Corruzione interna ed internazionale e strumenti di contrasto

Le tecniche di contrasto alla corruzione ed i protocolli d’indagine.

 

1- PREMESSA

La corruzione costituisce un fenomeno variegato e complesso in grado di produrre effetti in ogni campo della vita umana.

Pubblica Amministrazione, politica, finanza, mercato: nessuno di questi settori può dirsi immune da fenomeni corruttivi.

Antichissima è la storia della corruzione; nuovissimi sono, al contrario, gli strumenti attraverso i quali viene esercitata e posta in essere.

Ed è proprio questa capacità di adattarsi ai cambiamenti sociali ed alle nuove regole che informano tanto il funzionamento della res publica, quanto la struttura dei mercati industriali e finanziari, che rende particolarmente ardua l’individuazione dei fenomeni corruttivi e, conseguentemente, la loro repressione.

È innegabile che, per un lunghissimo periodo, gli strumenti apprestati dall’ordinamento (rectius, dagli ordinamenti) nella lotta alla corruzione si siano dimostrati assolutamente inadeguati. Troppo legati, infatti, ad una visione del mondo, ormai, ampiamente superata (legislazioni ed attenzione alla corruzione diversa da Stato a Stato; scarso interesse e nessuna analisi per il fenomeno della cd. globalizzazione…) e troppo incentrati (direi quasi esclusivamente) sul rapporto tra cittadini ed amministrazione pubblica, gli strumenti di cui sopra si sono rivelati inidonei a fronteggiare un fenomeno che si muove, invece, in ambito internazionale e che si manifesta sempre più spesso anche nell’ambito dell’iniziativa economica privata e nel mercato.

Proprio con riferimento alle ipotesi di incriminazione della corruzione privata ed alle proposte di legge che, in tale direzione, sono state avanzate risulta doveroso segnalare –  mi si consentirà una breve divagazione –   un interessantissimo dato politico – criminale, che merita un’attenzione particolare ed è stato efficacemente evidenziato da E. Musco,  in L’Illusione Penalistica, Milano 2004.

Si tratta del grande paradosso che vede, nell’arco di appena un decennio, il ribaltamento radicale della prospettiva del trattamento giuridico della cd. privatizzazione e, cioè, della scelta di togliere l’economia dalle mani pubbliche, per inserirla nel libero gioco del mercato. Del passaggio, in altri termini, da una visione della privatizzazione come antidoto certo ed efficace al fenomeno corruttivo a luogo, essa stessa, bisognoso della più efficace forma di protezione che lo Stato è in grado di apprestare.

 È storia di appena dieci anni fa. Non sfuggirà nemmeno agli osservatori più distratti come la scoperta della corruzione sistemica, a seguito delle inchieste portate innanzi da tutte le Procure italiane, all’interno di quel fenomeno giudiziario noto come “tangentopoli”, abbia spinto i più autorevoli rappresentanti del mondo della politica e delle istituzioni (ma anche dell’impresa, del sindacato e, finanche, il “cittadino comune”) ad individuare le privatizzazioni come il miglior rimedio attuale  contro il dilagare della corruzione: la sottrazione di sempre più ampie fette dell’economia al potere pubblico – si diceva – sarebbe stato il toccasana al male endemico della società italiana e, cioè, alla corruzione.

È ovvio che dietro un così forte input ed una così definitiva diagnosi ci fossero ragioni solide e convincenti, né avrebbe potuto di certo inficiare un siffatto esito diagnostico la presenza, peraltro sparuta, di fattispecie di corruzione privata in altri ordinamenti giuridici.

È, tuttavia, doveroso evidenziare come, a distanza di pochi anni, questo esito, questa certezza, questa “terapia”, appaia stravolta e ribaltata e, comunque privata del suo contenuto essenziale. Sulla base di una “valutazione politica” è la stessa attività imprenditoriale privata (pochi anni orsono panacea di tutti i mali), invero, ad essere indiziata di produrre corruzione a livello tale da richiedere l’immediato intervento del potere punitivo statuale.

Non è, ovviamente, un calembour, ma un concreto accadimento normativo di cui occorre cercare una spiegazione e, soprattutto, una (la) giustificazione.

A ciò si aggiunga che per troppo tempo la corruzione è stata vista come un fenomeno meramente patologico, a cui dare una risposta soltanto di tipo penal – repressivo, senza dar vita ad una seria e penetrante  indagine in ordine alle sue cause e concause e, soprattutto, agli effetti, senz’altro devastanti (sul piano etico ed economico), che essa produce nei vari aspetti della vita umana. Non si è, in altri termini, svolta un’adeguata azione preventiva, in grado di eliminare quelle sacche di inefficienza ed opacità  all’interno dell’amministrazione pubblica, della burocrazia, del mercato che costituiscono l’humus del quale la corruzione si nutre.

La risposta è stata affidata, nella quasi totalità dei casi, al solo diritto penale, dimenticando (o fingendo di dimenticare) che la risposta repressiva non può che costituire l’extrema ratio, in ossequio ai principi di sussidiarietà e residualità del diritto penale, costituzionalmente riconosciuti.

Ed invero, il diritto penale del futuro per avere effettiva incidenza e chance di realizzazione dovrà, necessariamente essere razionale, minimo ed effettivo.

Di contro, la continua proliferazione di leggi penali, il loro accentuato simbolismo, la produzione di esiti normativi spesso “schizofrenici”, hanno prodotto in generale una situazione di grandissima confusione che, da un lato, rischia di risolversi in una situazione di delegittimazione del sistema penale in quanto tale e che, dall’altro non ha arrecato alcun beneficio nella lotta alla corruzione.  Della creazione di un sistema penale ipertrofico è  certamente responsabile il legislatore che ha talvolta utilizzato, quale scorciatoia del consenso, i valori simbolici e “promozionali” impropri del diritto penale.

È, altresì, innegabile che una parte minoritaria della giurisprudenza  ha fatto massiccio ricorso all’interpretazione eccessivamente estensiva delle norme penali, interpretazione impropria che – a parere di chi scrive – non dovrebbe essere utilizzata nell’ambito penale (a differenza del diritto civile, dove l’interpretazione estensiva è, al contrario, auspicabile). Il ricorso improprio all’interpretazione estensiva rappresenta una sorta di “cavallo di Troia” attraverso cui, sovente, si consente e si tollera la violazione del divieto di analogia in materia penale.

Sul punto, per quanto attiene più specificamente ai reati contro la P.A., è opportuno evidenziare, ad esempio, l’incondivisibile equiparazione tra il concetto di induzione con quello di persuasione, i cui valori semantici sono, invece, totalmenti contrastanti. Ed ancora, del pari in relazione alle forzature interpretative dei reati contro la P.A., si segnalano gli spostamenti progressivi in tema di individuazione del momento consumativo del reato di corruzione.

 In ordine a tale individuazione, secondo un orientamento giurisprudenziale, ormai risalente nel tempo, infatti, in caso di promessa la consumazione del reato si verificherebbe non già con l’accettazione della stessa, bensì con il successivo versamento del denaro (e, nel caso di versamento in più tranche, all’ultima delle stesse).

In altri termini, si è sostenuto che, in caso di promessa accettata dal pubblico ufficiale, la ricezione di quanto pattuito, successiva alla promessa, segnerebbe la consumazione del reato. Viceversa, qualora la promessa non sia adempiuta e manchi, quindi, la dazione, il momento consumativo resterebbe ancorato a quello dell’accettazione della promessa.

Alcune pronunce della S.C., tra l’altro (per fortuna) rarissime, si sono, poi, spinte oltre arrivando ad affermare che la promessa e la successiva dazione darebbero vita a condotte “reciprocamente autonome”, di tal che, in presenza di entrambe, si realizzerebbero due distinti reati uniti dal vincolo della continuazione ai sensi dell’art 81 c.p. (cfr. ex pluribus Cass. pen., sez. VI, 12.11.1996).

Entrambi gli orientamenti non possono essere in alcun modo condivisi.

Ed invero, è appena il caso di sottolineare come il disvalore della corruzione vada in ogni caso individuato nel pactum sceleris e, cioè, nello scambio dei consensi dei due protagonisti legato al compenso (o alla promessa di compenso ) indebito.

Si tratta, del resto, di una circostanza comprovata dal fatto che nella corruzione antecedente, qualunque sia la condotta, l’atto oggetto dell’accordo – restando fuori dagli elementi costitutivi del reato – non è necessario ai fini della consumazione del reato né, tantomeno, ai fini dell’individuazione del luogo di commissione del reato.

Ebbene, se non è necessario né rileva per la consumazione neppure il compimento dell’atto oggetto dell’accordo, non si comprende perché, a maggior ragione, una simile rilevanza dovrebbe essere attribuita al successivo mero adempimento della promessa e, cioè, alla materiale consegna di quanto pattuito. Mantenimento della promessa che, come innanzi evidenziato, non costituisce una condizione necessaria ai fini della configurabilità del reato di corruzione e che, pertanto, deve essere considerato alla stregua di un post factum non punibile, potendo tutt’al più produrre effetti ai fini della determinazione della pena.

Una simile interpretazione trova, del resto, conferma nel testo degli articoli di riferimento in cui le due condotte della dazione e della promessa, presentandosi assolutamente equivalenti e fungibili tra di loro, sono poste in evidente rapporto di alternatività, di tal che risulterebbe privo di senso attribuire alle medesime un ruolo così diverso ai fini della consumazione.

Per quanto attiene, poi, l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale dazione e promessa  darebbero vita a condotte “reciprocamente autonome” e, quindi, a distinti reati uniti dal vincolo della continuazione, è appena il caso di sottolineare come, incriminando separatamente e cumulativamente promessa e dazione, si corra il rischio di violare sia il principio di legalità sia il divieto di bis in idem, atteso che la dazione presuppone indefettibilmente un previo accordo, assorbendone il disvalore penale. Punendo  alternativamente l’una e l’altra condotta, pertanto, si incorrerebbe in una parziale duplicazione delle pene, non sufficientemente temperata dalla diminuente prevista per il reato continuato.

La realtà è che alcuni orientamenti  appaiono dominati dallo sforzo interpretativo estensivo finalizzato a postergare il momento consumativo, per differire l’estinzione del reato per prescrizione; scopo certamente comprensibile a fronte dell’insidiosità e della dannosità sociale dei fenomeni corruttivi, ma da perseguire con un’apposita previsione legislativa e non già con forzature interpretative  irrispettose dei principi generali dell’ordinamento (in primis il principio di legalità). 

Ritornando a quello che costituisce più propriamente il tema dell’odierno incontro va evidenziato che, a partire dalla fine degli anni ‘80 e soprattutto negli anni novanta, dietro l’impulso di organismi ed istituzioni internazionali e comunitarie (ONU, OCSE, Consiglio dell’Unione Europea) si è, però, cominciato a modificare l’approccio ai fenomeni lato sensu corruttivi, cercando di trovare (ed in molti casi trovando) strumenti idonei a fronteggiare un fenomeno in continua espansione – che, in non pochi casi, ha assunto un vero e proprio carattere “sistemico” – e sempre più insidioso.

Tre sono, in particolare, gli aspetti su cui i vari incontri e le varie convenzioni internazionali che si sono succedute (Parigi 1997, Londra 1999, Palermo 2000, Merida 2003) hanno posto maggiormente l’attenzione:

  1. la necessità di dar vita ad un’armonizzazione delle normative nazionali in tema di corruzione, in considerazione del carattere sempre più internazionale o transnazionale dei fenomeni corruttivi;
  2. l’introduzione della responsabilità per corruzione nel settore privato;
  3. la responsabilità anche delle persone giuridiche (in primis, le società commerciali), atteso che gli episodi di corruzione non sono più soltanto sintomo di devianze individuali, ma costituiscono, non di rado, vere e proprie “politiche d’impresa”.

In tale sede, considerata la vastità e la complessità dell’argomento, non è possibile dare vita ad un approccio sistematico al fenomeno corruttivo. Pertanto, tenendo ben presenti le linee guida emerse dalle convenzioni internazionali di cui sopra, si porrà l’accento su alcuni aspetti particolari che caratterizzano i reati di corruzione e sulle risposte apprestate dall’ordinamento.

Segnatamente ci si occuperà:

  1. dei limiti di una risposta esclusivamente penale al fenomeno della corruzione e della necessità di porre in essere anche strumenti di tipo preventivo, con un accenno all’istituzione dell’Alto Commissario per la corruzione ed ai protocolli di intesa da esso siglati;
  2. dell’introduzione (vera o presunta; condivisibile o non condivisibile) della responsabilità penale per corruzione nel settore privato;
  3. della responsabilità, ai sensi del decreto legislativo 231/2001, delle persone giuridiche per i reati commessi nel suo interesse.

 

 

2 – LIMITI DELL’INTERVENTO PENALE: ALTO COMMISSARIO E PROTOCOLLI D’INTESA

La corruzione costituisce, come è noto, un fenomeno criminale altamente complesso ed ambiguo.

Innumerevoli – oltre che eterogenee – sono, infatti, le sue cause; numerose sono, del pari, le sue conseguenze.

Negli ultimi anni (rectius negli ultimi decenni) la situazione si è notevolmente complicata, atteso che il fenomeno corruttivo, strutturalmente di natura occulta, ha in molti casi acquisito un carattere sistemico, venendo ad interagire “stabilmente con le regole di funzionamento di apparati burocratici e di strutture sociali, divenendone, per così dire, parte costitutiva ed integrante” (A. Spena, Il Turpe Mercato. Teoria e riforma dei delitti di corruzione pubblica, Milano, 2003).

Di fronte ad una realtà così complessa ed articolata, il diritto penale costituisce uno strumento di per sé insufficiente a fronteggiare il fenomeno.

Autorevoli commentatori hanno, al proposito, lucidamente affermato che, in materia di lotta alla corruzione, «il diritto penale ha già dato, forse (e senza forse), sin troppo; a questo punto bisogna bussare ad altre porte» (si veda, per tutti, Padovani).

Ed invero, perché la lotta alla corruzione sia efficace, arrivando ad ottenere risultati di lungo periodo e fuggendo da logiche “emergenziali”, è necessario agire, innanzitutto,  sulle cause più profonde e persistenti del fenomeno: dovrebbe quindi incentrarsi sui piani della trasparenza dell’azione amministrativa, della sua efficienza, della fiducia dei cittadini in essa.

Nell’ambito di una  strategia di prevenzione a trecentosessanta gradi è, pertanto, opportuno (necessario) predisporre strumenti in grado di consentire alla stessa P.A. di produrre i necessari anticorpi contro le minacce corruttive. Da un lato, incrementando la trasparenza dell’attività amministrativa; dall’altro, provvedendo a creare un sistema di strumenti e misure che consentano alla stessa P.A. di monitorare costantemente ed efficacemente il proprio “stato di salute”, così che si possa dall’interno, e con maggiore immediatezza ed incisività, intervenire su situazioni anomale, che lascino paventare eventuali sviluppi corruttivi.

Proprio per soddisfare tali esigenze è stato istituito, con il d.P.R. 6 ottobre 2004, n. 258,  l’«Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella pubblica amministrazione».

Scopo precipuo dell’Alto Commissario è quello di potenziare il sistema italiano di lotta alla corruzione tanto sul piano della prevenzione, quanto sul piano di un sollecito impulso alla repressione dei fatti di corruzione.

Segnatamente, l’Alto Commissario ha il potere di disporre indagini, anche di natura conoscitiva, di iniziativa propria o per fatti denunciati (con esclusione di quelli indicati in denuncie anonime), o su richiesta delle amministrazioni, allo scopo, tra l’altro, di accertare l’esistenza di fenomeni di corruzione e di illecito all’interno della pubblica amministrazione.

L’Alto Commissario ha, altresì, l’obbligo di denunciare, all’autorità giudiziaria i fatti di reato ed alla Corte dei conti, nei casi previsti dalla legge, i fatti nei quali sia ravvisabile danno erariale, dei  quali sia venuto a conoscenza nell’esercizio delle funzioni; nonché, alle rispettive amministrazioni eventuali fatti, emersi dagli accertamenti compiuti, da cui possa evincersi la responsabilità amministrativa e disciplinare di un qualche pubblico dipendente. La forte aspirazione verso un potenziamento della prevenzione dei fenomeni lato sensu corruttivi,  si coglie, poi, con manifesta evidenza dal complesso degli altri poteri attribuiti all’A.C. Essa dovrebbe avere secondo la disposizione istitutiva, in particolare, il potere di disporre indagini, anche di natura conoscitiva, di iniziativa propria o per fatti denunciati (con esclusione di quelli indicati in denuncie anonime), o su richiesta delle amministrazioni, allo scopo, questa volta, di accertare le cause e le concause di fenomeni di corruzione o di illecito o di pericoli di condizionamento da parte di organizzazioni criminali all’interno della pubblica amministrazione;  il potere di disporre la elaborazione di analisi e studi sull’adeguatezza e congruità del quadro normativo, nonché delle eventuali misure poste in essere dalle amministrazioni per prevenire e per fronteggiare l’evolversi del fenomeno corruttivo; il potere, infine, di disporre attività di monitoraggio su procedure contrattuali e di spesa e su comportamenti, e conseguenti atti, da cui possa derivare danno erariale.

Ebbene, pur non essendovi dubbi sui notevoli benefici prodotti dall’istituzione di detto organismo, non è possibile, in tale sede, non evidenziarne i limiti e le contraddizioni che, purtroppo, lo caratterizzano.

Ed invero,  va  certamente accolta con favore l’istituzione di un organismo che ha per scopo, tra l’altro, quello di costituire un punto di raccolta – interno alla Pubblica amministrazione – di informazioni e cognizioni relative alle condizioni di salute della stessa pubblica amministrazione e, per così dire, al suo grado di propensione alla corruzione. Un organismo, in altri termini, deputato a costituire una sorta di banca dati permanente in cui convogliare un insieme quanto più corposo ed approfondito possibile di cognizioni su profili (cause e concause di fenomeni corruttivi, adeguatezza del quadro normativo, efficienza e correttezza delle procedure contrattuali e di spesa) che è fondamentale tenere sotto controllo, ove si voglia veramente pensare di poter porre rimedio alle più gravi forme di gestione illecita della cosa pubblica. La conoscenza e la “sistemazione” delle conoscenze costituisce, infatti, il primo fondamentale passo di ogni strategia di lotta alla corruzione: se è vero che questa costituisce un fenomeno che vive nell’opacità, e dell’opacità e della scarsa trasparenza nel funzionamento dell’amministrazione pubblica, della segretezza o della scarsa visibilità di certi tipi di interrelazioni pubblico/privato.

Sin qui gli innegabili benefici prodotti dall’istituzione dell’organismo suddetto.

Va, tuttavia, evidenziato come le prospettive aperte dall’emanazione del decreto in oggetto si prestino anche ad alcune considerazioni meno entusiastiche. Appare, soprattutto, non condivisibile la scelta di attribuire all’Alto Commissario, tra gli altri, anche il compito di svolgere indagini tese ad accertare l’esistenza di fenomeni di corruzione e di illecito all’interno della Pubblica amministrazione. Ciò, da un lato, non fa altro che sovrapporre un’ulteriore competenza (senza adeguate garanzie per il sospettato) a competenze già radicate ed esistenti (quali, in primo luogo, quelle delle diverse procure della Repubblica), con conseguenti  gravissimi pericoli di arbitrii, confusioni e conflitti; e, dall’altro, rischia di paralizzare l’attività dello stesso Alto Commissario, il quale potenzialmente potrebbe divenire il destinatario di una mole insostenibile di denunce e richieste d’indagine, virtualmente pari alla somma delle segnalazioni che, per fatti lato sensu corruttivi, arrivano alle diverse procure d’Italia.

Va, altresì, evidenziato come non del tutto peregrino sia il pericolo paventato da alcuni commentatori (tra gli altri, Oberdan Forlenza), secondo i quali aver affiancato all’Alto Commissario ben due vice – commissari e cinque esperti, senza che a tale aumento di personale corrisponda un aumento ed una migliore redistribuzione dei compiti, rischia di “appesantire” ed in parte deresponsabilizzare tale organismo.

