinanza nell’ordinamento amministrativo italiano.

Conclusivamente, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono è precluso all’amministrazione il rilascio di idoneo titolo commerciale sia per conclamato contrasto con le prescrizioni edilizie ed urbanistiche – come detto non ricondotte a conformità dalla pendenza della istanza di sanatoria – sia per la preclusione che incontra la P.A. nel consentire il consolidarsi della Scia presentata dal privato ai sensi degli artt. 24 e ss. del D.P.R. 380/2001.

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Immobile abusivo aggiudicato a seguito di procedure esecutive

Condono di immobili abusivi aggiudicati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali.

 

Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5598

 

“l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68)[….] fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio […].

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva […]”.

Cons. Stato, sez, IV, 25 novembre 2013, n. 5598

Leonardo Spagnoletti, Consigliere, Estensore

(Omissis)

Fatto e Diritto

1.) L’avv. N. D. C. ha acquistato in comproprietà con M. G. B. un immobile residenziale ubicato in Roma, alla via F. n. 16, piano I, scala A, interno 4, con annesse pertinenze, costituite da un terrazzo di mq. 36 circa al piano attico e da un locale al piano servizi, in esito a procedura esecutiva immobiliare.

L’immobile è stato trasferito in proprietà con decreto del Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Roma del 14 giugno 2001, trascritto il 20 settembre 2001, che disponeva il rilascio dell’immobile, poi conseguito, a seguito di precetto e primo accesso, in data 10 dicembre 2001, come da relativo verbale.

Con istanza pervenuta all’amministrazione comunale il 18 marzo 2002, le comproprietarie acquirenti hanno chiesto di poter condonare un’opera abusiva realizzata sul terrazzo al piano attico, integrante ambiente “residenziale” di mq. 26,98 (per volume vuoto per pieno di mc. 70,41), con versamento in unica soluzione dell’oblazione di € 1.505,00, della quale, secondo la dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata all’istanza, esse hanno avuto contezza soltanto a seguito del rilascio dell’immobile.

Con determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, comunicata con successiva nota del 18 giugno 2002, è stata rigettata l’istanza di condono edilizio “…essendo decorsi oltre 120 giorni – termine previsto dall’art. 40 co. 6 ex lege 47/85 – dalla data di trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive”.

Con il ricorso in primo grado n.r. 9573/2002, l’avv. D.C., costituita in proprio, ha impugnato il diniego di condono edilizio, deducendone l’illegittimità sotto vari profili, profilando subordinata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985.

Con la sentenza n. 3851 del 4 maggio 2011 il ricorso è stato rigettato, sul rilievo che:

– l’art. 40 comma 6 introduce eccezionale fattispecie di sanatoria di opere edilizie nel quadro del regime a sua volta derogatorio introdotto dalle disposizioni sul condono edilizio, ricollegando il termine per la presentazione dell’istanza irrefragabilmente all’atto del trasferimento, connesso all’esito di procedure esecutive anche concorsuali, senza che possa invocarsi alcun affidamento o possa rilevare la buona fede dell’acquirente;

– non sussistono evidenti profili di non manifesta infondatezza dell’evocata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 proprio in funzione del rilievo oggettivo dell’abuso edilizio, dell’inesistenza di profili di affidamento o di rilievo della buona fede dell’acquirente e della “inusuale lunghezza” del termine per la presentazione della domanda di sanatoria.

Con appello notificato il 4 novembre 2011 e depositato il 1° dicembre 2011, l’avv. D.C. ha impugnato la sentenza, deducendo in sintesi i seguenti motivi:

1) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, perché la disposizione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985, interpretata alla luce della sua ratio e coordinata con quella dell’art. 586 c.p.c., deve essere intesa nel senso che il termine decorre non già dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile, sebbene da quella della sua consegna all’acquirente, nella quale si rende conoscibile l’effettivo stato di fatto e quindi anche l’esistenza di eventuali opere abusive.

2) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, ribadendosi che nel caso di specie non viene in rilievo una astratta tutela dell’affidamento dell’acquirente, sebbene la conoscibilità dell’esistenza dell’abuso edilizio.

3) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione della legge n. 47/1985 – Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Omesso esame punti decisivi della controversia – Motivazione illogica, insufficiente, contraddittoria, con riferimento alla ritenuta manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, riproposta sub:

4) Questione di illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 42 e 97 Cost., in quanto l’art. 40 comma 6, se interpretato nel senso preclusivo della sanatoria, introduce ingiustificata disparità di trattamento in danno di acquirenti d’immobili abusivi in esito a procedure esecutive, manifestamente incolpevoli ed estranei all’abuso, con compressione ingiustificata del diritto di proprietà, per esposizione alle sanzioni repressive edilizie, ivi compresa demolizione e acquisizione gratuita dell’area di sedime del manufatto-

Costituitasi in giudizio, Roma Capitale, con memoria difensiva depositata in vista dell’udienza di discussione, ha dedotto a sua volta l’infondatezza dell’appello, richiamando la motivazione della sentenza gravata.

Con memoria di replica, l’appellante ha insistito per l’accoglimento dell’impugnazione.

All’udienza pubblica del 19 marzo 2013 l’appello è stato discusso e riservato per la decisione.

2.) L’appello in epigrafe è fondato e deve essere accolto, onde in riforma della sentenza gravata e in accoglimento del ricorso in primo grado deve essere annullata la determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, salvi i provvedimenti ulteriori dell’amministrazione in ordine all’esame della domanda di condono edilizio.

Com’é noto l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68) dispone che:

Nella ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”.

La disposizione fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio.

Nel caso di specie, il trasferimento riguardava in via principale l’appartamento, ex se legittimo, nonché due pertinenze, tra le quali il terrazzo in piano attico, riconosciute come tali e come parti indivisibili dell’immobile soltanto in esito alla perizia di stima del valore dell’immobile.

In effetti né nell’avviso di vendita all’incanto, né nella perizia di stima, né infine nel decreto di trasferimento si fa menzione alcuna della realizzazione sul terrazzo di un manufatto.

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva, che, in difetto di elementi di segno contrario, e secondo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà allegato all’istanza di condono, deve farsi risalire al momento della conseguita consegna dell’immobile, per effetto dell’esecuzione dell’ordine di rilascio, ossia al 10 dicembre 2001, data rispetto alla quale la presentazione dell’istanza di sanatoria (18 marzo 2002) è affatto tempestiva.

3.) Alla stregua dei rilievi che precedono, sono pertanto fondati il primo e secondo motivo d’appello, che assorbono l’evocata questione di costituzionalità della disposizione, da interpretare nei sensi, costituzionalmente adeguati, che precedono.

4.) In relazione alla novità e peculiarità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per dichiarare compensate per intero tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

(Omissis)

*** Nota a sentenza

Sommario

1. Premessa – 2. La vicenda devoluta al Consiglio di Stato – 3. Sulla decorrenza del termine di 120 giorni per la sanatoria ex art. 40 comma VI, Legge n. 47/85 – 4. Conclusioni

  1. Premessa

La decisione in commento, rimeditando e mitigando il contrastante e più restrittivo orientamento dei Tribunali Amministrativi Regionali (cfr. infra),  affronta il problema della decorrenza del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono ex art. 40 comma VI della Legge n. 47/85 per gli immobili, o loro parti, abusivi ed assegnati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali e concorsuali.

La recentissima decisione del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa muove più che da una interpretazione letterale e testuale della disposizione normativa presa in considerazione – rectius, art. 40 comma VI Legge n. 47/85 e art. 46 comma 5 D.P.R. n. 380/2001 –  da una “interpretazione politicamente consapevole, dove la fedeltà al testo ed all’intentio non si misura in chiave meramente grammaticale ma per la capacità di dare prosecuzione agli intendimenti costituenti”[1].

Attraverso tale interpretazione, infatti, il Consiglio di Stato “apre” ad una ermeneusi, per così dire, fluida non tanto della perentorietà del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono – che è, e rimane, “termine perentorio” – quanto piuttosto del dies a quo della sua decorrenza il quale non può che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, decorrere dalla data di effettiva scoperta e/o conoscenza dell’opera abusiva oggetto di procedura.

I Giudici di Palazzo Spada, in riforma alla sentenza resa in prime cure, hanno ritenuto illegittimo il diniego espresso dall’amministrazione comunale in merito a una istanza di condono edilizio presentata dall’acquirente di un immobile in esito a procedura esecutiva immobiliare in ragione dello spirare del termine di 120 giorni decorrenti, secondo l’orientamento sino ad oggi prevalente ed al quale i Primi Giudici hanno sostanzialmente aderito, dalla data di notifica del decreto trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive.