Particolare rilievo assumono, in ogni caso, i protocolli d’intesa e le convenzioni intercorse tra l’Alto Commissario ed alcuni organi istituzionali.

Tali protocolli prendono le mossa da un dato innegabile e di fondamentale importanza: la corruzione non è soltanto un fenomeno criminale (con i conseguenti risvolti penalistici che ne derivano) ma costituisce anche – e forse soprattutto – un freno alle attività economiche, alla correttezza ed alla libertà del mercato, in altre parole allo sviluppo.

Tali protocolli d’intesa hanno, pertanto, lo scopo di creare una sinergia, una collaborazione, tesa ad individuare e conseguentemente reprimere i fenomeni corruttivi, tra l’Alto Commissario ed alcuni organi istituzionali, all’interno dei quali possono annidarsi episodi di corruzione o che per l’attività svolta possono venire a conoscenza di situazioni “sospette” e potenzialmente riferibili a fenomeni corruttivi.

Tra i protocolli d’intesa siglati dall’Alto Commissario si ricordano:

  • Protocollo d’intesa con il Comune di Napoli (22.02.2008);
  • Protocollo d’intesa con l’Agenzia delle Entrate (21.12.2007)
  • Protocollo d’intesa con la Corte dei Conti (23.10.2007)
  • Protocollo d’intesa con il Ministero delle Infrastrutture (19.10.2007)
  • Protocollo d’intesa con il Ministero per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione (10.10.2007)
  • Protocollo d’intesa con la commissione parlamentare antimafia (27.06.2007)
  • Protocollo d’intesa con la Guardia di Finanza (14.10.2005)

3- VERSO LA PUNIBILITA’ DELLA CORRUZIONE NEL SETTORE PRIVATO?

 

Negli ultimi anni, anche per l’impulso di organismi internazionali (ONU ed OCSE) e comunitari, si è aperto nel nostro paese un acceso dibattito circa l’opportunità di istituire una nuova ipotesi, penalmente sanzionata, di corruzione nel settore privato.

Proprio al fine di recepire l’art. K.3 del Trattato sull’Unione Europea, sulla corruzione nel settore privato, è stata avanzata nel 2002, per iniziativa del deputato Kessler, una proposta di legge (n. 3215/2002) tesa ad introdurre nel codice penale un nuovo articolo – l’art. 513-ter – del seguente tenore: “Corruzione nel settore privato. Chiunque, dirigendo un ente di diritto privato, lavorando alle dipendenze dello stesso o comunque prestando la sua opera a favore dello stesso, riceve per sé o per un terzo denaro od altra utilità o ne accetta la promessa, allo scopo di compiere od omettere un atto in violazione di un dovere nell’ambito di un’attività d’affari è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

 Per violazione di un dovere ai sensi del primo comma deve intendersi qualsiasi comportamento sleale che costituisca una violazione di un obbligo legale, di normative professionali o di istruzioni professionali ricevute o applicabili nell’ambito dell’attività dell’ente.

 Alla stessa pena soggiace chi dà o promette danaro od altra utilità nei casi indicati dal primo comma.

 Nei casi di speciale tenuità si applica la pena della multa da duemila a cinquemila euro.

 Il fatto è punibile ove la condotta produca o possa produrre una distorsione della concorrenza nell’ambito del mercato ovvero danni economici all’ente o a terzi anche attraverso una non corretta aggiudicazione o una non corretta esecuzione di un contratto.

Dal tenore della condizione di punibilità, oltre che dall’inserimento nel capo dei delitti contro l’industria e il commercio e dalla collocazione sistematica dopo l’art. 513-bis del codice penale, risulta evidente il rapportarsi del nuovo reato proposto anche, rectius soprattutto, al modello di tutela della concorrenza.

Ed infatti il vigente art. 513-bis del codice penale limita la tutela della concorrenza, sanzionando soltanto le intimidazioni tipicamente mafiose atte ad incidere su quella fondamentale legge di mercato che vuole la concorrenza non solo libera, ma anche lecitamente attuata (Cassazione, Sez. III, sent. n. 46756/2005).

Tale proposta, tuttavia, non è mai divenuta legge.

Successivamente, con la Decisione quadro 22 luglio 2003, n. 2003/568/GAI si è convenuto che gli Stati membri della UE “devono trovare il modo di ratificare al più presto” la Criminal law convention on corruption del Consiglio d’Europa, adottata il 3-4 novembre 1998 ed aperta alla firma il 27 gennaio 1999 (firmata, tra l’altro dall’Italia) in quanto la corruzione nel settore privato “costituisce una minaccia allo Stato di diritto e inoltre genera distorsioni di concorrenza riguardo all’acquisizione di beni o servizi commerciali e ostacola un corretto sviluppo economico …”.

Il vero obiettivo della Decisione quadro è, tuttavia, quello di garantire che sia la corruzione attiva sia quella passiva nel settore privato siano considerate illeciti penali in tutti gli Stati membri, che anche le persone giuridiche possano essere considerate colpevoli di tali reati e che le sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive.

Anche tale Decisione non ha, però, trovato concreta applicazione nel nostro ordinamento, ritenendosi sufficiente, ai fini del rispetto delle indicazioni della Comunità Europea, il vigente regime di responsabilità parapenale delle società e di punizione dell’infedeltà patrimoniale in ambito societario.

Alla stregua di quanto sin qui affermato, la domanda iniziale con cui si è aperto tale intervento, dovrebbe ricevere risposta negativa.

Occorre, tuttavia, evidenziare come in almeno in un caso – sebbene, a parere di chi scrive, assolutamente sui generis – si sia prevista un’ipotesi di responsabilità penale per fenomeni corruttivi commessi nel settore privato.

Ed invero, con l’art. 35 della L. 28 dicembre 2005, n. 262 sulla tutela del risparmio e del mercato finanziario (cd. “legge sul risparmio”), sono state introdotte nel D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 diverse ipotesi delittuose di corruzione dei responsabili della revisione su società quotate o da queste controllate o che emettono strumenti finanziari di rilevante diffusione (artt. 174-bis e 174-ter) che possono essere lette in chiave sia di rafforzamento dello stampo pubblicistico delle società di revisione, sia di sanzione della corruzione nel settore privato.

Incriminazione, quest’ultima, da tenere assolutamente distinta, da quella prevista dall’art. 2635 del codice civile (“Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità”) .

Ed invero, mentre il reato ex art. 2635 del codice civile, pure esso commettibile dai responsabili della revisione, è un reato di evento in quanto si perfeziona con il prodursi di un nocumento per la società, il reato di cui all’art. 174-ter, commettibile esclusivamente dai responsabili della revisione, ha natura di reato di pericolo e presenta, pertanto, profili analoghi alle ipotesi di corruzione previste dal codice penale. Diversi sono, in altri termini, i beni giuridici tutelati: la previsione incriminatrice di cui all’art. 2635 c.c. tutela, infatti, il patrimonio sociale; l’oggetto giuridico della previsione di cui agli artt. 174-bis e 174-ter è, invece, costituito dalla tutela del mercato finanziario e, conseguentemente, delle regole di concorrenza leale che lo sorreggono.

Va, altresì, evidenziato che mentre il reato di cui all’art. 2635 c.c. è perseguibile a querela di parte (essendo posto a tutela di interessi interni alla società, della cui lesione essa può o meno dolersene), il regime sanzionatorio della corruzione dei revisori introdotto dalla legge n. 262/2005, sganciato definitivamente dall’esistenza o dal pericolo di un danno patrimoniale interno alla società, prevede la procedibilità di ufficio.

Ne consegue che detta corruzione, punita con la reclusione da uno a cinque anni, aumentabile fino alla metà in caso di concorso dei revisori con gli apici della società revisionata, partecipa a livello comparatistico della struttura propria del cosiddetto modello pubblicistico, che raccorda la corruzione privata alla corruzione amministrativa recependone lo schema, e del cosiddetto modello di tutela della concorrenza, dal momento che la corruzione del revisore è punita perché lesiva della regolarità del mercato finanziario e quindi anche delle regole di concorrenza leale che lo sorreggono.

A questo punto, evidenziato come l’unica ipotesi di incriminazione per fenomeni di corruzione nel settore privato, allo stato esistente, sia rappresentata dalla responsabilità dei revisori (i quali, come anticipato, pur essendo soggetti di diritto privato svolgono una funzione pubblicistica o para-pubblicistica), occorre tornare al quesito iniziale e chiedersi se sia opportuno introdurre ulteriori ipotesi di responsabilità per corruzione nel settore privato.

La risposta  deve essere, almeno in parte, negativa, qualora  si voglia introdurre un’ipotesi generalizzata di corruzione privata, modellata ed ancorata alla normativa prevista in tema di corruzione nel settore pubblico. Viceversa, andrebbe introdotta una normativa volta a tutelare in modo più incisivo il mercato e la libera concorrenza, anche (ma non solo) attraverso l’incriminazione di specifiche ipotesi di corruzione nel settore privato.

Segnatamente,  si auspica l’introduzione di una normativa complessa dove, accanto alla previsione di fattispecie incriminatrici volte a tutelare la collettività dai fenomeni di corruzione nel settore privato dotati di reale carica lesiva (rectius, offensività), si prevedano ulteriori tipologie di sanzioni (quali, ad esempio sanzioni pecuniarie) per punire (o scoraggiare) ipotesi minimali di mercimonio nel settore privato.

La Decisione quadro 22 luglio 2003 della UE ed il dibattito interno che ne è seguito sembrano, invece, orientate ad “una ricostruzione eticizzante del mercato”, che si muove sul terreno scivoloso “della moralizzazione dell’attività imprenditoriale privata”, laddove invece, paradossalmente,  le “tangenti private non possono assumere altro rilievo che quello di un costo” per le società e le imprese che operano nel diritto privato.

Simili affermazioni – mutuate dalla teoria funzionalistica dei fenomeni corruttivi, di matrice anglosassone (per una critica all’approccio funzionalista si veda Becquart-Leclercq, Paradoxes of Political Corruption: A French View) –  senz’altro “forti” , vanno, tuttavia, sebbene temperate, tenute ben in considerazione allorchè si intenda dar vita ad una fattispecie generale di incriminazione della corruzione privata che sia effettivamente rispettosa dei principi di tassatività e determinatezza e che, nel contempo, tuteli adeguatamente la concorrenza di mercato.

Occorre, a tal fine, chiedersi innanzitutto quale sia il significato di “violazione di un dovere”, perifrasi che riecheggia in quasi tutte le proposte di legge avanzate al fine di introdurre l’incriminazione per corruzione privata nel nostro ordinamento.

 Ebbene per violazione di un dovere non può che intendersi l’inadempimento di una regola di correttezza commerciale. Se così è, occorre ulteriormente chiedersi quale sia il ramo dell’ordinamento giuridico più idoneo a garantirne l’integrità. Difficile (se non impossibile) negare, allora, che il livello di lesività sia, nella gran parte dei casi, talmente basso da far apparire la reazione penale assolutamente sproporzionata e, quindi, ingiustificata.

Per fronteggiare un siffatto inadempimento potrebbero essere addirittura sufficienti i codici di comportamento, opportunamente rivalutati nell’attuale momento storico o, al più, gli ordinari strumenti della tutela civil – lavoristica, rispettando in tal modo il principio di sussidiarietà e residualità del diritto penale.

Per concludere, ai fini di apprestare una più incisiva tutela al mercato ed alla concorrenza (questo dovrebbe essere, infatti, il fine ultimo di un’eventuale incriminazione per corruzione nel settore privato), pare preferibile, piuttosto che introdurre una fattispecie generale di incriminazione della corruzione privata, troppo legata ad aspetti e schemi pubblicistici, prevedere strumenti ad hoc (anche, ma non solo, di tipo penalistico) in grado di assicurare, nel rispetto delle garanzie dell’individuo, l’osservanza delle regole della concorrenza e la tutela della libertà  e della correttezza del mercato.

Occorre, in altri termini, partire da un dato semplice ma di fondamentale importanza: la fattispecie delittuosa della corruzione nel settore pubblico è posta a tutela della trasparenza e dell’imparzialità (il cd. “buon andamento”) della Pubblica Amministrazione; l’eventuale ipotesi di corruzione nel settore privato mira, invece, a tutelare e proteggere il libero giuoco della concorrenza. Se diversi sono i beni giuridici meritevoli di tutela, diversa dovrà essere, necessariamente, la risposta dell’ordinamento.

In particolare, per quanto attiene la corruzione nel settore privato, la risposta repressiva del diritto penale dovrà intervenire non già in presenza di qualsiasi episodio astrattamente riconducibile allo schema della corruzione (cosa che avviene, invece, nel settore pubblico, dove ai fenomeni corruttivi non può che attribuirsi anche un disvalore, per così dire, etico), ma soltanto in presenza di fenomeni effettivamente idonei a restringere o inquinare in modo sensibile la libera concorrenza.

 

 

 

4- CORRUZIONE: RESPONSABILITA’ DEGLI ENTI AI SENSI DEL DECRETO LEGISLATIVO 231/2001

Se si sofferma l’attenzione sui principi che informano il diritto penale, si deve constatare che l’impresa non è, in quanto tale, destinataria di specifica sanzione. Destinataria delle sanzioni penali è, infatti, soltanto la persona fisica che pone materialmente in essere l’attività.

Nel caso in cui l’impresa sia individuale, tuttavia, la normale identificazione tra essa ed il suo titolare fa sì che la sanzione a carico di quest’ultimo finisca per colpire anche l’impresa.

La questione si pone in termini del tutto differenti quando l’impresa fa capo ad enti collettivi (ad es. società), tanto più se muniti di personalità giuridica.

In questo caso, infatti, va sottolineato che un sistema penale incentrato sulla punizione di figure illimitatamente sostituibili (fungibili), quali amministratori, sindaci etc…, ha il difetto di non incidere sull’effettiva capacità dell’impresa di perpetrare modelli illeciti. L’importanza della questione è evidente dato che l’impresa, specie se non di piccole dimensioni, si presenta prevalentemente nelle forme delle società (soprattutto s.p.a.).

Di qui la particolare rilevanza che ha, nell’ambito del diritto penale societario, il problema se la persona giuridica possa essere o meno soggetto attivo di reato.

È controverso se alla stregua dell’art. 27 Cost. debbano o meno ravvisarsi preclusioni all’affermazione della responsabilità penale delle persone giuridiche. Non vi sono, in ogni caso, dubbi che il diritto positivo italiano non preveda la responsabilità penale delle persone giuridiche, potendo essere soggetto attivo del reato soltanto la persona fisica, secondo l’antico brocardo “societas delinquere non potest”.

L’inadeguatezza del principio di irresponsabilità delle persone giuridiche si è manifestata con sempre maggiore intensità man mano che è progredita l’internazionalizzazione dei mercati. La materia ha assunto risalto soprattutto con riguardo al tema della corruzione, utilizzato come strumento di conquista di nuovi mercati.

Di qui una forte tensione internazionale che ha portato all’adozione di alcune convenzioni (Convenzione OCSE di Parigi del 17 novembre 1997; Convenzione Europea del 1997, Carta di Merida del 2003).

L’esecuzione delle convenzioni citate è avvenuta in Italia in una duplice direzione.

In primo luogo, la legge 300/2000 ha introdotto nel codice penale l’art. 322 bis, concernente l’estensione dei delitti di peculato, concussione e corruzione degli esponenti della Comunità Europea e degli stati esteri.

In secondo luogo, con la medesima legge 300/2000 è stata data delega al governo per l’introduzione della responsabilità degli enti. In esecuzione di tale delega, è stato emanato il d.lgs. 231/2001.

A fronte del tenore dell’art. 27 Cost., il legislatore ha ritenuto di non poter introdurre una responsabilità penale delle persone giuridiche ed ha, perciò, ripiegato su di una responsabilità amministrativa, ma in realtà modellata sui principi che caratterizzano la responsabilità penale.

Ecco, quindi, che a prescindere dalla terminologia utilizzata, è stata introdotta nell’ordinamento italiano una diretta responsabilità da reato degli enti. Tale responsabilità, proprio per le peculiarità che la caratterizzano, è stata qualificata come tertium genus e da alcuni, addirittura, come un’ipotesi di responsabilità “parapenale”.

Il Decreto Legislativo 231/2001, e le successive modifiche ed integrazioni, hanno introdotto  un principio fino a quel momento totalmente estraneo alla cultura giuridica italiana, quello della responsabilità amministrativa (rectius, “quasi – penale”) degli enti collettivi (comprese quindi le imprese), derivante da reati commessi a vantaggio o nell’interesse dell’ente stesso da parte di persone che:

  1. a) rivestano funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione degli enti medesimi;
  2. b) esercitino, anche di fatto, la gestione o il controllo dell’ente;
  3. c) siano sottoposte alla direzione dei precedenti.

I principali reati indicati dalla normativa di riferimento, che determinano la responsabilità amministrativa/penale di cui sopra, sono quelli relativi ai rapporti con la Pubblica Amministrazione ed i c.d. reati societari.

Per ciò che attiene più propriamente alla corruzione, l’articolo 25 dispone che:

“Concussione e corruzione

  1. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 318, 321 e 322, commi 1 e 3, del codice penale, si applica la sanzione pecuniaria fino a duecento quote.
  2. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 319, 319-ter, comma 1, 321, 322, commi 2 e 4, del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da duecento a seicento quote.
  3. In relazione alla commissione dei delitti di cui agli articoli 317, 319, aggravato ai sensi dell’articolo 319-bis quando dal fatto l’ente

ha conseguito un profitto di rilevante entita’, 319-ter, comma 2, e 321 del codice penale, si applica all’ente la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote.

  1. Le sanzioni pecuniarie previste per i delitti di cui ai commi da 1 a 3, si applicano all’ente anche quando tali delitti sono stati commessi dalle persone indicate negli articoli 320 e 322-bis.
  2. Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 2 e 3, si applicano le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno.”

Tra le sanzioni previste, oltre a quelle pecuniarie (comprese tra i 50 milioni e i 3 miliardi di vecchie lire) la normativa contempla sanzioni di natura interdittiva ( interdizione all’attività; sospensione o revoca di autorizzazioni, licenze e concessioni; esclusione da agevolazioni, contributi o sussidi e revoca di quelli già concessi, ecc.) che possono compromettere gravemente la normale prosecuzione dell’attività aziendale. Ma il rischio più concreto, anche in considerazione della vasta e “severa” giurisprudenza in materia, è dato dall’adozione, su richiesta del PM, dei provvedimenti interdittivi di natura cautelare.

 Va, altresì, segnalato che le sanzioni interdittive possono essere applicate anche in via definitiva, qualora ne ricorrano i presupposti.

La confisca è sempre disposta, ha ad oggetto il profitto del reato e può essere eseguita per equivalente. La confisca del beneficio che l’ente ha tratto dal reato deve intervenire anche se l’ente non sia stato reputato responsabile dell’illecito.

Va evidenziato, sul punto, che la responsabilità dell’ente è, in ogni caso, autonoma. Ciò significa che essa sussiste anche quando l’autore del reato non sia stato individuato o non sia imputabile e quando il reato si sia estinto per causa diversa dall’amnistia.

I criteri di imputazione variano a seconda della posizione dell’autore del reato.

Quando questi  si trova in una posizione apicale vale il principio di identificazione: la fattispecie è, cioè, trattata come se il reato fosse stato posto in essere direttamente dall’ente.

Quando, viceversa, il reato è stato commesso da un soggetto in posizione subordinata, è necessario, ai fini della sussistenza della responsabilità in capo all’ente, che la commissione del reato sia stata resa possibile dall’inosservanza, da parte di chi è in posizione apicale, degli obblighi di vigilanza e direzione.

A ben vedere, nonostante le differenze evidenziate, il fondamento della responsabilità dell’ente è il medesimo in entrambi i casi. Esso va ravvisato nella mancanza di una organizzazione dell’impresa idonea a prevenire la commissione di reati. L’ente, in altri termini, è responsabile per i reati commessi, in quanto non ha avuto l’accortezza di creare una struttura organizzativa idonea ad evitare che, nel suo ambito, siano commessi determinati reati (cd. “colpa in organizzazione”).

La possibilità di evitare o ridurre l’applicazione delle sanzioni è subordinata all’adozione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire il compimento dei reati ex D.Lgs. 231/2001.

Statuisce , infatti, l’articolo 6:

“Se il reato e’ stato commesso dalle persone indicate nell’articolo 5, comma 1, lettera a), l’ente non risponde se prova che:

  1. a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
  2. b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e’ stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
  3. c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
  4. d) non vi e’ stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo preposto.

In relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di organizzazione devono rispondere alle seguenti esigenze:

  1. a) individuare le attivita’ nel cui ambito possono essere commessi reati;
  2. b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
  3. c) individuare modalita’ di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
  4. d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
  5. e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

 I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati.

 Negli enti di piccole dimensioni i compiti di vigilanza e controllo possono essere svolti direttamente dall’organo dirigente.

I modelli di cui alla legge 231/2001 devono, quindi, essere basati su un’effettiva ripartizione delle funzioni dell’ente e devono prevedere l’adozione di un codice etico, di specifiche procedure per le fasi decisionali e del controllo conseguente, e soprattutto un incisivo sistema disciplinare atto a scoraggiare il compimento dei reati. Devono essere, altresì, modelli non standardizzati, ma basati sulla realtà di ogni singola azienda. E’, inoltre, prevista la nomina di un Organismo di Vigilanza, dotato di imparzialità e competenze idonee, con il compito di verificare l’effettività del modello, il suo funzionamento e le necessità di aggiornarlo.

Dopo essere stato accompagnato per lungo tempo da una sorta di “non applicazione”, in attesa della stesura da parte delle associazioni di categoria delle linee guida previste dal Decreto, di recente i Giudici per le indagini preliminari hanno cominciato ad applicare sempre più frequentemente le sanzioni ex D. Lgs. 231/2001. I rischi connessi a tale normativa risultano quindi sufficienti a far comprendere l’importanza per ogni impresa di dotarsi dei modelli organizzativi previsti.

L’Avv. Domenico Ciruzzi, dopo la laurea in Giurisprudenza conseguita con il punteggio di 110/110 e lode, inizia la sua attività forense sul finire degli anni ’70 nello studio dell’Avv. Vincenzo Maria Siniscalchi, tra i più noti ed apprezzati penalisti napoletani, già Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, già deputato dei Democratici di Sinistra e già Consigliere presso il C.S.M..
Nel corso della collaborazione prestata accanto all’Avv. Siniscalchi, l’Avv. Ciruzzi è stato coinvolto nelle difese relative a casi giudiziari di risonanza nazionale dei processi contro Pubblici Amministratori, presunti esponenti della criminalità organizzata, giornalisti, per reati di diffamazione a mezzo stampa.
Intorno alla metà degli anni ’80, intraprendeva un autonomo percorso professionale, affrontando processi penali di notevole clamore, tra i quali la vicenda relativa alla presunta organizzazione camorristica denominata “Nuova Camorra Organizzata”, che vedeva imputato, tra gli altri, il noto presentatore televisivo Enzo Tortora.

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Una pericolosa carenza

Un vuoto legislativo in caso di sentenza di annullamento con rinvio della Corte di Cassazione in presenza di errori materiali o di fatto.

 

La sentenza della S.C. (la nr. 53415 della VI sezione penale in data 22 ottobre – 22 dicembre 2014, Pres. Ippolito, Rel. Bassi) permette una riflessione che evidenzia la necessità di studiare un rimedio legislativo finalizzato ad ovviare una pericoloso “vuoto” che appare esistere nel nostro codice di rito in tema di rimedi esperibili avverso decisioni (non ultimative, ma di annullamento con rinvio) della Corte di Cassazione frutto di vizi in procedendo.

Giova anzitutto ricordare brevemente la fattispecie concreta giudicata dalla S.C.: il P.M. proponeva ricorso diretto per cassazione avverso una sentenza assolutoria che fondava il suo giudizio sull’inutilizzabilità di dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p. di un teste-persona offesa che, a dire del giudice di primo grado, avrebbe dovuto essere sentito ab initio con l’assistenza del difensore ed avvertito della facoltà di non rispondere ai sensi dell’art. 63 c.p.p. in quanto indiziato di reato probatoriamente collegato, mentre, a dire del P.M. ricorrente, giacché il soggetto rivestiva la qualità di p.o., le di lui dichiarazioni erga alios erano comunque utilizzabili.

La II sezione penale della S.C., con sentenza del 22.05.2009, accoglieva il ricorso e annullava la sentenza assolutoria con rinvio stabilendo il principio di diritto secondo il quale erano utilizzabili le dichiarazioni del teste-p.o. come invocato dal P.M.: la S.C., però, procedeva senza avvisare il difensore di fiducia, che dunque rimaneva estraneo al giudizio (l’avviso dell’udienza era inviato a un iniziale difensore da tempo revocato).

Davanti alla Corte di Appello, giudice del rinvio, il difensore di fiducia, stavolta avvisato dell’udienza, preliminarmente eccepiva quanto sopra, chiedendo, in osservanza degli artt. 178 lettera c), 180, 185 c.p.p., l’annullamento della sentenza della Corte di Cassazione per violazione del diritto di difesa.

La Corte di Appello disattendeva l’eccezione del difensore e, in applicazione del principio di diritto statuito dalla S.C., giudicava utilizzabili le dichiarazioni erga alios della p.o., dichiarando gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti.

La Corte di Appello sulla questione processuale per cui si discute osservava che a norma del quarto comma dell’art. 627 c.p.p. (“giudizio di rinvio dopo annullamento”) le eventuali nullità, anche assolute, verificatesi nel corso delle precedenti fasi del procedimento non possono essere rilevate nel corso del giudizio di rinvio, trovando applicazione in via analogica il divieto previsto dall’art. 627, comma quarto, c.p.p., essendo la sentenza resa dalla Corte di Cassazione impugnabile solo con il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto di cui all’art. 625 bis c.p.p.. Pertanto, pur rilevando che effettivamente risultava avvisato per il giudizio di Cassazione solo l’avvocato revocato e non il difensore di fiducia, concludeva affermando che la suddetta nullità non può essere rilevata in sede di giudizio di rinvio.

Gli imputati ricorrevano per cassazione proponendo quale principale motivo procedurale la questione sopra esposta: in particolare sul punto deducevano la nullità della sentenza emessa dalla Corte di Appello ex artt.178 segg.-185 e 606 lett. b), c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità concernenti: la citazione degli imputati davanti al giudizio della Cassazione, laddove venne dato avviso al difensore revocato e non già al difensore di fiducia, patologia da cui, ad avviso dei ricorrenti, conseguiva la nullità del giudizio e della sentenza della S.C. del 22.5.09, nullità specificamente e preliminarmente dedotta all’udienza davanti alla Corte di Appello, e la nullità di tutti gli atti consecutivi e dunque del giudizio di rinvio e della gravata sentenza.

La difesa, in sintesi, sosteneva che una lettura costituzionalmente orientata della norma permettesse di affermare che la preclusione di cui all’art. 627 comma 4 si pone per sua natura come eccezione alla regola generale in tema di rilevabilità della cause di invalidità processuali e, quindi, come tale, insuscettibile di applicazione analogica, peraltro in malam partem, quale risulta l’esito interpretativo adottato dalla Corte territoriale.

D’altra parte, la difesa adduceva di non avere altri rimedi per far valere l’omesso avviso al difensore di fiducia del giudizio davanti alla S.C., per far cioè rilevare la grave e sostanziale lesione del diritto di difesa in quanto, per espresso dettato normativo e per costante giurisprudenza, il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto ex art. 625 bis c.p.p. è ammissibile soltanto a favore del condannato e dunque non afferisce alla fattispecie concreta in cui il provvedimento inaudita altera parte della Corte di Cassazione non è stato un verdetto ultimativo bensì una sentenza di annullamento con rinvio (di un precedente verdetto assolutorio).

In via gradata, la difesa sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p. – per contrasto quantomeno con gli artt. 3 (tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e dunque a situazioni processuali uguali il sistema deve assicurare uguale rimedio), 24 (la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dunque anche davanti al giudice della legittimità) e 111 (in tema di giusto processo) della nostra Costituzione – nella parte in cui sarebbe impossibile al giudice del rinvio rilevare una nullità di ordine generale posta in essere dalla Corte di Cassazione.

***

Con la sentenza citata in apertura del presente lavoro la VI sezione della S.C. (che, va detto, ha comunque annullato la sentenza, accogliendo altro motivo di ricorso della difesa su un diverso profilo di inutilizzabilità delle dichiarazioni de quibus ex art. 512 c.p.p. ovvero la non imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione) ha disatteso le doglianze della difesa affermando che la regula iuris di cui al chiaro disposto di cui all’art. 627 comma 4 del codice di rito “…fa sì che non siano deducibili vizi che siano in corso nei precedenti giudizi neanche allorché essi riguardino il giudizio celebrato innanzi alla Suprema Corte, come appunto nel caso in oggetto”.

La Corte di Cassazione ha altresì stabilito che non è possibile una lettura della norma nel senso di ritenere ammissibile la deduzione nel giudizio di rinvio dei vizi occorsi nella fase celebrata innanzi alla Corte di Cassazione affermando che “il dettato normativo – avuto riguardo al senso fatto palese dal significato proprio delle parole usate secondo la connessione di esse (in ossequio al disposto di cui all’art. 12 delle Preleggi) -, è netto nel precludere la deduzione di qualunque nullità o inammissibilità verificatasi nei precedenti giudizi, con ciò segnando un limite invalicabile fra il giudizio di rinvio e tutte le fasi processuali ad esso precedenti. D’altra parte, la preclusione scolpita nell’art. 627, comma 4, costituisce naturale corollario della inoppugnabilità delle sentenze della Corte di Cassazione che – salvo non contengano errori materiali o di fatto emendabili con il mezzo straordinario di cui all’art. 625 bis c.p.p. – coprono il dedotto ed il deducibile e, quindi, anche l’implicita decisione negativa in ordine all’esistenza di eventuali cause di nullità, di inutilizzabilità o di inammissibilità”.

La S.C. ha articolato, poi, la sua motivazione richiamando la decisione della Corte Costituzionale (la nr. 501 del 17.11.2000) che aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 627 comma 4 c.p.p. osservando che “la norma denunciata risulta pienamente rispondente all’obiettivo di evitare la perpetuazione dei giudizi che costituisce un interesse fondamentale dell’ordinamento e che risponde alla logica che ispira il sistema delle impugnazioni ordinarie rispetto alla quale è incompatibile un controllo del giudice del rinvio circa la sussistenza o meno di vizi in procedendo nella fase del giudizio svoltasi dinanzi alla Corte di Cassazione”. Ed invero, per la Corte delle Leggi “è connaturale al sistema delle impugnazioni ordinarie che vi sia una pronuncia terminale – identificabile positivamente in quella della Cassazione per il ruolo di supremo giudice di legittimità ad esso affidato dalla stessa Costituzione (art. 3, settimo comma) – la quale definisca, nei limiti del giudicato, ogni questione dedotta o deducibile al fine di dare certezza alle situazioni giuridiche controverse e che, quindi, non sia suscettibile di ulteriore sindacato ad opera di un giudice diverso”.

La S.C. ha inoltre richiamato una precedente decisione della Corte Costituzionale (la nr. 224 del 26 giugno 1996) che aveva giudicato infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 c.p.c., in quanto i vizi in procedendo (non emendabili attraverso lo strumento della revocazione ex art. 391 bis c.p.c.) posti in essere nel procedimento davanti al giudice di legittimità non possono essere rilevati e rimossi dal giudice del rinvio in assenza della previsione “di idoneo mezzo straordinario di impugnazione che rientra nelle attribuzioni discrezionali del legislatore”.

La S..C., infine, riteneva non vi fosse spazio per sollevare la questione, pure invocata, in via subordinata, dalla difesa dei ricorrenti, di legittimità costituzionale dell’art. 624 comma 4 giacché in ogni caso “la Corte di Appello, ammessa l’eccezione e rilevatane la fondatezza, non potrebbe mai addivenire ad una pronuncia di annullamento della sentenza della Corte di Cassazione con rinvio avanti alla stessa, non essendo tale iter processuale percorribile nell’ambito del nostro ordinamento, giusta il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e l’impossibilità di inquadrare un giudizio di gravame siffatto negli schemi processuali tipici”.

***

La sentenza della S.C., dunque, permette di evidenziare la sussistenza di un vulnus, di una carenza codicistica che va emendata attraverso una riforma legislativa che a questo punto urge proprio a seguito della interpretazione fatta dalla S.C..

L’urgenza della riforma è dettata proprio dal contenuto della decisione della S.C. che ha respinto la proposta, avanzata dalla difesa ricorrente, di una lettura costituzionalmente orientata della norma in parola (art. 627 comma 4), lettura che pure sembrava possibile in quanto il testo codicistico non si riferisce alle nullità verificatesi davanti alla Corte di Cassazione e fa solo riferimento alla impossibilità nel giudizio di rinvio di rilevare nullità, anche assolute, verificatesi nel corso delle indagini preliminari o nei precedenti giudizi (il legislatore ovviamente esamina la fattispecie fisiologica delle nullità poste in essere nei gradi di merito che avevano preceduto il giudizio della cassazione).

D’altra parte, anche e soprattutto a fronte dei casi dubbi ed incerti, deve sempre esservi una lettura costituzionalmente orientata del diritto in generale e del codice di rito nella fattispecie concreta, lettura che permetta alla parte che abbia subito una ingiusta disavventura processuale di chiedere ad altro giudice la eliminazione e la riparazione dell’errore alla base di quella disavventura.

Diversamente, ci troveremmo di fronte ad un sistema che renderebbe impossibile l’eliminazione del vizio per cui si discute e, dunque, ad un sistema in parte qua palesemente incostituzionale: un sistema processuale non può mai essere imperfetto, non può cioè non prevedere rimedi ad un errore, dalle gravi conseguenze peraltro, come la fattispecie concreta ben dimostra.

Ed allora, alla luce della decisione della S.C., che ha pure ritenuto di non sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 627, comma 4, c.p.p., appare ineludibile (ed urgente) una novella legislativa che completi la riforma introdotta al codice di rito con l’art. 6, comma 6, della legge nr. 128 del 26 marzo 2001 (che innovò il codice con l’inserimento della norma ex art. 625 bis), novella che estenda la possibilità di richiedere la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla corte di cassazione non soltanto in favore del condannato ma anche in favore di tutti gli interessati ovvero anche nel caso di decisione non ultimativa ad opera della S.C. (all’uopo potrebbe essere sufficiente sostituire alla parola “del condannato” contenuta nei primi due commi dell’art. 625 bis c.p.p. il termine “di tutti gli interessati”, modificando anche il comma 2 prevedendosi che il termine decorra “dal momento in cui si è avuto conoscenza del deposito del provvedimento”).

Formatosi alla Scuola del Maestro Avvocato Renato Orefice (a sua volta allievo di Giovanni Pansini), a lungo ai vertici dell’Ordine partenopeo e del Consiglio Nazionale Forense, l’Avv. Alfredo Sorge, iscritto a Cassa Forense dal 1983, primo classificato e Toga d’Onore agli esami di Avvocato nel 1985, ha preso parte a molti dei più importanti processi penali per reati contro la Pubblica Amministrazione e non solo che nel corso degli anni hanno segnato la storia giudiziaria in sede napoletana, campana e romana.

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Autorizzazione commerciale e condono edilizio

Se è legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono edilizio non ancora esitata dall'amministrazione

 

La disamina della presente questione si risolve nello stabilire se sia legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, ovvero alla somministrazione di alimenti e bevande, in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata da parte dell’amministrazione comunale.

Giova premettere, al riguardo, che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella commerciale, da un lato, e quella condonistica, dall’altro) hanno alimentato la querelle che, solo di recente, ha trovato soluzione nelle, non sempre univoche, pronunce dei Tribunali amministrativi.

In maggior dettaglio, la normativa commerciale (D.lgs 114/98, Legge 287/91 e D.lgs n. 59/2010) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono sussistere per il rilascio delle relative autorizzazioni, che le attività devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienica-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici.

Precedentemente all’entrata in vigore della suddetta disciplina normativa (e nel vigore dell’art. 24, comma III, Legge 426/71), la giurisprudenza amministrativa era pervenuta alla conclusione che non competesse all’amministrazione verificare, in sede di rilascio dell’autorizzazione, la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica o con la normativa edilizia, in quanto gli interessi diversi da quelli commerciali, indicati nell’abrogato art. 24 della Legge 426/71, dovevano essere tutelati con altre modalità ed in diverse sedi (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. III, 30 settembre 1986, n. 1957; Tar Veneto, 4 dicembre 1985, n. 942; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 6 giugno 1988, n. 177; Tar Lazio, Latina, 27 gennaio 1990, n. 41; Tar Toscana, sez. II, 20 marzo 1996, n. 155; Tar Sardegna, 23 agosto 1996, n. 1971).

Tale orientamento giurisprudenziale, rinvenibile oggi sono in alcune isolate pronunce (cfr. Cons. Stato, sez. III, 02 dicembre 2003, n. 1879), muoveva dalla considerazione per cui la disciplina dettata in materia di commercio non subordinava esplicitamente il rilascio o il mantenimento dell’efficacia dell’autorizzazione all’accertamento della compatibilità del pubblico esercizio da autorizzare con le norme e prescrizioni urbanistiche, ma si limitava a stabilire che l’esercizio dell’attività non esclude il rispetto delle norme e prescrizioni suddette, restando salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 2 agosto 1993, n. 659).

Con l’entrata in vigore della Legge 287/91, prima, e del D.lgs 114/98 e del D.lgs n. 59/2010, poi, è maturata la consapevolezza che le disposizioni in materia di commercio stabiliscono un stretto collegamento tra la programmazione delle rete commerciale e la pianificazione urbanistica, sicché l’apertura e degli esercizi commerciali e di quelli di somministrazione di alimenti e bevande, è subordinata alle previsioni di quest’ultima, trattandosi di un rapporto tra attività di gestione e attività programmatoria (cfr. Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 03 febbraio 2006, n. 160; Tar, Lombardia, 17 ottobre 2008, n. 5154), anche in considerazione della circostanza per cui l’amministrazione comunale non potrebbe tollerare una situazione che, per altri versi, dovrebbe reprimere (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. III, 08 agosto 2007, n. 7409; TRGA, Bolzano, sez. I, 01 ottobre 2003, n. 427).

Con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali e di somministrazione presuppongono la conformità dei relativi locali alle prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 2001; Cons. Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2521; Tar Campania, Napoli, sez. III. 23 febbraio 2003, n. 1250).

Tale orientamento, peraltro, è stato di recente ribadito dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa il quale ha avuto modo di chiarire che “in ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme ancora più puntuali. Così, il già citato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426, al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il rispetto dei regolamenti locali di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto con le disposizioni del piano e della presente legge”. Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, nell’art. 3 L. 25 agosto 1991 n. 287, il quale dispone che le attività relative devono essere esercitate “nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, fatta salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma). Dal confronto tra i due testi, per altro, si evince agevolmente come, se non vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme in questione ha il valore, fatto palese nel secondo, di elemento costitutivo della fattispecie normativa…..Senza in alcun modo disconoscere, quindi, che nelle materie del commercio e dell’edilizia poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto, rappresentato dalla conformità alle disposizioni più volte citate, quale presupposto per l’esercizio di poteri propri sia della materia urbanistica che di quella del commercio. A chiusura del sistema, del resto, va notato che tra le norme di cui il menzionato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza vi sono quelle della stessa legge n. 426 e, quindi, anche quelle più sopra considerate che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la relazione che si è detta. Si ritiene, in conclusione, di poter affermare che alla stregua della normativa vigente l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistico-edilizia…..rappresenta un momento istruttorio necessario, in quanto diretto ad accertare l’esistenza di un presupposto espressamente previsto dalla legge e che, pertanto, sia inibito all’autorità amministrativa il rilascio degli atti autorizzativi quando detta conformità faccia difetto” (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. V, n. 3639/2000; Cons. Stato, sez. IV, 3027/2007).