Le motivazioni della decisione in commento offrono lo spunto per una riflessione su tale disciplina speciale contenuta all’interno di una norma di sanatoria a sua volta speciale.

  1. La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato

I soggetti acquirenti, in esito a procedura concorsuale, di un immobile ad uso residenziale con annesse pertinenze, alla data dell’immissione in possesso ed a seguito del relativo accesso a mezzo Ufficiale Giudiziario – avvenuti entrambi ben oltre il termine di 120 giorni dalla data di notifica del decreto di trasferimento –, constatavano che sul terrazzo, accorpato all’unità immobiliare oggetto di assegnazione e posto al piano attico dell’immobile, insisteva una struttura di tipo metallico, posta nel lastrico solare, infissa al suolo, saldamente ancorata ai muri perimetrali portanti, fornita di porta anteriore e posteriore, anch’esse metalliche.

Tale ulteriore immobile non veniva menzionato né nella relazione di consulenza tecnica d’Ufficio resa nell’ambito del procedimento di esecuzione immobiliare nè nel Decreto di Trasferimento reso dal Tribunale Ordinario né nel foglio degli annunzi legali sul quale veniva pubblicizzata la vendita immobiliare né in alcun altro documento relativo alla procedura esecutiva e conseguente vendita all’incanto né, infine, negli ulteriori atti di trasferimento conseguenti all’aggiudicazione.

Con il decreto di trasferimento dell’immobile, peraltro, il Giudice dell’Esecuzione ingiungeva al conduttore dello stesso, ai sensi dell’art. 586 comma II c.p.c., di rilasciare l’immobile nella piena disponibilità delle aggiudicatici.

Notificato atto di precetto per il rilascio alla debitrice esecutata i soggetti acquirenti si immettevano nel possesso dell’immobile solo successivamente.

Evidente, dunque, che nonostante gli effetti reali del decreto di trasferimento si fossero antecedentemente prodotti (deposito del decreto di trasferimento in cancelleria/notifica dello stesso ai soggetti aggiudicatari), gli acquirenti venivano immessi nel possesso solo due mesi più tardi, allorquando si cristallizzavano gli effetti del trasferimento effettivo del decreto attraverso la concreta immissione nel possesso dell’immobile.

Pertanto, immessisi nel possesso ed avuta contezza di ulteriori immobili abusivi e non menzionati agli atti della procedura, gli acquirenti presentavano istanza di condono ai sensi dell’art. 40 comma 6 della Legge 47/85 rispettando, in ogni caso, il termine di 120 giorni dalla data di immissione in possesso dell’immobile ed allegando dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà circa la data di ultimazione delle opere e la prova del versamento della relativa oblazione.

La suddetta istanza veniva rigettata dall’amministrazione comunale per essere stata la stessa presentata dopo il decorso dei 120 giorni dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile.

Il provvedimento reiettivo veniva impugnato innanzi al Tribunale Amministrativo di primo grado, il quale – aderendo all’orientamento che ritiene inderogabile e decadenziale il termine di 120 giorni decorrente dalla data di trasferimento dell’immobile – rigettava il ricorso in quanto “l’abuso edilizio costituisce una pacifica fattispecie di illiceità permanente riferita all’immobile, non sanabile né dal tempo né dalla buona fede dell’acquirente, e che la possibilità di procedere alla sua sanatoria in via generale ed astratta, costituisce una palese deroga ai fondamentali principi di legalità, responsabilità e certezza giuridica tipici di ogni moderno Stato di diritto, conseguendone il carattere del tutto eccezionale, e quindi tassativo e non suscettibile di applicazione analogica o estensiva, sia delle norme di c.d. “condono edilizio” approvate dal legislatore pro tempore, e quindi della legge n. 47/1985 e dei termini tassativi da essa posti per le domande di condono per gli abusi preesistenti (salvo ulteriori deroghe di legge), sia, ed a maggior ragione, dell’art. 40, comma 6, norma speciale all’interno di una norma speciale di sanatoria, che pone per la sanatoria uno specialissimo termine “permanente” di 120 giorni da qualsiasi acquisto a seguito di procedure concorsuali o fallimentari” e che, peraltro, “né l’interessata aveva alcun margine di affidamento nel computare il decorso del termine in modi diversi dal chiaro disposto normativo, né il Comune aveva alcun margine istruttorio e discrezionale per poter accogliere l’istanza giunta fuori termini[2].