Con la conseguenza per cui “l’attività commerciale non può essere autorizzata in immobili difformi dalla disciplina urbanistica” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2005, n. 1543; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio 2008, n. 3398).

Nonostante l’approdo ermeneutico cui è giunta la giurisprudenza amministrativa in merito alla normativa dettata in subiecta materia, rimaneva irrisolta la questione relativa alla legittimità o meno del rilascio di un titolo autorizzatorio per immobili coperti da domanda di condono senza che la stessa fosse ancora esitata: questione, quest’ultima, alimentata dalle incertezze determinate dalla normativa condonistica di cui alla legge 47/85.

Partitamente, la disposizione a carattere generale di cui all’art. 44, primo comma della legge 47/85 stabilisce espressamente che “dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati  dall’art. 35, sono sospesi i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione, quelli penali nonché quelli connessi all’applicazione dell’articolo 15 della legge 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo.”

Sospensione questa che comporta, quale conseguenza concreta, che la situazione dell’immobile e di ogni rapporto sussistente con il proprietario deve restare immutata rispetto alla situazione dell’immobile stesso alla data di entrata in vigore della legge, in condizioni di reciprocità, nel senso che la menzionata situazione di fatto non può né regredire, mediante iniziative della P.A. che riducono le facoltà di utilizzazione già in atto, né tantomeno può essere fatta avanzare, attraverso delle attività del privato che aumentino le facoltà già in atto.

E ciò con la ulteriore conseguenza che l’Amministrazione sarebbe tenuta a garantire al titolare della istanza di sanatoria, il mantenimento della destinazione commerciale e dell’uso dell’immobile in atto a quella data, con l’obbligo corrispettivo per esso “titolare” di non introdurre modificazioni rispetto a quella condizione di fatto innanzi indicate.

Pertanto, ove l’immobile oggetto di domanda di condono avesse destinazione commerciale, l’Amministrazione, al momento del rilascio dell’autorizzazione, non sarebbe tenuta a verificare la conformità del menzionato locale alla normativa edilizio-urbanistica, bensì esclusivamente a garantire al privato la continuazione nella utilizzazione dell’immobile secondo la propria destinazione.

Tali conclusioni, peraltro, sarebbero avallate dal regime transitorio di utilizzazione dei beni, nella condizione fissata alla data di entrata in vigore della legge 47/85, laddove si consideri che la disposizione di cui all’art. 40 della L. 47/85, fino a quando l’Amministrazione non abbia espresso un provvedimento di diniego alla istanza di sanatoria, ammette sia la commerciabilità per atto tra vivi, sia la possibilità di cederli in locazione.

Peraltro, con riferimento ad edifici destinati ad impianti produttivi, – esercizi commerciali, attività alberghiere – il combinato disposto dell’art. 34, ultimo comma e dell’art. 35, 3° comma, lett. d), ha stabilito un’oblazione pari al 50% di quella per le “residenze”, con parametri di riduzione o maggiorazione, connessi a classi di ampiezza delle opere abusive, perché venisse prodotto un certificato di iscrizione alla C.C.I.A.A., “da cui risulti che la sede dell’impresa” alla data di entrata in vigore della legge “è situata nei locali per i quali si chiede la concessione in sanatoria”; sede dell’impresa questa costituente quindi conditio sine qua non per poter beneficiare delle riduzioni per le destinazioni produttive, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 34.

L’entrata in vigore della legislazione sul “condono edilizio”, legittimerebbe, dunque, la facoltà del proprietario di poter utilizzare l’immobile per la medesima destinazione d’uso consolidatasi nell’immobile e comunque in atto alla data di presentazione della istanza di condono.

A suffragio di tale tesi, la giurisprudenza di alcuni Tribunali Amministrativi Regionali aveva chiarito che “l’abusività del fabbricato attiene soltanto al momento genetico non potendosi escludere, nel quadro della normativa introdotta dalla legge n. 47/85, la sua postuma legittimazione e la titolarità, in capo al proprietario che di quel bene ha chiesto il condono, di una aspettativa giuridica  alla citata legittimazione tramite appunto condono. Da quanto precede discende che l’abusività del fabbricato in questione (del quale è stato chiesto il condono) è condizionata al diniego del beneficio e perciò deve ritenersi sospesa in pendenza della relativa determinazione dell’Amministrazione. Orbene prima che intervenga tale diniego (che consoliderebbe l’abusività dell’edificio), appare conforme a logica e a principi di tutela della proprietà privata che il titolare dell’aspettativa possa, in pendenza della domanda di condono, compiere atti conservativi del bene e mantenere integre le sue ragioni” (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. III, 2 febbraio 2001, n. 546/2001)

In ragione di tanto, da più parti, si era ipotizzata la possibilità di rilasciare autorizzazioni commerciali relativamente ad immobili per i quali pendeva domanda di condono non ancora esitata dall’amministrazione comunale stante l’obbligo – discendente ex lege – di garantire la continuazione nella utilizzazione del locale per la destinazione commerciale.

Per converso, dalla lettura della normativa di riferimento (D.lgs 114/98, Legge 287/91 e D.lgs n. 59/2010) discende, in positivo, che l’esistenza di un valido titolo concessorio costituisce indispensabile presupposto per il rilascio dell’autorizzazione commerciale e alla somministrazione di alimenti e bevande e, in negativo, che la stessa preclude all’amministrazione di assentire autorizzazioni in locali privi delle necessarie autorizzazioni edilizie.

Ed invero, l’autorità preposta deve verificare la sussistenza, oltre che dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo previsti dalla normativa di riferimento, anche degli ulteriori parametri indicati dalla legge, quali, in particolare, la conformità della destinazione d’uso dell’immobile da destinare ad attività commerciale ed il rispetto delle norme, prescrizioni, autorizzazioni in materia edilizia ed urbanistica.

In linea, dunque, con la granitica giurisprudenza secondo cui è “illegittima l’autorizzazione di somministrazione a causa della inidoneità dei locali, privi di concessione edilizia” (cfr. Tar Campania Napoli, sez. III, n. 4493/01; Tar Campania, 16 novembre 2000, n. 4285; Tar Campania Napoli, sez. III, 19 luglio 2001, n. 3442; Tar Campania Napoli, sez. IV, n. 164/1996; Tar Lazio Roma, sez. II, 12 novembre 2003, n. 9894; Cons. Stato, sez. V, n. 5854/04; Cons. Stato, sez. V, 28 giugno 2000, n. 3639; Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2000, n. 5656) si è attestata la successiva giurisprudenza che ha avuto modo di chiarire come la mera presentazione dell’istanza di condono non risulta sufficiente a confortare del rispetto delle norme, prescrizioni vigenti in materia edilizia, atteso che “la domanda di sanatoria conferma l’abusività dei locali e non sostituisce certo la concessione”(cfr. sul punto Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 7324/2005; Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 4493/01).

E ciò in quanto, le attività commerciali e di somministrazione“devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme, prescrizioni ed autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici”. Come appare pacifico già dalla mera lettura della disposizione in esame, il legislatore ha inteso affermare che, ai fini del rilascio delle autorizzazioni per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, l’autorità amministrativa competente deve verificare non solo la ricorrenza di presupposti e requisiti previsti…………. e, più in generale, dalle disposizioni volte alla disciplina delle attività commerciali, ma anche quelle più specificamente relative alla legittima utilizzabilità dei locali ai fini dello svolgimento dell’attività autorizzanda, sia sotto il profilo edilizio-urbanistico sia sotto il profilo igienico-sanitario. Ne consegue che l’accertamento della conformità del locale alla disciplina edilizia ed urbanistica, in primis asseverata attraverso la verifica della realizzazione del locale stesso sulla base di idonei e legittimi titoli autorizzatori, nonché alla disciplina igienico-sanitaria, asseverata attraverso idonea verifica, costituiscono presupposti indefettibili per il rilascio dell’autorizzazione. Di modo che, laddove il locale indicato come luogo di svolgimento dell’attività non risulti conforme alle citate prescrizioni, l’autorizzazione………. Nel caso di specie, il locale indicato ai fini dello svolgimento dell’attività da autorizzarsi è oggetto di istanza di condono edilizio ………….. sulla quale l’amministrazione comunale non si è pronunciata, come si evince sia dal certificato di agibilità provvisoria…………. Orbene, tale circostanza rende illegittima l’autorizzazione rilasciata in quanto essa riguarda una attività da svolgersi in locale che risulta, per un verso, non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica, né “ricondotto a conformità”, per effetto dell’istanza di condono presentata. …Né conduce a diversa conclusione quanto dedotto sia dal Comune sia dalla controinteressata, in ordine alla commerciabilità del bene, in pendenza di decisione sulla istanza di condono, poiché, nel caso di specie, non si discute della trasferibilità di un bene, o dei diritti sul medesimo, bensì della assentibilità di un provvedimento di natura commerciale, subordinata alla positiva verifica della conformità dei locali di svolgimento dell’attività alla normativa edilizio-urbanistica; conformità, come si è detto, assente al momento del rilascio dell’autorizzazione impugnata (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. III, 02/11/2015,  n. 5081; in terminis Tar Campania, Napoli, sez. II, 03 novembre 2005, n. 9711/06).

Di recente, peraltro, il principio è stato ribadito dal Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa il quale ha chiarito che “l’art. 3 comma 7, l. 25 agosto 1991 n. 287, nel disporre che le attività di somministrazione di alimenti e bevande devono essere esercitate nel rispetto delle vigenti norme in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, richiede ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni che l’autorità amministrativa verifichi non solo la presenza dei presupposti e requisiti in materia di attività commerciale, ma accerti anche la conformità dei locali, da utilizzare per l’autorizzanda attività, alle norme predette sotto il profilo sia edilizio-urbanistico che igienico-sanitario; di conseguenza è illegittima l’autorizzazione rilasciata relativamente ad un’attività di somministrazione di bevande da svolgersi in un locale non conforme alla disciplina edilizia e urbanistica né ricondotto a conformità per effetto dell’accoglimento dell’istanza di condono presentata ma non ancora definita”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3262).

È evidente, dunque, che le enunciazioni giuridiche dei Giudici amministrativi ribadiscono, correttamente interpretando la normativa di riferimento, orientamenti giurisprudenziali assolutamente pacifici che precludono il rilascio di un’autorizzazione alla somministrazione in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata.

La preclusione al rilascio di idoneo titolo commerciale in pendenza di domanda di condono non ancora esitata rileva, peraltro, sotto altro e diverso profilo.

Segnatamente, come noto, il rilascio dell’autorizzazione commerciale presuppone il previo rilascio del certificato di agibilità ai sensi dell’art. 24 e ss D.P.R. 380/2001, come sostituito, da ultimo, dall’articolo 3, comma 1, lettera i), del D.Lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (ovvero il consolidarsi della Scia presentata dal privato).

La normativa richiamata, così come affermato da granitica giurisprudenza, chiarisce che il certificato de quo (recte, il c.d. consolidarsi della segnalazione di inizio attività) non ha più solo finalità igienico-sanitarie – proprie della licenza di abitabilità e agibilità previste dalla legislazione previgente – ma può essere rilasciata solo ed esclusivamente allorché siano stati accertati dall’amministrazione idonei requisiti di sicurezza degli edifici, degli impianti installati nonché la conformità dello stesso alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie.

Con la conseguenza che la pendenza della domanda di condono, rimarcando l’abusività dell’immobile, preclude all’amministrazione il rilascio anche del certificato di agibilità.

In giurisprudenza è stato ripetutamente affermato che “se i locali sono abusivi l’agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina urbanistico –edilizia o del quale non è stata o è stata falsamente attestata la conformità al progetto approvato, perché il progetto non è stato approvato o l’opera è stata realizzata in difformità da esso”(cfr. Tar Veneto, Venezia, sez. III, n. 4702/03; Tar Veneto, sez. II, 17 novembre 1997, n. 1569; Cons. Stato. Sez. VI, 15 luglio 1993, n. 535; Tar Puglia Bari, sez. II, 15 giugno 1995, n. 467; Cass. Pen., sez. III, 18 novembre 1997, n. 3905; Cass.Pen., sez. III, 10 gennaio 1994, n. 72).

Ed ancora “L’esercizio dissociato dei poteri che fanno capo allo stesso ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi sussista un obiettivo collegamento, contrasta con il basilare criterio di ragionevolezza e, pertanto, è in evidente contrasto con il principio di buona amministrazione esplicitato anche dalla l. n. 241 del 1990: pertanto, pur non disconoscendosi che poteri diversi sono posti a tutela di interessi di diversa natura e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, la stretta connessione tra diversi tipi di provvedimento può legittimamente indurre ad indicare il medesimo fatto quale presupposto per l’esercizio di poteri diversi e dunque, nella specie, è legittimo il diniego dell’agibilità dei locali per ragioni paesistico – urbanistiche”(cfr. Consiglio Stato , sez. V, 05 aprile 2005, n. 1543).

Dello stesso avviso, la dottrina prevalente che subordina “il rilascio del certificato di agibilità alla accertata conformità del manufatto alla normativa edilizia ed urbanistica”(N.Assini-P.Mantini, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè edizione, 2007, pag. 835 e ss; M. Baroni, I presupposti per la licenza di abitabilità: non è vero che occorrono solo requisiti igienico-sanitari, TAR, 1987, II, 89 ss; V.Vincenzi, Abitazioni (igiene delle), EGI, I, Roma, 1988; C. De Caro Bonella, La licenza di abitabilità, Napoli, 1978, pag. 30 ss; V. Domenichelli, Alcune (tristi) riflessioni sulla nuova disciplina del certificato di abitabilità, D. REG (Veneto), 1986, pag. 445 ss; M.S.Giannini, In tema di licenza di abitabilità, FA, 1956, I, 2, 517 ss; F. Gaualandi, La disciplina del certificato di abitabilità: nuove problematiche alla luce del D.P.R. 22 aprile 1994, RG ED, 1995, II, pag. 53 ss; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2002, pag. 351 ss.).

E ciò in quanto “il procedimento di rilascio come un momento riepilogativo del controllo sull’attività edilizia, “data la stretta connessione fra norme previste dalla leggi sanitarie e quelle sancite dalla legge urbanistica in materia di costruzioni, che non consente una distinzione tra tutela di fini esclusivamente igienico-sanitari e tutela di fini esclusivamente urbanistico-edilizi”(cfr. De Caro Bonella, op. cit., pag. 30 ss).

Appare evidente, anche per tale ulteriore considerazione, che in ogni caso il certificato di agibilità (il consolidarsi della relativa SCIA) non può essere rilasciato laddove l’immobile risulta abusivo, e dunque realizzato in assenza dei necessari titoli abilitativi che ne certifichino la conformità alle prescrizioni e di carattere squisitamente urbanistico, sebbene pendente una domanda di condono.

Con la conseguenza per cui sarebbe illegittimo il rilascio da parte dell’amministrazione di una certificazione provvisoria di agibilità “non prevista dall’ordinamento che, comunque, può riguardare solo manufatti conformi alla disciplina edilizia ed urbanistica, e sulla cui base, pur avendo essa efficacia temporaneamente definita (un anno), è stata rilasciata l’autorizzazione senza particolari prescrizioni temporali e quindi fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello del rilascio”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2009, n. 3262).

Recentemente è stato, peraltro, chiarito che “la conformità dei manufatti alle norme urbanistico – edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli artt. 24, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001 e 35, comma 20, L. n. 47 del 1985; del resto, risponde ad un evidente principio di ragionevolezza escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione è preordinata la disciplina urbanistico – edilizia” (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VI, 29 gennaio 2016, n. 592; T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 01-08-2012, n. 1447).

Con la conseguenza per cui “il certificato di agibilità non può essere ottenuto, in relazione ad immobili abusivi, se non quando risulti rilasciato il permesso di costruire in sanatoria” (cfr. in terminis, Tar Campania, Napoli, Sezione VII, 21 dicembre 2012 n. 5293).

E ciò in quanto, non essendo previsto nel nostro ordinamento giuridico la figura del titolo abilitativo provvisorio tale figura si porrebbe in contrasto con il principio di tipicità che sovrintende il principio dell’adozione di atti amministrativi validi ed efficaci.

L’agibilità provvisoria materializzerebbe aberrante figura di titolo rilasciato dall’amministrazione in precario che, viceversa, non ha cittadinanza nell’ordinamento amministrativo italiano.

Conclusivamente, relativamente ad immobili per i quali pende domanda di condono è precluso all’amministrazione il rilascio di idoneo titolo commerciale sia per conclamato contrasto con le prescrizioni edilizie ed urbanistiche – come detto non ricondotte a conformità dalla pendenza della istanza di sanatoria – sia per la preclusione che incontra la P.A. nel consentire il consolidarsi della Scia presentata dal privato ai sensi degli artt. 24 e ss. del D.P.R. 380/2001.

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Regolamenti Edilizi e Temporalizzazione dell’azione amministrativa

Sulla potestà regolamentare dei Comuni in materia edilizia

 

L’attribuzione ai Comuni dello specifico potere regolamentare in materia edilizia inizia storicamente con la Legge comunale e provinciale n. 3702 del 08/10/1859 la quale aveva riguardo solo ed esclusivamente all’ornato pubblico ed alla polizia locale.

Solo successivamente, ovvero con l’entrata in vigore della Legge n. 2248 del 20 marzo 1865, all. F, il Legislatore attribuì ai Comuni specifici poteri in materia di regolamentazione dell’attività edilizia.

In maggior dettaglio, il regolamento di attuazione alla Legge Fondamentale citata, ovvero l’R.D. n. 2321 del 8.06.1865, determinava le materie che potevano formare oggetto di regolamentazione quali: la nomina e la composizione delle commissioni edilizie; la polizia della viabilità interna al centro abitato; l’ornato; l’intonaco e la tinta della facciate e dei muri; l’altezza massima dei fabbricati; la posizione e la conservazione dei numeri civici; la posizione e la conservazione dei marciapiedi e il controllo dei lavori da farsi dai delegati del municipio al fine di constatare l’osservanza delle disposizioni legislative e regolamentari.

Con l’entrata in vigore della Legge Urbanistica n. 1150 del 17 agosto 1942, all’art. 33, si stabilì il contenuto dei regolamenti edilizi, le procedure di formazione ed approvazioni degli stessi (art. 36), nonché prescrizioni di carattere puramente procedimentali (quali, a titolo esemplificativo, le modalità di presentazione delle domande di licenza – poi permesso a costruire –, di compilazione dei progetti, etc.)

Solo con il D.P.R. 380/2001 i regolamenti edilizi sono stati oggetto di una disciplina specifica e dettagliata.

In particolare, l’art. 2, comma IV, del T.U. Edilizia stabilisce che “i comuni, nell’ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all’art. 3 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, disciplinano l’attività edilizia”.

Secondo il successivo art. 4, comma I, T.U. cit. “il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell’art. 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze”.

Tuttavia, mentre l’abrogato art. 33 della L.U. attribuiva ai Comuni, attraverso l’elencazione delle specifiche materie oggetto della sua disciplina, anche la piena competenza a regolare la materia stessa attraverso norme di carattere procedimentale, il D.P.R. n. 380/2001, all’art. 4, attribuisce ai Comuni unicamente il potere di emanare norme in materia di “modalità costruttive”.

Con ciò adombrando l’impossibilità da parte delle amministrazioni comunali di inserire tra le prescrizioni a carattere regolamentare norme che scandissero modi, termini e tempi del procedimento tanto per i singoli interventi edilizi quanto per i piani attuativi.