In altri termini, nella prospettiva del Collegio territoriale, trattandosi di una normativa speciale – derogatoria rispetto ai principi di legalità, responsabilità e di certezza giuridica – la stessa non sarebbe stata suscettibile di una interpretazione estensiva ovvero analogica; di talché, il termine di 120 giorni per la presentazione dell’istanza condonistica sarebbe dovuta irrimediabilmente farsi decorrere dalla data di adozione del decreto trasferimento dell’immobile.

  1. Sulla decorrenza del termine di 120 giorni per la sanatoria ex art. 40 comma VI, Legge n. 47/85

Come chiarito nelle premesse, la questione circa la decorrenza del termine di 120 giorni per la presentazione della sanatoria speciale ex art. 40 comma VI Legge n. 47/85 è stata oggetto, negli ultimi anni, di un acceso dibattito giurisprudenziale che ha dato luogo a non poche incertezze in ambito applicativo.

Si contrapponeva, infatti, l’orientamento giurisprudenziale che individuava il dies a quo nel momento di piena ed effettiva conoscenza del decreto di trasferimento emesso dal giudice dell’esecuzione  da parte dell’assegnatario [3] ovvero nella notifica dello stesso [4] a quello, molto più restrittivo, che lo individuava dalla data di emissione del decreto di trasferimento dell’immobile[5] e dal deposito nella cancelleria del Giudice dell’Esecuzione.

Con la sentenza in commento, invero, i Giudici di Palazzo Spada, pur non mettendo in discussione la perentorietà del termine di 120 giorni, chiariscono che la sua decorrenza non può che raccordarsi “all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio…che….deve farsi risalire al momento della consegna dell’immobile” [6].

L’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato dell’art. 40 comma 6 della Legge 47/85, invero, appare l’unica interpretazione conforme a Costituzione e politicamente consapevole, dove, come chiarito in precedenza, la fedeltà al testo non si misura in chiave meramente grammaticale ma proprio in virtù della capacità di dare prosecuzione agli intendimenti voluti dal legislatore nella materia trattata.

E ciò in quanto la normativa urbanistica, a partire dalla Legge 47/85, è stata animata dall’intento di approntare una speciale tutela del credito in caso di espropriazione forzata di un bene abusivo quando il credito fosse sorto prima dell’entrata in vigore di una norma di sanatoria e l’abuso sarebbe potuto essere sanato dal debitore, ma non lo è stato per sua negligenza.

Tale principio risulta sotteso sia all’articolo 40 comma 6 della legge 47/85 che all’articolo 46 comma 5 del T.U. dell’edilizia, approvato con il D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 [7] (ex art. 17 legge 47/85).

Entrambe le disposizioni normative dopo aver sancito la sanzione di nullità degli atti tra vivi, aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o loro parti se da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del titolo abilitativo o della domanda di sanatoria o della dichiarazione di anteriorità al 1° settembre 1967 [8], stabiliscono un’eccezione, escludendo dalla generale sanzione di nullità (propria dei trasferimenti volontari) l’immobile abusivo, aggiudicato o assegnato “a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali”.

L’articolo 40, ultimo comma, Legge 47/1985, così come l’art. 46 comma 5 del D.P.R. n. 380/2001, nel dare la possibilità all’assegnatario/aggiudicatario di presentare la domanda di condono entro 120 giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile vede risiedere la sua ratio nell’utilità sociale a regolarizzare un immobile abusivo in presenza di determinate condizioni.

Ciò posto, al fine di comprendere appieno l’approdo ermeneutico cui sono giunti i Giudici di Palazzo Spada, va evidenziato che la normativa di riferimento – secondo cui  “nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge” – non distingue tra effetti reali ed effetti possessori/conoscitivi; allorquando il comma 6 dell’art. 40 cit., fa riferimento al semplice trasferimento dell’immobile non può riferirsi alla mera adozione del decreto di trasferimento ovvero alla notifica dello stesso, ma al trasferimento di fatto e di diritto dell’immobile attraverso il conseguimento dell’effetto reale ed all’adempimento degli effetti obbligatori (rectius, ordine di rilascio) intrinseci di tutte le procedure esecutive: in sintesi, all’esito del completamento di una vera e propria fattispecie a formazione progressiva[9] che vede la genesi nell’aggiudicazione dell’immobile ed il suo completamento nel rilascio dello stesso attraverso l’immissione in possesso, così come emerge dalla struttura normativa dell’art. 586 c.p.c.[10]

Alla luce di tanto, è evidente che il termine di 120 giorni inizi a decorrere dal completamento, come detto, di una fattispecie a formazione progressiva[11] ovvero dall’immissione in possesso nell’immobile da parte dell’acquirente contemplata quale effetto naturale del trasferimento della proprietà ai sensi dell’art. 586 comma II c.p.c.

Solo, infatti, all’atto del verificarsi di tutti gli effetti giuridici del trasferimento reale si rendono conoscibili all’acquirente le irregolarità c.d. quiescenti attraverso l’accertamento della consistenza fisica dell’immobile al fine di comparare lo stato di diritto alla stato di fatto e di presentare, dunque, la domanda di condono per la sanatoria dello stesso.

Una diversa interpretazione, invero, contrasterebbe con i principi ispiratori della normativa di riferimento e con quelli di intrasmissibilità della sanzione.

Come noto, infatti, effetto della irregolarità di un immobile è la possibilità di applicazioni delle relative sanzioni.

Il problema, dunque, si pone proprio nelle compravendite immobiliari in termini di trasmissibilità degli effetti pregiudizievoli delle irregolarità urbanistiche a carico dell’acquirente.

Le sanzioni in materia edilizia pur avendo carattere reale, esercitandosi le stesse sul bene, ed apparendo a prima vista intrinsecamente trasmissibili in ragione del loro carattere punitivo[12], non possono essere poste a carico di altri soggetti rimasti estranei alla commissione degli abusi.

Per gli stessi, invero, è opportuno ricordare che la sanzione della nullità degli atti di trasmissione dei beni tende proprio a consentire l’applicazione di tali sanzioni solo ed esclusivamente nei confronti del responsabile dell’abuso che non può evidentemente avvantaggiarsi dall’attività illecita, ovvero contra ius[13].

La rimozione di tale limite legale in senso alle procedure esecutive non potrebbe di certo avere ricadute negative a carico dell’acquirente/aggiudicatario in buona fede.

Sarebbe, invero, sostanzialmente ingiusto che l’acquirente in buona fede fosse assoggettabile a sanzione per abusi commessi sullo stesso dal venditore e destinatario di sanzioni punitive quali, a titolo esemplificativo, ad interventi ripristinatori ovvero di confisca (con la relativa area di sedime) e debba soggiacere a pene per colpe da lui non commesse.

Paradossalmente, tale interpretazione legittimerebbe l’amministrazione ex art. 31 D.P.R. n. 380/2001 a porre in essere tutti gli atti consequenziali, anche l’acquisizione al patrimonio gratuito dell’area di sedime[14] e, dunque, anche di quelle porzioni legittimamente acquistate dall’aggiudicatrio in senso ad una procedura esecutiva[15].

Ed è proprio in virtù di tali finalità che l’impianto normativo di riferimento ha previsto (a titolo di sanzione punitiva) l’intrasmissibilità degli immobili abusivi ovvero, in caso di trasferimento nell’ambito di procedure esecutive, la possibilità dell’acquirente di sanare i relativi abusi proprio in quanto estraneo alla realizzazione degli stessi e di evitare, a titolo esemplificativo, tanto la sanzione della riduzione in pristino (peraltro, posta a suo carico) quanto quella della confisca che mantengono carattere spiccatamente personali e funzionali a punire il responsabile dell’abuso (artt. 27 e 31 del D.P.R. n. 380/2001).

È evidente, dunque, che attraverso la norma in commento il legislatore[16] ha inteso evitare che l’incommerciabilità del bene – connotato, come detto, da un chiaro profilo sanzionatorio personale – si risolva ingiustificatamente in danno del creditore – rectius, acquirente – incolpevole il quale rischierebbe di vedersi applicate sanzioni (in termini ripristinatori, espropriativi e di incommerciabilità) per fatti dallo stesso non compiuti[17] enfatizzando e tutelando, dunque, il principio di certezza dei rapporti di chi abbia acquistato inconsapevolmente un immobile abusivo onde escludere rischi derivanti da procedimenti sanzionatori[18].

In sintesi, la rimozione del limite legale operata dalle disposizioni normative che consentono la trasmissibilità della res abusiva (operando di fatto una scissione tra proprietario e responsabile dell’abuso anche con riferimento al regime applicativo delle sanzioni) giammai potrebbe pregiudicare proprio chi, “ignaro dell’abuso”[19], abbia acquistato un immobile in virtù di tale regime derogatorio di trasferibilità dei beni abusivi.