Ciò posto, la prima questione da esitare consiste nello stabilire la sussistenza o meno in capo alle amministrazioni comunali di specifiche funzioni amministrative in merito alla procedimentalizzazione dell’attività edilizia.

Va da subito evidenziato che ai sensi dell’art. 7 del D.lgs n. 267/2000, i Comuni sono titolari, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, di un potere regolamentare autonomo per le materie di loro competenza.

Ai sensi del successivo art. 13 del D.lgs n. 267/2000 spettano ai Comuni tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione del territorio comunale, principalmente per l’assetto e l’utilizzazione del territorio, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.

Va, peraltro, osservato che ai sensi dell’art. 114, comma 2, della Costituzione “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione”, con ciò consacrando l’autonomia degli enti locali attraverso i propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (cfr. Corte costituzionale, 14 novembre 2005, n. 417; Corte costituzionale, 10 novembre 2004, n. 334; T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 04 luglio 2006, n. 943).

Peraltro, il successivo art. 118 della Costituzione, così come novellato dalla Legge Costituzionale n. 3/2001, conferma l’espressa attribuzione ai Comuni di una posizione primaria in materia di funzioni amministrative.   

Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che “in ossequio al disposto di cui all’art. 5 l. n. 142/1990 (oggi D.P.R. n. 267/2000), gli enti locali possono, nel rispetto della legge, emanare norme di natura regolamentare da applicare in sede di esame di istanze attinenti a procedimenti rimessi dalla legge alla loro competenza” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 dicembre 2008, n. 6610).

Ed ancora “il potere regolamentare degli enti locali trova fondamento nell’art. 5 l. 8 giugno 1990 n. 142 (v. ora l’art. 7 d.lg. 18 agosto 2000 n. 267) ed ancor prima copertura costituzionale nell’art. 117 cost. (come riscritto dalla riforma del titolo V della Costituzione); pertanto, anche al di là delle materie contemplate espressamente, la potestà regolamentare degli enti locali (sia pur nei limiti dettati dall’ordinamento) può spaziare oltre le materie contemplate espressamente, in considerazione della caratterizzazione degli enti locali come enti a fini generali”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2004, n. 6317; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 17 marzo 2003 n. 959).

La potestà regolamentare dei Comuni in materia edilizia, dunque, deve ritenersi espressione della più generale potestà di autonomia normativa comunale riconosciuta dagli artt. 5 e 128 della Costituzione.

Le disposizioni costituzionali e normative richiamate, a ben vedere, da un lato aprono uno spazio di libertà quanto alla disciplina delle funzioni amministrative – che devono, in ogni caso, essere definite dal potere regolamentare –, dall’altro attribuiscono ai Comuni il potere di disciplinare, all’interno dei regolamenti edilizi, le procedure autorizzative, i limiti e le forme del potere di controllo mediante definizione degli interventi che sono da considerarsi in concreto rilevanti sotto il profilo della temporaneità, consentendo agli Enti Locali di conseguire determinate finalità proprie delle funzioni ad essi attribuite (cfr. Tar Puglia, Lecce, sez. I, 13 gennaio 2003, n. 260).

Quanto alla natura del regolamento edilizio, peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che lo stesso “esprimendo l’autonomia riconosciuta ai comuni dall’ordinamento ha natura giuridica di fonte normativa secondaria e come tale è subordinato al criterio ermeneutico della coerenza con le fonti primarie ed è applicabile ex officio dal giudice in base al principio iura novit curia”(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 dicembre 2003, n. 8580, in Foro amm., CDS, 2003, 3639; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 05 gennaio 2007, n. 7).

Ovviamente, la presenza di una completa disciplina legislativa comporta l’individuazione di limiti normativi più pregnanti rispetto alla potestà regolamentare dei Comuni ammissibile laddove non si traduca in contraddizioni evidenti “fra la norma locale e la legge”(cfr. in giurisprudenza Tar Lazio, Roma, sez. II, 17 dicembre 1975, n. 567; Tar Lazio, Roma, sez. II, 22 dicembre 1975, n. 607; Tar Lazio, Roma, sez. II, 04 febbraio 1976, n. 64; in dottrina A. Travi, Legalità delle funzioni e rapporti tra fonti nell’amministrazione locale, in Diritto Amministrativo e giustizia amministrativa nel bilancio di un decennio di giurisprudenza, a cura di Allegretti, Orsi Battaglini, Sorace, Rimini, 1987, p. 771; Nicola Assini e Pierluigi Mantini, Manuale di diritto Urbanistico, III ed. Giuffrè, 2007, p.666)

Ciò posto, e fatta questa doverosa premessa di carattere storico-giuridico, resta da stabilire se sia legittimo o meno l’inserimento da parte delle amministrazioni comunali nell’ambito dei regolamenti edilizi di prescrizioni che, in ossequio al principio della temporalizzazione dell’azione amministrativa, fissino termini ulteriori per la conclusione del procedimento con conseguente comminazione di sanzioni per il caso in cui tali termini fossero elusi dal privato richiedente.

Va al riguardo evidenziato che ai sensi dell’art. 20 TU Edilizia “La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un’attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti [dal regolamento edilizio] [….]. (comma 1). “Il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entita’ rispetto al progetto originario, puo’, nello stesso termine di cui al comma 3, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L’interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, e’ tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta di cui al presente comma sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al comma 3” (comma IV). “Il termine di cui al comma 3 puo’ essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano gia’ nella disponibilita’ dell’amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa” (comma V).

La disposizione normativa statale che scandisce, in via generale ed astratta, i termini di conclusione del procedimento.

Come si vede, l’art. 20 del D.P.R. cit. nulla dispone nella ipotesi in cui l’interessato non ottemperi, nel modo più assoluto, alla richiesta di integrazione documentale avanzata dall’amministrazione non prevedendo né un termine entro cui integrare la pratica edilizia in conformità alle richieste dell’Amministrazione, né le conseguenze che maturano nell’ipotesi in cui spirasse infruttuosamente tale termine.

Con ciò rimettendo alla discrezionalità dell’Amministrazione comunale la determinazione dell’uno e dell’altro profilo, ovviamente con la duplice direttiva, per un verso, di non ledere l’affidamento del privato (es. assegnando un termine troppo breve) e, per altro, di non paralizzare l’azione amministrativa che, comunque, deve andare avanti, essendo impensabile la sua coercizione in ragione dell’incuranza del privato.

Ed è proprio nelle maglie di tale vuoto normativo – la cui permanenza nell’ordinamento potrebbe, per tesi, legittimare la pendenza sine die del procedimento amministrativo – che si innesta la problematica circa la possibilità da parte delle amministrazioni di inserire prescrizioni regolamentari che prescrivano ipotesi decandeziali e/o archiviatorie laddove il privato ometta di integrare la documentazione afferente il rilascio del permesso a costruire.

Come chiarito, una tale prescrizione risulterebbe funzionale a soddisfare esigenze di efficienza, efficacia ed imparzialità dell’azione amministrativa e, di fatto, interverrebbe a colmare – nel rispetto della gerarchia delle fonti – una carenza normativa riconoscibile nell’art. 20 del D.P.R. 380/01 attraverso l’esaurimento, in via generale ed astratta, di quella discrezionalità rimessa dai legislatori nazionali e regionali agli Enti Locali attraverso previsioni regolamentari che impongono termini e modi entro cui integrare le pratiche edilizie; la stessa, peraltro, attuerebbe il principio di autoresponsabilità del privato, specialmente laddove egli è titolare del potere di iniziativa e di impulso della determinazione dell’amministrazione (cfr. Consiglio di Stato n. 1815 del 1995).

In tale prospettiva, ragioni di speditezza dell’azione amministrativa (cfr. sul punto T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 08 febbraio 2005, n. 883), rendono chiaramente legittime tali previsioni regolamentari in quanto sarebbe “fuori logica e in palese contrasto con elementari principi di ragionevolezza che la necessità di termini certi ed espressi per la conclusione del procedimento amministrativo costituisca un onere esclusivamente a carico dell’amministrazione e non si configuri, altresì, per il privato l’onere di leale e sollecita collaborazione all’azione della P.A., soprattutto ove questa sia finalizzata all’emanazione di un provvedimento richiesto dal medesimo e ampliativo della sua sfera giuridica”(cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VI, 16 luglio 2008, n. 9905); le stesse, peraltro, sarebbero in linea  con il “principio di temporalizzazione dell’azione amministrativa, correttamente intesa come azione che richiede necessariamente, per la sua piena efficacia ed economicità, il concerto e la collaborazione degli amministrati”(Tar Campania, Napoli, sez. VI, 16 luglio 2008, n. 9905).

Conclusivamente, una prescrizione regolamentare che, in ossequio al principio della temporalizzazione dell’azione amministrativa, riconnetta ipotesi decandenziali a carico del privato che ometta di integrare la pratica edilizia nel termine ivi stabilito, “trova fondamento nel generale potere comunale di dettare regole di dettaglio per lo svolgimento delle procedure di sua competenza, nell’alveo delle leggi statali e regionali (art. 29, comma 2, della Legge 7 agosto 1990, n. 241) è rivolta ad evitare la pendenza a tempo indeterminato di procedure relativamente alle quali il privato non adempia ad un esigibile onere di collaborazione. Si persegue, così, il razionale obiettivo di scongiurare un vano dispendio di energie pubbliche e di dare la necessaria attenzione a pratiche realmente rispondenti ad un attuale interesse del privato. L’esigenza di speditezza dell’azione amministrativa e di certezza della relativa tempistica, da ultimo rafforzata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, non può, infatti, gravare solo sulle spalle dell’amministrazione ma impone al privato un onere di leale e sollecita collaborazione all’efficiente dispiegarsi della procedura innescata da una sua istanza”(cfr. Cons. Stato, sez. V, 29 dicembre 2009, n. 8971/2009).

Sul punto è stato chiarito che “il comune è legittimato a introdurre nel proprio ordinamento locale di settore, in quanto coerente sia con la “ratio” che con i contenuti della disciplina di principio e regionale di dettaglio, una norma secondaria nel regolamento edilizio comunale che semplifichi il procedimento amministrativo edilizio”(cfr. ex plurimis T.A.R. Lazio Latina, 12 marzo 2005, n. 305).

Trattasi di norma secondaria semplificativa del procedimento amministrativo edilizio che il Comune ha titolo ad introdurre nel proprio ordinamento locale di settore in quanto coerente sia con la ratio che con i contenuti della disciplina di principio e ragionale di dettaglio (cfr. in dottrina Giorgio Pagliari in Corso di Diritto Urbanistico, Giuffrè editore, 2002, pp. 397 e ss) e che in attuazione dell’antico brocardo diligentibus iura succurrunt, non si pone in contrasto con la disciplina statale di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001, in quanto, come detto, tale ultima norma annette alla richiesta di documentazione integrativa l’effetto di interrompere il decorso del termine procedimentale ma non esclude la possibilità che i regolamenti comunali, in sede di disciplina attuativa dei procedimenti di competenza, fissino uno spazio temporale massima decorso il quale l’inerzia del privato comporti l’archiviazione della procedura in ragione del disinteresse manifestato nei fatti dall’istante.

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Immobile abusivo aggiudicato a seguito di procedure esecutive

Condono di immobili abusivi aggiudicati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali.

 

Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 25 novembre 2013, n. 5598

 

“l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68)[….] fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio […].

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva […]”.

Cons. Stato, sez, IV, 25 novembre 2013, n. 5598

Leonardo Spagnoletti, Consigliere, Estensore

(Omissis)

Fatto e Diritto

1.) L’avv. N. D. C. ha acquistato in comproprietà con M. G. B. un immobile residenziale ubicato in Roma, alla via F. n. 16, piano I, scala A, interno 4, con annesse pertinenze, costituite da un terrazzo di mq. 36 circa al piano attico e da un locale al piano servizi, in esito a procedura esecutiva immobiliare.

L’immobile è stato trasferito in proprietà con decreto del Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Roma del 14 giugno 2001, trascritto il 20 settembre 2001, che disponeva il rilascio dell’immobile, poi conseguito, a seguito di precetto e primo accesso, in data 10 dicembre 2001, come da relativo verbale.

Con istanza pervenuta all’amministrazione comunale il 18 marzo 2002, le comproprietarie acquirenti hanno chiesto di poter condonare un’opera abusiva realizzata sul terrazzo al piano attico, integrante ambiente “residenziale” di mq. 26,98 (per volume vuoto per pieno di mc. 70,41), con versamento in unica soluzione dell’oblazione di € 1.505,00, della quale, secondo la dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata all’istanza, esse hanno avuto contezza soltanto a seguito del rilascio dell’immobile.

Con determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, comunicata con successiva nota del 18 giugno 2002, è stata rigettata l’istanza di condono edilizio “…essendo decorsi oltre 120 giorni – termine previsto dall’art. 40 co. 6 ex lege 47/85 – dalla data di trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive”.

Con il ricorso in primo grado n.r. 9573/2002, l’avv. D.C., costituita in proprio, ha impugnato il diniego di condono edilizio, deducendone l’illegittimità sotto vari profili, profilando subordinata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985.

Con la sentenza n. 3851 del 4 maggio 2011 il ricorso è stato rigettato, sul rilievo che:

– l’art. 40 comma 6 introduce eccezionale fattispecie di sanatoria di opere edilizie nel quadro del regime a sua volta derogatorio introdotto dalle disposizioni sul condono edilizio, ricollegando il termine per la presentazione dell’istanza irrefragabilmente all’atto del trasferimento, connesso all’esito di procedure esecutive anche concorsuali, senza che possa invocarsi alcun affidamento o possa rilevare la buona fede dell’acquirente;

– non sussistono evidenti profili di non manifesta infondatezza dell’evocata questione di costituzionalità dell’art. 40 comma 6 proprio in funzione del rilievo oggettivo dell’abuso edilizio, dell’inesistenza di profili di affidamento o di rilievo della buona fede dell’acquirente e della “inusuale lunghezza” del termine per la presentazione della domanda di sanatoria.

Con appello notificato il 4 novembre 2011 e depositato il 1° dicembre 2011, l’avv. D.C. ha impugnato la sentenza, deducendo in sintesi i seguenti motivi:

1) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, perché la disposizione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985, interpretata alla luce della sua ratio e coordinata con quella dell’art. 586 c.p.c., deve essere intesa nel senso che il termine decorre non già dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile, sebbene da quella della sua consegna all’acquirente, nella quale si rende conoscibile l’effettivo stato di fatto e quindi anche l’esistenza di eventuali opere abusive.

2) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione dell’art. 40 comma 6 della legge n. 47/1985 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 586 c.p.c. – Omesso esame punti e documenti decisivi della controversia – Motivazione insufficiente, contraddittoria, illogica, ribadendosi che nel caso di specie non viene in rilievo una astratta tutela dell’affidamento dell’acquirente, sebbene la conoscibilità dell’esistenza dell’abuso edilizio.

3) Error in iudicando – Violazione e falsa applicazione della legge n. 47/1985 – Violazione dell’art. 112 c.p.c. – Omesso esame punti decisivi della controversia – Motivazione illogica, insufficiente, contraddittoria, con riferimento alla ritenuta manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, riproposta sub:

4) Questione di illegittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 42 e 97 Cost., in quanto l’art. 40 comma 6, se interpretato nel senso preclusivo della sanatoria, introduce ingiustificata disparità di trattamento in danno di acquirenti d’immobili abusivi in esito a procedure esecutive, manifestamente incolpevoli ed estranei all’abuso, con compressione ingiustificata del diritto di proprietà, per esposizione alle sanzioni repressive edilizie, ivi compresa demolizione e acquisizione gratuita dell’area di sedime del manufatto-

Costituitasi in giudizio, Roma Capitale, con memoria difensiva depositata in vista dell’udienza di discussione, ha dedotto a sua volta l’infondatezza dell’appello, richiamando la motivazione della sentenza gravata.

Con memoria di replica, l’appellante ha insistito per l’accoglimento dell’impugnazione.

All’udienza pubblica del 19 marzo 2013 l’appello è stato discusso e riservato per la decisione.

2.) L’appello in epigrafe è fondato e deve essere accolto, onde in riforma della sentenza gravata e in accoglimento del ricorso in primo grado deve essere annullata la determinazione dirigenziale n. 58340 del 19 marzo 2002, salvi i provvedimenti ulteriori dell’amministrazione in ordine all’esame della domanda di condono edilizio.

Com’é noto l’art. 40 comma 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (come aggiunto dall’art. 8-bis, comma 4, del d.l. 23 aprile 1985, n. 146, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 1985, n. 298 e, successivamente, sostituito dall’art. 7, comma 2, del d.l. 12 gennaio 1988, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 13 marzo 1988, n. 68) dispone che:

Nella ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge”.

La disposizione fissa un termine perentorio ai fini della presentazione dell’istanza di sanatoria per opere abusive relative a immobili assoggettati a procedure esecutive che però deve razionalmente raccordarsi all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio.

Nel caso di specie, il trasferimento riguardava in via principale l’appartamento, ex se legittimo, nonché due pertinenze, tra le quali il terrazzo in piano attico, riconosciute come tali e come parti indivisibili dell’immobile soltanto in esito alla perizia di stima del valore dell’immobile.

In effetti né nell’avviso di vendita all’incanto, né nella perizia di stima, né infine nel decreto di trasferimento si fa menzione alcuna della realizzazione sul terrazzo di un manufatto.

Ne consegue che nella specie il termine ex art. 40 comma 6 non poteva decorrere dalla data dell’atto di trasferimento, dovendo riferirsi invece al momento dell’effettiva scoperta e conoscenza dell’opera abusiva, che, in difetto di elementi di segno contrario, e secondo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà allegato all’istanza di condono, deve farsi risalire al momento della conseguita consegna dell’immobile, per effetto dell’esecuzione dell’ordine di rilascio, ossia al 10 dicembre 2001, data rispetto alla quale la presentazione dell’istanza di sanatoria (18 marzo 2002) è affatto tempestiva.

3.) Alla stregua dei rilievi che precedono, sono pertanto fondati il primo e secondo motivo d’appello, che assorbono l’evocata questione di costituzionalità della disposizione, da interpretare nei sensi, costituzionalmente adeguati, che precedono.

4.) In relazione alla novità e peculiarità delle questioni esaminate, sussistono giusti motivi per dichiarare compensate per intero tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

(Omissis)

*** Nota a sentenza

Sommario

1. Premessa – 2. La vicenda devoluta al Consiglio di Stato – 3. Sulla decorrenza del termine di 120 giorni per la sanatoria ex art. 40 comma VI, Legge n. 47/85 – 4. Conclusioni

  1. Premessa

La decisione in commento, rimeditando e mitigando il contrastante e più restrittivo orientamento dei Tribunali Amministrativi Regionali (cfr. infra),  affronta il problema della decorrenza del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono ex art. 40 comma VI della Legge n. 47/85 per gli immobili, o loro parti, abusivi ed assegnati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali e concorsuali.

La recentissima decisione del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa muove più che da una interpretazione letterale e testuale della disposizione normativa presa in considerazione – rectius, art. 40 comma VI Legge n. 47/85 e art. 46 comma 5 D.P.R. n. 380/2001 –  da una “interpretazione politicamente consapevole, dove la fedeltà al testo ed all’intentio non si misura in chiave meramente grammaticale ma per la capacità di dare prosecuzione agli intendimenti costituenti”[1].

Attraverso tale interpretazione, infatti, il Consiglio di Stato “apre” ad una ermeneusi, per così dire, fluida non tanto della perentorietà del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono – che è, e rimane, “termine perentorio” – quanto piuttosto del dies a quo della sua decorrenza il quale non può che, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, decorrere dalla data di effettiva scoperta e/o conoscenza dell’opera abusiva oggetto di procedura.

I Giudici di Palazzo Spada, in riforma alla sentenza resa in prime cure, hanno ritenuto illegittimo il diniego espresso dall’amministrazione comunale in merito a una istanza di condono edilizio presentata dall’acquirente di un immobile in esito a procedura esecutiva immobiliare in ragione dello spirare del termine di 120 giorni decorrenti, secondo l’orientamento sino ad oggi prevalente ed al quale i Primi Giudici hanno sostanzialmente aderito, dalla data di notifica del decreto trasferimento dell’immobile interessato dalle opere abusive.

Le motivazioni della decisione in commento offrono lo spunto per una riflessione su tale disciplina speciale contenuta all’interno di una norma di sanatoria a sua volta speciale.

  1. La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato

I soggetti acquirenti, in esito a procedura concorsuale, di un immobile ad uso residenziale con annesse pertinenze, alla data dell’immissione in possesso ed a seguito del relativo accesso a mezzo Ufficiale Giudiziario – avvenuti entrambi ben oltre il termine di 120 giorni dalla data di notifica del decreto di trasferimento –, constatavano che sul terrazzo, accorpato all’unità immobiliare oggetto di assegnazione e posto al piano attico dell’immobile, insisteva una struttura di tipo metallico, posta nel lastrico solare, infissa al suolo, saldamente ancorata ai muri perimetrali portanti, fornita di porta anteriore e posteriore, anch’esse metalliche.

Tale ulteriore immobile non veniva menzionato né nella relazione di consulenza tecnica d’Ufficio resa nell’ambito del procedimento di esecuzione immobiliare nè nel Decreto di Trasferimento reso dal Tribunale Ordinario né nel foglio degli annunzi legali sul quale veniva pubblicizzata la vendita immobiliare né in alcun altro documento relativo alla procedura esecutiva e conseguente vendita all’incanto né, infine, negli ulteriori atti di trasferimento conseguenti all’aggiudicazione.

Con il decreto di trasferimento dell’immobile, peraltro, il Giudice dell’Esecuzione ingiungeva al conduttore dello stesso, ai sensi dell’art. 586 comma II c.p.c., di rilasciare l’immobile nella piena disponibilità delle aggiudicatici.

Notificato atto di precetto per il rilascio alla debitrice esecutata i soggetti acquirenti si immettevano nel possesso dell’immobile solo successivamente.

Evidente, dunque, che nonostante gli effetti reali del decreto di trasferimento si fossero antecedentemente prodotti (deposito del decreto di trasferimento in cancelleria/notifica dello stesso ai soggetti aggiudicatari), gli acquirenti venivano immessi nel possesso solo due mesi più tardi, allorquando si cristallizzavano gli effetti del trasferimento effettivo del decreto attraverso la concreta immissione nel possesso dell’immobile.

Pertanto, immessisi nel possesso ed avuta contezza di ulteriori immobili abusivi e non menzionati agli atti della procedura, gli acquirenti presentavano istanza di condono ai sensi dell’art. 40 comma 6 della Legge 47/85 rispettando, in ogni caso, il termine di 120 giorni dalla data di immissione in possesso dell’immobile ed allegando dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà circa la data di ultimazione delle opere e la prova del versamento della relativa oblazione.

La suddetta istanza veniva rigettata dall’amministrazione comunale per essere stata la stessa presentata dopo il decorso dei 120 giorni dalla data del decreto di trasferimento dell’immobile.

Il provvedimento reiettivo veniva impugnato innanzi al Tribunale Amministrativo di primo grado, il quale – aderendo all’orientamento che ritiene inderogabile e decadenziale il termine di 120 giorni decorrente dalla data di trasferimento dell’immobile – rigettava il ricorso in quanto “l’abuso edilizio costituisce una pacifica fattispecie di illiceità permanente riferita all’immobile, non sanabile né dal tempo né dalla buona fede dell’acquirente, e che la possibilità di procedere alla sua sanatoria in via generale ed astratta, costituisce una palese deroga ai fondamentali principi di legalità, responsabilità e certezza giuridica tipici di ogni moderno Stato di diritto, conseguendone il carattere del tutto eccezionale, e quindi tassativo e non suscettibile di applicazione analogica o estensiva, sia delle norme di c.d. “condono edilizio” approvate dal legislatore pro tempore, e quindi della legge n. 47/1985 e dei termini tassativi da essa posti per le domande di condono per gli abusi preesistenti (salvo ulteriori deroghe di legge), sia, ed a maggior ragione, dell’art. 40, comma 6, norma speciale all’interno di una norma speciale di sanatoria, che pone per la sanatoria uno specialissimo termine “permanente” di 120 giorni da qualsiasi acquisto a seguito di procedure concorsuali o fallimentari” e che, peraltro, “né l’interessata aveva alcun margine di affidamento nel computare il decorso del termine in modi diversi dal chiaro disposto normativo, né il Comune aveva alcun margine istruttorio e discrezionale per poter accogliere l’istanza giunta fuori termini[2].

In altri termini, nella prospettiva del Collegio territoriale, trattandosi di una normativa speciale – derogatoria rispetto ai principi di legalità, responsabilità e di certezza giuridica – la stessa non sarebbe stata suscettibile di una interpretazione estensiva ovvero analogica; di talché, il termine di 120 giorni per la presentazione dell’istanza condonistica sarebbe dovuta irrimediabilmente farsi decorrere dalla data di adozione del decreto trasferimento dell’immobile.

  1. Sulla decorrenza del termine di 120 giorni per la sanatoria ex art. 40 comma VI, Legge n. 47/85

Come chiarito nelle premesse, la questione circa la decorrenza del termine di 120 giorni per la presentazione della sanatoria speciale ex art. 40 comma VI Legge n. 47/85 è stata oggetto, negli ultimi anni, di un acceso dibattito giurisprudenziale che ha dato luogo a non poche incertezze in ambito applicativo.

Si contrapponeva, infatti, l’orientamento giurisprudenziale che individuava il dies a quo nel momento di piena ed effettiva conoscenza del decreto di trasferimento emesso dal giudice dell’esecuzione  da parte dell’assegnatario [3] ovvero nella notifica dello stesso [4] a quello, molto più restrittivo, che lo individuava dalla data di emissione del decreto di trasferimento dell’immobile[5] e dal deposito nella cancelleria del Giudice dell’Esecuzione.

Con la sentenza in commento, invero, i Giudici di Palazzo Spada, pur non mettendo in discussione la perentorietà del termine di 120 giorni, chiariscono che la sua decorrenza non può che raccordarsi “all’ipotesi in cui sia immediatamente e inequivocamente percepibile l’esistenza dell’illecito edilizio…che….deve farsi risalire al momento della consegna dell’immobile” [6].

L’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato dell’art. 40 comma 6 della Legge 47/85, invero, appare l’unica interpretazione conforme a Costituzione e politicamente consapevole, dove, come chiarito in precedenza, la fedeltà al testo non si misura in chiave meramente grammaticale ma proprio in virtù della capacità di dare prosecuzione agli intendimenti voluti dal legislatore nella materia trattata.

E ciò in quanto la normativa urbanistica, a partire dalla Legge 47/85, è stata animata dall’intento di approntare una speciale tutela del credito in caso di espropriazione forzata di un bene abusivo quando il credito fosse sorto prima dell’entrata in vigore di una norma di sanatoria e l’abuso sarebbe potuto essere sanato dal debitore, ma non lo è stato per sua negligenza.

Tale principio risulta sotteso sia all’articolo 40 comma 6 della legge 47/85 che all’articolo 46 comma 5 del T.U. dell’edilizia, approvato con il D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 [7] (ex art. 17 legge 47/85).

Entrambe le disposizioni normative dopo aver sancito la sanzione di nullità degli atti tra vivi, aventi per oggetto diritti reali relativi ad edifici o loro parti se da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del titolo abilitativo o della domanda di sanatoria o della dichiarazione di anteriorità al 1° settembre 1967 [8], stabiliscono un’eccezione, escludendo dalla generale sanzione di nullità (propria dei trasferimenti volontari) l’immobile abusivo, aggiudicato o assegnato “a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali”.

L’articolo 40, ultimo comma, Legge 47/1985, così come l’art. 46 comma 5 del D.P.R. n. 380/2001, nel dare la possibilità all’assegnatario/aggiudicatario di presentare la domanda di condono entro 120 giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile vede risiedere la sua ratio nell’utilità sociale a regolarizzare un immobile abusivo in presenza di determinate condizioni.

Ciò posto, al fine di comprendere appieno l’approdo ermeneutico cui sono giunti i Giudici di Palazzo Spada, va evidenziato che la normativa di riferimento – secondo cui  “nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge” – non distingue tra effetti reali ed effetti possessori/conoscitivi; allorquando il comma 6 dell’art. 40 cit., fa riferimento al semplice trasferimento dell’immobile non può riferirsi alla mera adozione del decreto di trasferimento ovvero alla notifica dello stesso, ma al trasferimento di fatto e di diritto dell’immobile attraverso il conseguimento dell’effetto reale ed all’adempimento degli effetti obbligatori (rectius, ordine di rilascio) intrinseci di tutte le procedure esecutive: in sintesi, all’esito del completamento di una vera e propria fattispecie a formazione progressiva[9] che vede la genesi nell’aggiudicazione dell’immobile ed il suo completamento nel rilascio dello stesso attraverso l’immissione in possesso, così come emerge dalla struttura normativa dell’art. 586 c.p.c.[10]

Alla luce di tanto, è evidente che il termine di 120 giorni inizi a decorrere dal completamento, come detto, di una fattispecie a formazione progressiva[11] ovvero dall’immissione in possesso nell’immobile da parte dell’acquirente contemplata quale effetto naturale del trasferimento della proprietà ai sensi dell’art. 586 comma II c.p.c.

Solo, infatti, all’atto del verificarsi di tutti gli effetti giuridici del trasferimento reale si rendono conoscibili all’acquirente le irregolarità c.d. quiescenti attraverso l’accertamento della consistenza fisica dell’immobile al fine di comparare lo stato di diritto alla stato di fatto e di presentare, dunque, la domanda di condono per la sanatoria dello stesso.

Una diversa interpretazione, invero, contrasterebbe con i principi ispiratori della normativa di riferimento e con quelli di intrasmissibilità della sanzione.

Come noto, infatti, effetto della irregolarità di un immobile è la possibilità di applicazioni delle relative sanzioni.

Il problema, dunque, si pone proprio nelle compravendite immobiliari in termini di trasmissibilità degli effetti pregiudizievoli delle irregolarità urbanistiche a carico dell’acquirente.

Le sanzioni in materia edilizia pur avendo carattere reale, esercitandosi le stesse sul bene, ed apparendo a prima vista intrinsecamente trasmissibili in ragione del loro carattere punitivo[12], non possono essere poste a carico di altri soggetti rimasti estranei alla commissione degli abusi.

Per gli stessi, invero, è opportuno ricordare che la sanzione della nullità degli atti di trasmissione dei beni tende proprio a consentire l’applicazione di tali sanzioni solo ed esclusivamente nei confronti del responsabile dell’abuso che non può evidentemente avvantaggiarsi dall’attività illecita, ovvero contra ius[13].

La rimozione di tale limite legale in senso alle procedure esecutive non potrebbe di certo avere ricadute negative a carico dell’acquirente/aggiudicatario in buona fede.

Sarebbe, invero, sostanzialmente ingiusto che l’acquirente in buona fede fosse assoggettabile a sanzione per abusi commessi sullo stesso dal venditore e destinatario di sanzioni punitive quali, a titolo esemplificativo, ad interventi ripristinatori ovvero di confisca (con la relativa area di sedime) e debba soggiacere a pene per colpe da lui non commesse.

Paradossalmente, tale interpretazione legittimerebbe l’amministrazione ex art. 31 D.P.R. n. 380/2001 a porre in essere tutti gli atti consequenziali, anche l’acquisizione al patrimonio gratuito dell’area di sedime[14] e, dunque, anche di quelle porzioni legittimamente acquistate dall’aggiudicatrio in senso ad una procedura esecutiva[15].

Ed è proprio in virtù di tali finalità che l’impianto normativo di riferimento ha previsto (a titolo di sanzione punitiva) l’intrasmissibilità degli immobili abusivi ovvero, in caso di trasferimento nell’ambito di procedure esecutive, la possibilità dell’acquirente di sanare i relativi abusi proprio in quanto estraneo alla realizzazione degli stessi e di evitare, a titolo esemplificativo, tanto la sanzione della riduzione in pristino (peraltro, posta a suo carico) quanto quella della confisca che mantengono carattere spiccatamente personali e funzionali a punire il responsabile dell’abuso (artt. 27 e 31 del D.P.R. n. 380/2001).

È evidente, dunque, che attraverso la norma in commento il legislatore[16] ha inteso evitare che l’incommerciabilità del bene – connotato, come detto, da un chiaro profilo sanzionatorio personale – si risolva ingiustificatamente in danno del creditore – rectius, acquirente – incolpevole il quale rischierebbe di vedersi applicate sanzioni (in termini ripristinatori, espropriativi e di incommerciabilità) per fatti dallo stesso non compiuti[17] enfatizzando e tutelando, dunque, il principio di certezza dei rapporti di chi abbia acquistato inconsapevolmente un immobile abusivo onde escludere rischi derivanti da procedimenti sanzionatori[18].

In sintesi, la rimozione del limite legale operata dalle disposizioni normative che consentono la trasmissibilità della res abusiva (operando di fatto una scissione tra proprietario e responsabile dell’abuso anche con riferimento al regime applicativo delle sanzioni) giammai potrebbe pregiudicare proprio chi, “ignaro dell’abuso”[19], abbia acquistato un immobile in virtù di tale regime derogatorio di trasferibilità dei beni abusivi.

Una diversa interpretazione, come implicitamente affermato dalla sentenza in commento, insinuerebbe non pochi dubbi di costituzionalità dell’art. 40 della citata legge, per contrasto con gli artt. 3, 42 e 97 della Carta Costituzionale, ponendo a carico dell’acquirente un adempimento il cui assolvimento risulterebbe impossibile nel caso in cui il decreto di trasferimento venisse notificato oltre i centoventi giorni dalla sua formale adozione, senza che all’interessato sia data alcuna possibilità di conoscere altrimenti l’esistenza dell’abuso edilizio.

Peraltro, una interpretazione dell’art. 40 comma 6 Legge 47/85, quale quella fornita dai precedenti giurisprudenziali richiamati, determinerebbe non solo una ingiustificata disparità di trattamento, in ragione di una diversa tutela apprestata dall’ordinamento, a svantaggio di coloro che acquistino in deroga al principio dell’incommerciabilità di beni abusivi ma, massimamente, una ingiustificata, illogica e sproporzionata compressione e limitazione del diritto di proprietà: diritto soggettivo riconosciuto e tutelato nelle forme più ampie dal nostro ordinamento e dalla Costituzione, qualificato come assoluto ed intangibile, e che verrebbe oltremodo compromesso dall’eventuale confisca dei beni con la relativa area di sedime per fatti non imputabili all’aggiudicatario, violando, altresì, i principi di legalità, di personalità della pena (art. 27 Cost.) e delle sanzioni (art. 23 Cost.) che, irragionevolmente, l’acquirente si troverebbe a subire per fatti da lui non commessi.

La vigenza del principio generale di prevalenza dei valori costituzionali imponeva un’interpretazione della norma nei sensi indicati nella sentenza in commento.

Alla luce di tanto, è evidente che laddove la norma di riferimento indica il trasferimento dell’immobile come momento che segna il dies a quo del termine di 120 giorni per la presentazione della domanda di condono di certo non si riferisce all’adozione del decreto da parte del G.E. ma al trasferimento effettivo dell’immobile (reale e possessorio) onde consentire all’acquirente di avere piena conoscenza dell’abuso e di sanare lo stesso, secondo un atteggiamento consapevole, onde evitare di essere assoggettato a sanzioni per fatti da lui non commessi.

  1. Conclusioni

Alla luce della sentenza in commento, dunque, il termine di 120 giorni per la presentazione della speciale sanatoria ex art. 40 Legge n. 47/85 di immobili abusivi aggiudicati o assegnati a seguito di procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali non può che decorrere dalla effettiva conoscenza dell’abuso coincidente con la immissione in possesso nell’immobile oggetto di trasferimento.

[1] Cfr. Dizionario di Diritto Pubblico a cura di Sabino Cassese, Interpretazione di Mario Dogliani, pp. 3179 e ss, Giuffrè Editore, ed. 2006

[2] Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 4 maggio 2011, n. 3851.

[3] Cfr. sul punto Tar Toscana, Firenze, sez. III, 12 giugno 2013, n. 967 secondo cui “la formulazione letterale della norma di cui all’art. 40 ultimo comma è alquanto generica e imprecisa, parlando di 120 giorni dall’atto di trasferimento, lasciando all’interprete la esatta individuazione dell’adempimento della procedura esecutiva cui far specifico riferimento. In assenza di una formale comunicazione della Cancelleria all’acquirente, non pare possibile far coincidere tale dies a quo con fasi, quali l’emissione del decreto di trasferimento da parte del giudice dell’esecuzione o anche il deposito del decreto stesso in Cancelleria, che non sono suscettibili di conoscenza da parte del partecipante all’asta, con il concreto rischio di precludere all’aggiudicatario l’utilizzo di una parte del termine che il legislatore ha messo a suo disposizione per la presentazione della domanda di sanatoria. La norma deve invece essere letta nel senso che il termine inizia a decorrere dal momento in cui l’aggiudicatario sia stato posto concretamente in grado di conoscere il decreto di trasferimento emesso a suo favore”.

[4] Cfr. sul punto Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 29 novembre 2006, n. 13408, secondo cui “il termine di centoventi giorni entro il quale, ai sensi dell’art. 40 l. 28 febbraio 1985 n. 47, l’aggiudicatario di un manufatto abusivo, acquistato a conclusione di procedure esecutive può presentare domanda di sanatoria comincia a decorrere non dalla data di adozione del decreto di trasferimento ma da quella della sua notifica”; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 5 settembre 2003, n. 7339; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 26 luglio 2011, n. 1493; Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 7 dicembre 2006,  n. 10225.

[5] Cfr. Tar Sicilia, Palermo, sez, II, 17 luglio 2013, n. 1505; Tar Sicilia, Catania, 14 giugno 2005, n. 1003 secondo cui “ai sensi dell’art. 40 gli immobili sottoposti ad esecuzione (definizione ampia nella quale rientrano l’esecuzione individuale così come quella concorsuale) possono essere sanati in un termine diverso dalle normali scadenze per le richieste di condono edilizio; tale termine decorre dalla emissione del decreto di trasferimento”.

[6] Conformemente si rinveniva un solo precedente Tar Lazio, Roma, sez. II bis, 1366/2007 secondo cui “la formula normativa (“120 giorni dall’atto di trasferimento”) deve essere interpretata nel senso che il termine decorre dal momento in cui, per effetto del trasferimento, il nuovo proprietario sia stato posto concretamente in grado di prendere conoscenza degli eventuali abusi edilizi da sanare e predisporre la documentazione necessaria

[7] Cfr. art. 46 comma 5 che, con previsione analoga all’art. 40 comma 4 della Legge n. 47/85, stabilisce che “. Le nullità di cui al presente articolo non si applicano agli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali. L’aggiudicatario, qualora l’immobile si trovi nelle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, dovrà presentare domanda di permesso in sanatoria entro centoventi giorni dalla notifica del decreto emesso dalla autorità giudiziaria”.

[8] Cfr. art. 46 comma 1 del D.P.R. n. 380/2001 secondo cui “gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”

[9] Cfr. Cass. Civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23709 secondo cui “in tema di vendita forzata, il trasferimento dell’immobile aggiuntato è l’effetto di una fattispecie complessa, costituita dall’aggiudicataria, dal successivo versamento del prezzo e dal decreto di trasferimento”.

[10] Cfr. Pasquale Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, ed. Giuffrè, 2002, pagg. 607 e ss; Giorgio Stella Richeter e Paolo Stella Richter, La giurisprudenza sul codice di procedura civile, Libro III a cura Giandomenico Magrone, ed. Giuffrè, pag. 586

[11] Cass. Civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23709; Cass. Civ.,, sez. III, 24 gennaio 2007, n. 1498

[12] Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 11 maggio 2011, n. 2781, secondo cui “l’acquirente di un immobile succede nel diritto reale e nelle posizioni soggettive attive e passive che facevano capo al precedente proprietario e che sono inerenti alla cosa, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartito, che precede nel tempo il contratto traslativo, in suo favore, della proprietà”.