Una diversa interpretazione, come implicitamente affermato dalla sentenza in commento, insinuerebbe non pochi dubbi di costituzionalità dell’art. 40 della citata legge, per contrasto con gli artt. 3, 42 e 97 della Carta Costituzionale, ponendo a carico dell’acquirente un adempimento il cui assolvimento risulterebbe impossibile nel caso in cui il decreto di trasferimento venisse notificato oltre i centoventi giorni dalla sua formale adozione, senza che all’interessato sia data alcuna possibilità di conoscere altrimenti l’esistenza dell’abuso edilizio.

Peraltro, una interpretazione dell’art. 40 comma 6 Legge 47/85, quale quella fornita dai precedenti giurisprudenziali richiamati, determinerebbe non solo una ingiustificata disparità di trattamento, in ragione di una diversa tutela apprestata dall’ordinamento, a svantaggio di coloro che acquistino in deroga al principio dell’incommerciabilità di beni abusivi ma, massimamente, una ingiustificata, illogica e sproporzionata compressione e limitazione del diritto di proprietà: diritto soggettivo riconosciuto e tutelato nelle forme più ampie dal nostro ordinamento e dalla Costituzione, qualificato come assoluto ed intangibile, e che verrebbe oltremodo compromesso dall’eventuale confisca dei beni con la relativa area di sedime per fatti non imputabili all’aggiudicatario, violando, altresì, i principi di legalità, di personalità della pena (art. 27 Cost.) e delle sanzioni (art. 23 Cost.) che, irragionevolmente, l’acquirente si troverebbe a subire per fatti da lui non commessi.

La vigenza del principio generale di prevalenza dei valori costituzionali imponeva un’interpretazione della norma nei sensi indicati nella sentenza in commento.

Alla luce di tanto, è evidente che laddove la norma di riferimento indica il trasferimento dell’immobile come momento che segna il dies a quo del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono di certo non si riferisce all’adozione del decreto da parte del G.E. ma al trasferimento effettivo dell’immobile (reale e possessorio) onde consentire all’acquirente di avere piena conoscenza dell’abuso e di sanare lo stesso, secondo un atteggiamento consapevole, onde evitare di essere assoggettato a sanzioni per fatti da lui non commessi.

  1. Conclusioni

Alla luce della sentenza in commento, dunque, il termine di 120 giorni per la presentazione della speciale sanatoria ex art. 40 Legge n. 47/85 di immobili abusivi aggiudicati o assegnati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali non può che decorrere dalla effettiva conoscenza dell’abuso coincidente con la immissione in possesso nell’immobile oggetto di trasferimento.

[1] Cfr. Dizionario di Diritto Pubblico a cura di Sabino Cassese, Interpretazione di Mario Dogliani, pp. 3179 e ss, Giuffrè Editore, ed. 2006

[2] Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 4 maggio 2011, n. 3851.

[3] Cfr. sul punto Tar Toscana, Firenze, sez. III, 12 giugno 2013, n. 967 secondo cui “la formulazione letterale della norma di cui all’art. 40 ultimo comma è alquanto generica e imprecisa, parlando di 120 giorni dall’atto di trasferimento, lasciando all’interprete la esatta individuazione dell’adempimento della procedura esecutiva cui far specifico riferimento. In assenza di una formale comunicazione della Cancelleria all’acquirente, non pare possibile far coincidere tale dies a quo con fasi, quali l’emissione del decreto di trasferimento da parte del giudice dell’esecuzione o anche il deposito del decreto stesso in Cancelleria, che non sono suscettibili di conoscenza da parte del partecipante all’asta, con il concreto rischio di precludere all’aggiudicatario l’utilizzo di una parte del termine che il legislatore ha messo a suo disposizione per la presentazione della domanda di sanatoria. La norma deve invece essere letta nel senso che il termine inizia a decorrere dal momento in cui l’aggiudicatario sia stato posto concretamente in grado di conoscere il decreto di trasferimento emesso a suo favore”.

[4] Cfr. sul punto Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 29 novembre 2006, n. 13408, secondo cui “il termine di centoventi giorni entro il quale, ai sensi dell’art. 40 l. 28 febbraio 1985 n. 47, l’aggiudicatario di un manufatto abusivo, acquistato a conclusione di procedure esecutive può presentare domanda di sanatoria comincia a decorrere non dalla data di adozione del decreto di trasferimento ma da quella della sua notifica”; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 5 settembre 2003, n. 7339; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 26 luglio 2011, n. 1493; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 7 dicembre 2006,  n. 10225.