[13] Cfr. Gian Carlo Mengoli, Manuale di diritto Urbanistico, VI^ ed., Giuffrè 2009, pagg. 1212 e ss.

[14] Cfr. Giorgio Pagliari, Corso di Diritto Urbanistico, III^ Edizione, Giuffrè 2002, pagg. 491 e ss.

[15] Cfr. Tar Campania, Napoli, sez. II, 7 giugno 2013, n. 3026 secondo cui “Ai sensi dell’art. 31 commi 3 e 4, d.P.R. n. 380 del 2001, l’inottemperanza all’ordine di demolizione di opera edilizia abusiva entro il termine previsto costituisce presupposto e condizione per l’irrogazione della sanzione della gratuita acquisizione al patrimonio comunale della struttura edilizia e il relativo provvedimento, oltre ad essere atto dovuto e consequenziale, privo di contenuti discrezionali, ha carattere meramente dichiarativo in quanto l’acquisizione avviene automaticamente per effetto dell’accertata inottemperanza all’ordine di demolizione”.

[16] Ferma la sussistenza dell’ulteriore presupposto che “le ragioni del credito per cui si interviene o procede”, siano anteriori alla data di entrata in vigore della Legge n. 47/85, nel senso che il titolo che sorregge il trasferimento, a seguito di espropriazione immobiliare, deve essere anteriore alla suddetta legge (cfr. in terminis Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016, n. 3243).

[17] cfr. sul punto Cass. Civ., sez. I, 26 febbraio 2009, n. 4640 secondo cui “mediante la norma in discorso, il legislatore ha inteso evitare che il regime d’incommerciabilità dell’immobile – connotato da un chiaro profilo sanzionatorio – si risolva ingiustificatamente in danno dei creditori incolpevoli”.

[18] cfr. Corte Cost., 10 maggio 2002, ord. n. 174

[19] Cfr. Cass. Civ. sez. III, 04 giugno 2013, n. 14022, secondo cui “il provvedimento di acquisizione del bene illecitamente edificato, e dell’area su cui sorge, al patrimonio del Comune, nell’ipotesi in cui il responsabile dell’abuso non provveda alla demolizione di opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali, ai sensi dell’art. 7 l. 28 febbraio 1985 n. 47 (poi art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), non può determinare il sacrificio di diritti reali di terzi su beni diversi da quello abusivo”

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Sdemanializzazione tacita

Possibilità di una sdemanializzazione tacita dei beni appartenenti al demanio marittimo alla luce dell’art. 35 cod. della navigazione e dei recenti arresti giurisprudenziali

 

La problematica circa la possibilità di una sdemanializzazione tacita dei beni appartenenti al demanio marittimo si pone, in concreto e sempre più di frequente, tutte le volte in cui il bene demaniale marittimo perda, di fatto, la propria attitudine a servire agli usi pubblici del mare e, dunque, quel requisito c.d. oggettivo tale da imprimergli una concreta destinazione ai pubblici usi (cfr. ex plurimis Tar Calabria, Catanzaro, 7 marzo 2003, n. 544; Tar Marche, 9 giungo 2000, n. 898).

Giova premettere che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella civilistica a contenuto generale, da un lato, e quella del codice della navigazione a carattere speciale, dall’altro) hanno alimentato la querelle tra la dottrina e la giurisprudenza in merito alla possibilità di una c.d. sclassificazione tacita di tali beni.

Al riguardo, va premesso che la giurisprudenza ha individuato, quali criteri di identificazione dell’appartenenza di un bene al demanio marittimo, oltre alle caratteristiche fisiche e morfologiche, la sua prossimità al mare, l’idoneità attuale del bene a servire ai pubblici usi del mare; agli usi attinenti alla navigazione ed alla balneazione (Cfr. Cons. Stato, sez. II, 27 gennaio 1993, n. 765), la mancanza di un provvedimento esplicito di sdemanializzazione da parte della pubblica amministrazione o, in egual misura, di comportamenti manifestamente incompatibili con la volontà di mantenere il carattere demaniale del bene medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 1998, n. 287; Cons. Stato,sez. V, 10 febbraio 1998, n. 148).

Il problema, tuttavia, si pone nel caso in cui il bene perda tali requisiti costitutivi e, partitamente, quello della“vicinitas” al mare e l’idoneità funzionale a servire gli usi pubblici.

In termini generali, la giurisprudenza ha chiarito che “la cessazione della demanialità non è altro che l’effetto della perdita dell’attitudine del bene agli usi di pubblico interesse generale che ne avevano determinato l’insorgere, in conseguenza del venir meno in modo definitivo ed irreversibile dei caratteri fisici che assicuravano tale destinazione, sia a causa di eventi naturali sia per volontà della Pubblica amministrazione (volontà che non va intesa come intento diretto a far cessare la destinazione pubblica del bene, bensì come volontà risvolta ad soddisfacimento dei bisogni pubblici” (cfr. T.S.A.P., 11 luglio 1996, n. 67).

Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale, parrebbe evidente che la situazione di fatto riguardante un bene sarebbe concludente al fine di accertare la perdita definitiva delle caratteristiche che ne rendevano riconoscibili l’appartenenza al demanio marittimo statale senza la necessità di un provvedimento di natura costitutiva da parte dell’amministrazione titolare dei diritti dominicali.

Ciò posto, ed alla luce dei principi enucleati dalla giurisprudenza, occorre chiarire se la perdita della c.d. destinazione funzionale del bene agli usi pubblici giustifichi una “sdemanializzazione tacita”, o se, per converso, occorra – per il raggiungimento del fine – un formale provvedimento amministrativo che valga a sottrarre, sotto il profilo formale e sostanziale, il bene dalla categoria del demanio.

Giova, pertanto, muovere dai dati normativi di riferimento.

L’art. 829 cod. civ., al comma 1, prevede che “Il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa. Dell’atto deve essere dato annunzio nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica”.

L’art. 35 del codice della navigazione stabilisce che “le zone demaniali che dal capo di compartimento non siano ritenute utilizzabili per i pubblici usi del mare sono escluse dal demanio marittimo con decreto del ministro per la marina mercantile di concerto con quello per le finanze”.

La formulazione delle norme ha indotto ad interrogarsi sulla natura dell’atto da essi previsto, ovvero se si tratti di atto di natura dichiarativa ovvero di natura costitutiva. Ed ancora, se lo stesso rappresenti manifestazione di un potere tecnico – discrezionale o abbia, per converso, carattere vincolato e dunque meramente ricognitivo del mutamento dello stato di fatto tale da rendere inidoneo il bene ai pubblici usi del mare.

Ma l’analisi va effettuata disgiuntamente in quanto, soprattutto la giurisprudenza compie su questo argomento un distinguo tra la così detta sdemanializzazione relativa ai beni demaniali prevista dall’art. 829 c.c., e la particolare procedura dettata invece per il demanio marittimo dall’art. 35 cod. nav.

L’opinione dominante tende a ritenere che il provvedimento previsto dall’art. 829 c.c. abbia natura dichiarativa (Cass. 20 dicembre 1947, n.1718; Cass. 5 maggio 1951 n.1065; Cass. 18 marzo 1981 n.1603. Contra Cons. Stato, I, 14 ottobre 1952 n.1794), in quanto l’atto in esso previsto“non serve a costituire, modificare od estinguere rapporti, ma solo ad accertare e riconoscere tali avvenimenti” (cfr. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. IV, Milano, 1958, p. 47).

In tali ipotesi, la perdita del requisito della demanialità non dipende da una manifestazione esplicita della amministrazione o da una sua valutazione discrezionale, ma dal dato obiettivo della perdita dei requisiti richiesti, avendo l’atto la sola funzione di garantire la certezza delle situazioni giuridiche (Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, p. 809).

Da ciò discende l’ammissibilità della c.d. sdemanializzazione tacita per i beni appartenenti al demanio statale.

Sul punto valga il richiamo ai più recenti arresti giurisprudenziali secondo cui “in linea generale, la sdemanializzazione di un bene, con la conseguente configurabilità di un possesso del privato ad usucapionem, può verificarsi anche tacitamente, in carenza di un formale atto di declassificazione, purché si sia in presenza di atti e fatti che evidenzino in maniera inequivocabile la volontà della P.A. di sottrarre il bene medesimo a detta destinazione e di rinunciare definitivamente al suo ripristino. Il provvedimento sul passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio, a norma dell’art. 829 cod. civ., ha infatti carattere semplicemente dichiarativo, considerando che la dichiarazione della cessazione di demanialità, quando già sussistono le condizioni di fatto di incompatibilità con la volontà di conservare la destinazione ad uso pubblico, si limita in sostanza a dare atto del passaggio dei beni stessi da uno ad un altro regime”(cfr. ex plurimis Cass. Civ., sez. II, 11 maggio 2009, n. 10817; Cass.Civ., Sez. II, 19 febbraio 2007, n. 3742).

Mentre, dunque, vi è ormai unanimità nell’ammettere la natura dichiarativa dell’atto previsto dall’art. 829 c.c. da cui consegue la possibilità di una sdemanializzazione tacita, la dottrina e la giurisprudenza si dividono in relazione all’atto previsto dall’art. 35 del codice della navigazione in relazione ai beni appartenenti al demanio marittimo.

La Suprema Corte tende ad affermare la natura costitutiva di tale provvedimento, per cui sia con riferimento all’art. 157 del codice della marina mercantile del 1877 sia in relazione all’attuale normativa, “la sdemalializzazione si verifica soltanto in seguito ad un formale provvedimento di carattere costitutivo proveniente dall’autorità amministrativa” (cfr. Cass. Civ., sez. II, 18/10/2016,  n. 21018; Cass., sez. II, 2 marzo 2000, n. 2323; Cass., sez. I, 21 aprile 1999, 3950; Cass., Sez. I, 6 maggio 1980, n. 2995, cit.. Questa posizione è propria di numerose altre decisioni: Cass. 5 agosto 1949, n.2231, in Giur. comp. Cass., 1949, p. 1022 con nota di F. Nunziata, In tema di cassazione della demanialità; Cass. 16 giugno 1969, n. 2146; Cass. 4 maggio 1981, n. 2701; Cass. 5 novembre 1981, n. 5817; Cass. 14 marzo 1985, n.1987, in Foro it. 1985, 2297; Cass. penale, 7 settembre 1983, n. 7384).

La giurisprudenza muove dal tenore letterale dell’art. 35 cod. nav. dal quale sembrerebbe emergere l’intenzione del legislatore di collegare la cessazione della demanialità non a dati oggettivi – ovvero al mutamento dello stato di fatto – ma ad un atto di natura costitutiva esplicito dell’amministrazione titolare del diritto dominicale.

A ben vedere la formula utilizzata nell’art. 829 c.c., che, come detto, conduce gli interpreti a trarre conclusioni opposte, non diverge, nella sostanza, dall’art. 35 cod. nav.:  in parte qua stabilisce che “il passaggio dei beni dal demanio pubblico al patrimonio dello Stato deve essere dichiarato dall’autorità amministrativa”.

Dunque, un confronto letterale tra le norme non giustifica una così radicale differenza di interpretazione.

Non a caso, l’incoerenza di tale conclusione è stata segnalata dalla dottrina più autorevole la quale è ferma nel ritenere che: “nel sistema anzidetto non può essere interpretato come una eccezione l’art. 35 cod. nav.: nel disporre che le zone demaniali ritenute dall’Autorità marittima non utilizzabili per i pubblici usi del mare vengono escluse dal demanio marittimo con decreto ministeriale, l’articolo non può essere inteso nel senso di configurare un provvedimento costitutivo, bensì solo un atto ricognitivo” (A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, cit., 789. Va segnalato che attualmente la dottrina dominante sostiene la natura dichiarativa dell’atto previsto dall’art.35 cod. nav., (cfr. V. Caputi Jambranghi, cit., 11; Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 103 ss.; V. Cerulli Irelli, Beni pubblici, voce del Digesto delle discipline pubblicistiche, II, Torino, 1986, p. 284. Sostiene l’opinione contraria P. Virga, Diritto amministrativo, cit., 390 che qualifica il provvedimento di sdemanializzazione relativo a beni appartenenti al demanio marittimo come atto di carattere costitutivo ma senza fornire una spiegazione)

Ed ancora “stante il criterio dell’appartenenza necessaria adottato dal legislatore, l’atto di sclassificazione non può che essere una constatazione della perdita di una qualità stabilita dalle norme sulla base di certe caratteristiche; la dichiarazione derogativa della certazione non è dunque da intendere come atto formale è solo un atto di revoca-derogazione della certazione. Nei confronti dei terzi esso non è atto necessario, potendo il giudice sempre accertare che il bene ha perduto il carattere di bene pubblico collettivo” (cfr. M.S. Giannini, I beni pubblici, Roma, 1963, 103-104)

Non sarebbe coerente, infatti, alla luce di una corretta interpretazione sistematica, concludere che il provvedimento di delimitazione del demanio emesso ex art 32 cod. nav. abbia natura dichiarativa ed al contrario quello di esclusione di zone dal demanio, quando queste abbiano perso le caratteristiche loro proprie, abbia natura costitutiva (in alcune decisioni anche la Cassazione ha aderito all’orientamento dominante in dottrina, statuendo in ordine a beni appartenenti al demanio marittimol’incontrovertibile carattere dichiarativo del provvedimento – esplicito o implicito – di classificazione o di sclassificazione dei beni” Cass., Sez. unite, 2 maggio 1962, n. 849, in Giur. it., 1962 p. 797; nel senso di ammetter la sdemanializzazione tacita di beni del demanio marittimo anche: Cass. sez. I, sent. 25 novembre 1976, in Rep. Foro it. 1976 voce Porti, spiagge, fari; Cass. sez.1 sent. 5 novembre 1981 n.5817 in Rassegna dell’avv. di Stato, 1982, p.196; Cass. pen., sez. 3, sent. 7 settembre 1983 n.7393).

Per quanto condivisibile la posizione che collega l’estinzione della demanialità sempre alla perdita delle caratteristiche naturali che identificano la porzione immobiliare come spiaggia, arenile ecc., non si può prescindere dall’orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui “la sdemanializzazione delle aree del demanio marittimo…richiede necessariamente un espresso e formale provvedimento dell’autorità amministrativa di carattere costitutivo”(cfr. in terminis Tar Puglia, Lecce, sez. I, 20 luglio 2005, n.4527).

Ed ancora, “per i beni del demanio marittimo, quale la spiaggia, comprensiva dell’arenile, la disciplina in materia di sdemanializzazione è più rigorosa: per tali beni, infatti, la sdemanializzazione non può verificarsi tacitamente, ma richiede, ai sensi dell’art. 35 cod. nav., un espresso e formale provvedimento della competente autorità amministrativa, di carattere costitutivo. Il presupposto della sclassificazione è sempre nella mancata attitudine di determinate zone di spiaggia a servire agli usi pubblici del mare, ma il relativo giudizio è demandato a speciali organi che vi debbono provvedere in base ad una valutazione tecnico-discrezionale dei caratteri naturali di essi, variabili e contingenti secondo le diverse caratteristiche geofisiche e le varie esigenze locali, in relazione alla diversità degli usi”(cfr. Cass. Civ., sez. II, 11 maggio 2009, n. 10817).

Tuttavia, non può essere sottaciuto che, data la posizione oscillante tra la dottrina e la giurisprudenza – orientata, quest’ultima, a negare una c.d. sdemanializzazione tacita dei beni appartenenti al demanio marittimo – laddove sussista il dato obiettivo della perdita delle caratteristiche funzionali del bene, e cioè della concreta attitudine dello stesso ad essere destinato agli usi pubblici del mare, il giudizio dell’amministrazione statale in merito al procedimento di sdemanializzazione sarebbe svuotato di contenuti tecnico-discrezionali.

In tali ipotesi, fermo restando la necessità di esplicito provvedimento di sdemanializzazione dei beni ex art. 35 cod. nav., il provvedimento di sclassificazione avrebbe natura meramente ricognitiva di una situazione di fatto non suscettibile di diversa valutazione da parte della P.A. non essendo esclusa la sussistenza in capo al privato di richiedere, in via giudiziale, la sdemanializzazione del bene (sulla possibilità di un accertamento giudiziale della perdita della demanialità a prescindere da un atto amministrativo cfr. Cerulli Irelli, Beni pubblici, cit., pag. 284 e ss.)

Alessandro Barbieri, classe 1977, si è laureato in giurisprudenza nel 2002 presso l’Università Federico II di Napoli.

Nel 2008, ha conseguito il diploma di Specializzazione in “Amministrazione e finanza degli Enti Locali” presso l’Università Federico II di Napoli e nel 2012, presso lo stesso Ateneo, il diploma di Specializzazione in “Diritto dell’Unione Europea: la tutela dei diritti”.  Seconda generazione dello Studio Legale Barbieri, si è formato professionalmente presso lo Studio Legale Associato Prof. Avv. Felice Laudadio – Avv. Ferdinando Scotto.

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Centrale Rischi della Banca d’Italia: cos’è e come funziona?

Il Cliente ha diritto ad ottenere il risarcimento dei danni per l’illegittima segnalazione “a sofferenza” effettuata dall’Intermediario Bancario.

 

La Centrale Rischi della Banca d’Italia è un sistema informativo strutturato che raccoglie e fornisce informazioni sull’indebitamento della Clientela degli Istituti Bancari ed ha lo scopo di migliorare la qualità degli impieghi e favorire la stabilità del sistema creditizio nel suo complesso.

Attraverso la Centrale Rischi gli Intermediari ottengono informazioni utili per la valutazione del merito creditizio della Clientela ed, in genere, per la gestione e l’analisi del rischio del Credito, rappresentati da un flusso di dati statistici complessivi sul mercato del Credito.

Gli Intermediari segnalanti, tenuti alla diligenza qualificata del cd. “accorto banchiere”, devono garantire l’esattezza dei dati segnalati ed, in particolare, l’aggiornamento e la veridicità degli stessi, in quanto sono gli unici depositari delle informazioni che generano le segnalazioni che, in caso di errore, devono essere corrette.

Tra le informazioni fornite dagli Intermediari merita, particolare, attenzione la segnalazione “a sofferenza”, dal momento che rappresenta un alert circa la condizione di “insolvenza” del Cliente e, quindi, consente agli Intermediari di effettuare valutazioni prudenziali circa l’opportunità di concedere ulteriore Credito o di mantenere in essere affidamenti in precedenza concessi.

Appare, pertanto, evidente l’estrema rilevanza per l’accesso al Credito Bancario per la Clientela di tale informazione, dal momento che una segnalazione “a sofferenza” effettuata da un Intermediario può precludere al Cliente l’erogazione di nuovo Credito o, addirittura, determinare la revoca di affidamenti già in corso con altri Intermediari.

Proprio per la rilevanza di tale informazione la Circolare della Banca d’Italia n. 139/1991, al capitolo II, sezione 2, paragrafo 1.5, rubrica “Sofferenze”, dal 4.3.2010, prevede per l’Intermediario segnalante l’obbligo di inviare una preventiva informazione scritta al Cliente, che deve contenere una motivazione dettagliata e specifica circa le valutazioni effettuate dall’Intermediario in ordine allo stato patrimoniale del Cliente, in modo da consentire allo stesso di essere a conoscenza delle ragioni sottese alla valutazione effettuata dall’Intermediario e, nel caso, di formulare altrettante specifiche e dettagliate contestazioni.

Nell’ipotesi in cui la valutazione effettuata dall’Intermediario non dovesse essere corretta appare possibile configurare una responsabilità in capo all’Intermediario sia di natura contrattuale, per la violazione dei canoni di correttezza e buona fede, che devono essere intesi come fonte di integrazione del contratto intercorso tra le parti, richiesti nello svolgimento di ogni rapporto obbligatorio secondo le norme generali ex artt. 1374 e 1375 c.c. sia di natura extracontrattuale, per la violazione di diritti dell’oggetto leso (Tribunale di Verona 27.4.2014).

La Giurisprudenza ritiene che si possa proporre cumulativamente sia l’azione contrattuale sia quella extracontrattuale essendo, tra l’altro, possibile anche configurare, per un medesimo caso concreto, il concorso tra titoli di responsabilità (Cassazione Civile, Sezione I, 21.6.1999, n. 6233).

Va, inoltre, considerato che l’illegittima segnalazione “a sofferenza da parte dell’Intermediario può generare per il Cliente segnalato un danno di natura patrimoniale, rappresentato dalle conseguenze negative di carattere economiche connesse alla segnalazione ed, in particolare, connesse ad eventuali revoche di affidamenti in essere presso altri Intermediari o per la mancata erogazione di ulteriore Credito.

Nel contempo, l’illegittima segnalazione “a sofferenza può generare un danno di natura non patrimoniale, rappresentato dalla lesione all’immagine e, nel caso di soggetti imprenditori, alla reputazione commerciale.

Merita, infine, adeguata considerazione la determinazione del danno occorso al Cliente nel caso di erronea, o meglio, illegittima segnalazione “a sofferenza” effettuata presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia, considerato che può risultare difficoltoso, per il danneggiato, fornire specifica e dettagliata prova dell’entità del danno subito.

In proposito è bene evidenziare che gli artt. 1256 e 2056 c.c. consentono, espressamente, di determinare equitativamente l’entità del risarcimento del danno nel caso in cui risulti impossibile o, comunque, estremamente difficoltoso fornire la prova dell’entità del pregiudizio sofferto dal danneggiato, sempre a condizione che risulti certa l’esistenza del pregiudizio sofferto (Cass. n. 8421/2011).

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Il diritto del Cliente ad ottenere copia della documentazione bancaria

Necessario per intraprendere un’azione legale efficace nei confronti di un Istituto di Credito è disporre della documentazione contrattuale e contabile del rapporto bancario.

 

Il Cliente ha diritto ad ottenere copia della documentazione sia contrattuale che contabile del rapporto intercorso con l’Istituto Bancario, considerato che l’esame della documentazione appare indispensabile per verificare il corretto svolgimento del rapporto obbligatorio intercorso tra le parti.

Va, in proposito, considerato che l’art. 119 Testo Unico Bancario prevede uno specifico obbligo, per gli Intermediari, di fornire copia della documentazione inerente alle “singole operazioni” poste in essere dal Cliente, nel limite temporale fissato in anni dieci.

La norma speciale richiamata prevede, espressamente, che l’Intermediario è tenuto a fornire la documentazione richiesta dal Cliente entro un congruo termine e, comunque, non oltre i novanta giorni dalla richiesta, con l’addebito, a carico del richiedente, dei soli costi di riproduzione della documentazione.

Il tenore letterale dell’art. 119 T.U.B. ed, in particolare, i riferimenti testuali alle “comunicazioni periodiche” ed alle “singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni” consentono di ritenere applicabile la predetta norma speciale, esclusivamente, alla documentazione contabile e non già alla copia dei contratti intercorsi tra le parti.

In realtà il diritto di ricevere copia dei contratti sottoscritti tra le parti è un diritto più ampio di quello previsto dalla norma speciale innanzi richiamata, riferibile ad entrambe le parti del rapporto, ed è riconducibile al dovere generale delle parti di un rapporto obbligatorio, ex art. 1175 c.c., di agire secondo le regole della correttezza, facendo applicazione del principio della “buona fede”, ex art 1375 c.c.. (Cass. n. 12093/2001; Cass. n. 11004/2006).

In ogni caso l’art. 117 T.U.B. prevede a carico dell’Intermediario l’obbligo della consegna alla Clientela di un esemplare del contratto sottoscritto, il che configura il diritto del Cliente ad ottenere una copia sia al momento della sottoscrizione sia successivamente, nel caso in cui la documentazione sia andata smarrita.

E’ bene precisare che tale diritto, che come abbiamo visto, esula dalla disposizione speciale dell’art. 119 T.U.B., non soggiace alla limitazione temporale prevista dalla predetta disposizione ovvero al limite decennale (Corte di Appello di Milano, n. 1796/2012) e permane anche dopo lo scioglimento del rapporto tra le parti, con l’unica limitazione della prescrizione decennale dalla data di estinzione del rapporto (ex art. 2946 c.c.).

Si può, pertanto, affermare che il diritto del Cliente ad ottenere una copia del contratto intercorso con l’Istituto Bancario è un diritto sostanziale autonomo la cui tutela è riconosciuta come situazione giuridica finale e non strumentale, con la conseguente irrilevanza, ai fini della configurabilità dello stesso, dell’utilizzazione che se ne intende fare della documentazione richiesta (Tribunale Monza, n. 95/2016) o della ragione per la quale non si dispone di una copia della stessa.

A tanto consegue che l’Istituto Bancario che non provveda a consegnare la copia del contratto, così come la copia documentazione contabile, ex art. 119 T.U.B., incorre in un inadempimento contrattuale ed in una responsabilità contrattuale che legittima il Cliente a richiedere il risarcimento danni, subordinato alla prova della sussistenza del danno ed alla sua quantificazione.

E’ il caso di evidenziare che, in caso di assenza di un contratto scritto, l’art. 117, I comma, T.U.B. prevede la sanzione tipica della nullità, con la conseguente applicazione, specie per la determinazione degli interessi passivi, della disciplina legale ex art. 1284 c.c.; tale ipotesi è, invece, diversa ed autonoma da quella disciplinata dall’art. 117, IV comma, T.U.B. ovvero della mancata indicazione, in un contratto scritto, del tasso d’interesse e delle condizioni praticate, che determina l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 117, VII comma, T.U.B.  ovvero, per la determinazione degli interessi passivi, l’applicazione dei cd. tassi sostitutivi B.O.T.. (Sentenza Trib. Parma, 23.3.2010, n. 427).

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Adozione mite

Abbandono del minore: continuità affettiva e adozione mite

 

L’abbandono

Non esiste una “classificazione” di comportamenti che ex se conducono alla pronuncia di abbandono, piuttosto soccorre la valutazione globale del benessere del minore all’attualita’ e come proiezione futura .

Azioni commissive quindi ma anche omissioni, il mancare cioe’ di un progetto educativo e formativo che protegga il minore nel suo intero percorso di crescita e inserimento, l’esporre con il proprio comportamento il minore ad un grave pericolo di compromissione per la salute e le possibilita’ del suo armonico sviluppo fisico e psichico (Cassazione n.21100/28-10-05). L’indicazione normativa e’ per concorde dottrina elastica nel senso che deve necessariamente tener conto delle condizioni sociali ed ambientali del contesto di appartenenza, parametrate pero’ ai livelli “esterni” e storici.

Si afferma quindi il diritto ad un livello minimo di prestazioni genitoriali al di sotto del quale non vi sarebbe una mera inadeguatezza al ruolo parentale ma un autentico abbandono. Nella disamina dei doveri genitoriali si deve quindi tener conto dell’appartenenza generalizzata alla cultura ..non rilevando come giustificazione ad una collocazione al di sotto della soglia minima le problematiche o le insufficienze di base. Il minore nella sua famiglia ben collocato nella societa’ secondo il principio fondamentale dell’inclusione  sociale. Pronunce e atteggiamenti di tolleranza sociale nell’ambito del rispetto dell’alterita’ possono riguardare solo le minoranze etniche e culturali presenti sul territorio.

Un nucleo disagiato ha opportunita’ diverse di superare il proprio disagio a seconda degli strumenti che lo stato sociale nell’accezione solidaristica e di cooperazione mette a disposizione.

Cosi’ come e’ fluttuante e liquida quindi  la definizione dell’abbandono del minore altrettanto lo e’ quella di disagio della famiglia e della possibilita’/impossibilita’ a superarlo.

Resta sullo sfondo la valutazione dell’interesse del minore che prescinde dall’accertamento di una presunta colpa della famiglia configurandosi l’allontanamento ed il collocamento etero familiare come strumento di tutela e non gia’ punizione verso i genitori giustificato dalla mancanza di cure  materiali di aiuto psicologico e morale indispensabile per la formazione e lo sviluppo della personalita’ anche a prescindere quindi da una precisa volonta’ abbandonica.

L’inconsapevole condotta genitoriale e’ particolarmente significativa e spiega come la sig.ra (x), ad es.,  come altre protagoniste di una frangia estrema del tessuto sociale, ha , con le diverse gravidanze, piu’ volte ripercorso la possibilita’ di costituire una famiglia l’unica che e’ nel proprio schema genetico e che sicuramente non corrisponde alla famiglia degli affetti ampiamente intesa.

L’idoneita’ genitoriale si misura sostanzialmente nella capacita’anche e soprattutto di mantenere, educare e istruire i figli in maniera adeguata ad una sana crescita.

Sicuramente il giudice minorile deve tener conto del vissuto della famiglia di origine e sullo stesso lavorare di concerto con i servizi sociali ma lo scopo finale e’ quello di far vivere il minore in un ambiente idoneo come misura protettiva. Il sostegno alle famiglie, i provvedimenti in materia di responsabilita’ genitoriale e gli altri rimedi apprestati dall’ordinamento per l’ipotesi di inadempimento dei doveri genitoriali sono tutte le misure che devono essere tentate ma solo quando, come sottolinea Manera, con “sano realismo” il recupero della famiglia biologica appare probabile senza permettere che questo tempo comporti un ulteriore sofferenza per il minore e la perdita di possibilita’ di inserimento in nuclei diversi anche se adottivi.

Il percorso giurisprudenziale in questi anni ha inteso proteggere come posizioni di partenza parallele e non necessariamente convergenti l’interesse del minore ed il diritto dello stesso a vivere nella propria famiglia di origine.

Non a caso nella nuova formulazione della L.149/01 si parla di diritto del minore ad una famiglia.

Gli interventi di sostegno, cosi’ come le prescrizioni di percorsi personalizzati tendenti a costruire una genitorialita’ responsabile hanno comunque come scopo l’interesse di vedere collocato il minore in maniera adeguata alla propria crescita, il doppio binario dell’affidamento etero familiare e del lavoro sulle famiglie di origine tende ad evitare il verificarsi di ulteriori pregiudizi

Lo svantaggio di base di un nucleo familiare all’attenzione del giudice minorile per ipotesi di abbandono non puo’ pregiudicare un risultato.

La Cassazione ha ribadito piu’ volte la necessita’ che la vita offerta dalla famiglia di origine non sia inferiore alla soglia del minimo indispensabile per non compromettere in maniera grave e permanente la crescita del minore (29/4/98 n.4363); cosi’ come ha letto una presunzione di abbandono nella totale inidoneita’ educativa del genitore (24/10/95 n.11054)

Le famiglie che non recuperano un obiettivo minimo da considerarsi integrati costituiscono quella zona grigia in cui con coraggio alcuni tribunali hanno sperimentato l’adozione mite.

Il semiabbandono permanente quale presupposto di fatto e di diritto viene individuato in tutti quei casi in cui attraverso la valutazione negativa del percorso di sostegno anche a mezzo CTU si evidenzia una incapacita’ senza ragionevole previsione di recupero e/o di superamento di rispondere ai bisogni educativi del figlio pur avendo con lo stesso un rapporto affettivo significativo e che non e’ opportuno cancellare.

Si parla di famiglie inidonee in modo continuativo anche se parziale. Quel che rileva in questa valutazione al di la’ dei fatti specifici che hanno movimentato l’azione e’ la capacita’ di superamento.

L’adozione mite si perfeziona come una forma di adozione i casi particolari ex art. 44 l: 184/1983 in capo agli stessi affidatari cui il minore e’ legato da un rapporto affettivo solido al punto che un allontanamento determinerebbe per lui un serio pregiudizio.

Cio’ accade quando il genitore biologico non ha recuperato, pur desiderandolo, un minimo di attendibilita’.

E’ emblematico infatti di queste situazioni il consenso espresso da minori anche infradodicenni e che si trovano al centro tra queste due mamme e i mondi che rappresentano: il benessere di cui l’una e’ portatrice e la problematicita’ dell’altra. Il minore non esita perche’ nell’accudimento, nelle “cose” riconosce l’affetto.

Si salva, mantenendo intatto il legame affettivo e la possibilita’ di incontro.

Il periodo di affidamento che nell’ipotesi del legislatore era un lavoriamo insieme in realta’ e’ un tempo, uno spazio che viene offerto anche a piene mani per un arduo tentativo di reinserimento. Soprattutto perche’ qualsiasi siano le previsioni anche sulla base di dati esperenziali  sulle capacita’ genitoriali non si puo’ pronunciare l’adottabilita’  se non viene attuato un piano di sussidarieta’ e cooperazione. In questa senso Cass.ne con sentenza n. 11019 del 12.5.06    ha precisato che la situazione di abbandono deve essere accertata in concreto sulla base di riscontri obiettivi non potendo la verifica dello stato di abbandono del minore essere rimessa ad una valutazione astratta compiuta ex ante alla stregua di un giudizio prognostico fondato su indizi privi di valenza assoluta.

Ma la ritrovata disponibilita’ di assistere e curare il minore da parte della famiglia di origine non serve ad interrompere significativamente la condotta abbandonica se non e’ l’espressione costante e monitorata di un profondo ravvedimento – Cass.ne 7/11/83 n.6563

L’adozione mite risponde quindi all’esigenza di assicurare un contesto di cura a minori i cui genitori non possono essere dichiarati decaduti stante il forte legame affettivo.

Il minore pero’ mantiene i rapporti con la famiglia di origine cosi’ come mantiene i doveri ex art. 300c.c.

La normativa sull’affido condiviso e l’introduzione del 709 ter hanno in qualche modo scardinato questa “zona grigia” evidenziando una inadeguatezza nelle scarse visite del genitore non affidatario, nell’insufficiente apporto economico, nel disinteresse verso le aspirazioni e le individualita’.

Le ipotesi di sanzione e/o ammonimento delineano infatti le mancanze significative per l’ordinamento riconducibili, nel loro reiterarsi, nella mancata attuazione di un progetto riparativo, ai provvedimenti limitativi e/o ablativi.

La legge sulla continuità affettiva ha sancito ancor più la tutela del legame affettivo che nasce proprio dalla capacita’ di accogliere un minore in difficoltà e di offrirgli, all’interno di un contesto familiare ed empatico, un contesto che funziona, possibilità di crescita sana ed equilibrata.

Allora ci si chiede se possa avere ancora un senso il vincolo di sangue, l’appartenenza, l’affettivita’, un legame scevro dalla cura o se viceversa la sua mancanza non e’ un codice un elemento di un rito di passaggio ad una condizione diversamente inaccessibile quale quella dell’adozione.

Nata a Napoli il 24/08/55 si e’ laureata in giurisprudenza nel 1982, presso l’Universita’ di Napoli,  discutendo una tesi finale sperimentale sull’imputabilita’ dei tossicodipendenti alla luce della L. basaglia.
Segue il corso biennale del CRF di animatore di comunita’ psichiatrica discutendo la tesi finale Il nuovo concetto di salute mentale.
Segue master Psicologia della comunicazione
Segue il corso seminariale biennale Mediazione familiare, conflittualita’ di coppia e responsabilita’ genitoriale presso l’Universita’ degli Studi di Napoli, discutendo la tesi finale La mediazione familiare, storia e modalita’ di approccio (2003)
Segue il master in diritto di famiglia presso il CEIDA in Roma e discute la tesi finale La genitorialita’ giuridica e le liberta’ fondamentali(2005).

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Crediti con privilegio: retribuzioni dei professionisti

Un importante riconoscimento per le retribuzioni dei professionisti nel delicato ambito dei privilegi: prime conseguenze nelle ammissioni al passivo fallimentare

 

La legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018), entrata in vigore l’ 1 gennaio 2018, ha introdotto una rilevante novità di grande interesse per tutti i professionisti (e per ogni prestatore d’opera intellettuale).

Il comma 474 dell’art.1 apporta la seguente integrazione al sistema dei privilegi generali: all’articolo 2751-bis, numero 2), codice civile, dopo le parole: ”le retribuzioni dei professionisti” è inserito “compresi il contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza e il credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto “.

Di conseguenza il predetto art. 2751bis c.c. assume la seguente nuova dicitura:

Hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti:

2) le retribuzioni dei professionisti e di ogni altro prestatore d’opera dovute per gli ultimi due anni di prestazione, compresi il contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza e il credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto”.

L’attribuzione per legge del grado privilegiato è per due valori strettamente concernenti le retribuzioni dei professionisti e precisamente:

– il contributo da versarsi alle Casse di previdenza e assistenza;

– il credito di rivalsa dell’IVA.

Sino al 2017 c’era una illegittima sperequazione tra liberi professionisti addirittura era per legge riconosciuto il privilegio per i contributi alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti (art.11 L. 29 gennaio 1986, n. 21 “La maggiorazione è ripetibile nei confronti di quest’ultimo e il relativo credito è assistito da privilegio di grado pari a quello del credito per prestazioni professionali”), norma assente ad esempio nella legge sulla Cassa nazionale a favore degli Avvocati (L. 576/1980).

La Suprema Corte in materia fallimentare ha più volte preferito dare maggiore pregnanza al principio della tassatività per i privilegi rispetto all’evidente violazione dei principi di pari trattamento e di eguaglianza (cfr. Cass. 3 luglio 2015 n.13771 secondo la quale ai fini dell’ammissione al passivo del fallimento i crediti del professionista per il rimborso del contributo integrativo da versarsi alla Cassa di previdenza  – al pari di quelli per rivalsa I.V.A. – hanno una collocazione diversa da quella spettante al credito per le corrispettive prestazioni professionali, atteso che essi non costituiscono semplici accessori di quest’ultimo, ma conservano una loro distinta individualità. Il contributo integrativo di cui all’art. 11 della L. 576/1980 non costituisce retribuzione, di talché non è allo stesso applicabile il disposto di cui all’art. 2751-bis, n. 2, c.c.).

Finalmente è stato raggiunto il tanto atteso riconoscimento che equipara tutti i professionisti e tutele le loro retribuzioni anche nei casi in cui svolgono funzione quali Organi di procedure concorsuali e nelle fasi di ammissione al passivo per i crediti professionali da azionare nelle dette procedure.

Di grandissimo rilievo è soprattutto l’attribuzione del privilegio generale professionale al credito per rivalsa Iva del professionista, stante i discutibili indirizzi giurisprudenziali in cui si escludeva la natura prededucibile a volte consentendo soltanto il privilegio speciale di cui all’art. 2758, co. 2 c.c., con tutte le conseguenza in ordine alla mancanza dei beni gravati. Interpretazioni sul piano economico comportava notevolissimi pregiudizi ai professionisti che si vedevano ridotti i pagamenti perché le detrazioni dell’IVA sull’imponibile ammesso, con l’indicibile conseguenza   di arrecare un ingiustificato arricchimento alla massa fallimentare.

Ora il curatore fallimentare è tenuto a pagare il credito per prestazioni con il contestuale pagamento anche dell’Iva (e ciò indipendentemente dall’esistenza del bene gravato, visto che la riforma ha sancito il privilegio generale, facendolo assurgere al livello di quello professionale).

Avv. Giuseppe Sparano, nato a Napoli il 18.2.1965
Laureato nel 1987 con lode, presso l’Università Federico II di Napoli
Iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 22.2.1991 -patrocinio presso le Corte Superiori.
Dottore di ricerca in Diritto delle Imprese in crisi –  Università Federico II di Napoli
Docente di Diritto Commerciale corso in “Diritto dei contratti d’impresa” nelle Scuole di Specializzazione delle Professioni Università Federico II di Napoli e Università Vanvitelli (già  Seconda Università di Napoli).
Presidente dei Collegio dei probiviri della Camera degli Avvocati Civili di Napoli (già segretario e tesoriere).

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