[5] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez, II, 17 luglio 2013, n. 1505; Tar Sicilia, Catania, 14 giugno 2005, n. 1003 secondo cui “ai sensi dell’art. 40 gli immobili sottoposti ad esecuzione (definizione ampia nella quale rientrano l’esecuzione individuale così come quella concorsuale) possono essere sanati in un termine diverso dalle normali scadenze per le richieste di condono edilizio; tale termine decorre dalla emissione del decreto di trasferimento”.

[6] Conformemente si rinveniva un solo precedente Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 1366/2007 secondo cui “la formula normativa (“120 giorni dall’atto di trasferimento”) deve essere interpretata nel senso che il termine decorre dal momento in cui, per effetto del trasferimento, il nuovo proprietario sia stato posto concretamente in grado di prendere conoscenza degli eventuali abusi edilizi da sanare e predisporre la documentazione necessaria

[7] Cfr. art. 46 comma 5 che, con previsione analoga all’art. 40 comma 4 della Legge n. 47/85, stabilisce che “. Le nullità di cui al presente articolo non si applicano agli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali. L’aggiudicatario, qualora l’immobile si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovrà presentare domanda di permesso in sanatoria entro centoventi giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria”.

[8] Cfr. art. 46 comma 1 del D.P.R. n. 380/2001 secondo cui “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”

[9] Cfr. Cass. Civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23709 secondo cui “in tema di vendita forzata, il trasferimento dell’immobile aggiuntato è l’effetto di una fattispecie complessa, costituita dall’aggiudicataria, dal successivo versamento del prezzo e dal decreto di trasferimento”.

[10] Cfr. Pasquale Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, ed. Giuffrè, 2002, pagg. 607 e ss; Giorgio Stella Richeter e Paolo Stella Richter, La giurisprudenza sul codice di procedura civile, Libro III a cura Giandomenico Magrone, ed. Giuffrè, pag. 586

[11] Cass. Civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23709; Cass. Civ.,, sez. III, 24 gennaio 2007, n. 1498

[12] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 11 maggio 2011, n. 2781, secondo cui “l’acquirente di un immobile succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive attive e passive che facevano capo al precedente proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartito, che precede nel tempo il contratto traslativo, in suo favore, della proprietà”.

[13] Cfr. Gian Carlo Mengoli, Manuale di diritto Urbanistico, VI^ ed., Giuffrè 2009, pagg. 1212 e ss.

[14] Cfr. Giorgio Pagliari, Corso di Diritto Urbanistico, III^ Edizione, Giuffrè 2002, pagg. 491 e ss.

[15] Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. II, 7 giugno 2013, n. 3026 secondo cui “Ai sensi dell’art. 31 commi 3 e 4, d.P.R. n. 380 del 2001, l’inottemperanza all’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva entro il termine previsto costituisce presupposto e condizione per l’irrogazione della sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia e il relativo provvedimento, oltre ad essere atto dovuto e consequenziale, privo di contenuti discrezionali, ha carattere meramente dichiarativo in quanto l’acquisizione avviene automaticamente per effetto dell’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione”.

[16] Ferma la sussistenza dell’ulteriore presupposto che “le ragioni del credito per cui si interviene o procede”, siano anteriori alla data di entrata in vigore della Legge n. 47/85, nel senso che il titolo che sorregge il trasferimento, a seguito di espropriazione immobiliare, deve essere anteriore alla suddetta legge (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016, n. 3243).

[17] cfr. sul punto Cass. Civ., sez. I, 26 febbraio 2009, n. 4640 secondo cui “mediante la norma in discorso, il legislatore ha inteso evitare che il regime d’incommerciabilità dell’immobile – connotato da un chiaro profilo sanzionatorio – si risolva ingiustificatamente in danno dei creditori incolpevoli”.

[18] cfr. Corte Cost., 10 maggio 2002, ord. n. 174

[19] Cfr. Cass. Civ. sez. III, 04 giugno 2013, n. 14022, secondo cui “il provvedimento di acquisizione del bene illecitamente edificato, e dell’area su cui sorge, al patrimonio del Comune, nell’ipotesi in cui il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 7 l. 28 febbraio 1985 n. 47 (poi art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), non può determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo”

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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