Il diritto del Cliente ad ottenere copia della documentazione bancaria

Necessario per intraprendere un’azione legale efficace nei confronti di un Istituto di Credito è disporre della documentazione contrattuale e contabile del rapporto bancario.

 

Il Cliente ha diritto ad ottenere copia della documentazione sia contrattuale che contabile del rapporto intercorso con l’Istituto Bancario, considerato che l’esame della documentazione appare indispensabile per verificare il corretto svolgimento del rapporto obbligatorio intercorso tra le parti.

Va, in proposito, considerato che l’art. 119 Testo Unico Bancario prevede uno specifico obbligo, per gli Intermediari, di fornire copia della documentazione inerente alle “singole operazioni” poste in essere dal Cliente, nel limite temporale fissato in anni dieci.

La norma speciale richiamata prevede, espressamente, che l’Intermediario è tenuto a fornire la documentazione richiesta dal Cliente entro un congruo termine e, comunque, non oltre i novanta giorni dalla richiesta, con l’addebito, a carico del richiedente, dei soli costi di riproduzione della documentazione.

Il tenore letterale dell’art. 119 T.U.B. ed, in particolare, i riferimenti testuali alle “comunicazioni periodiche” ed alle “singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni” consentono di ritenere applicabile la predetta norma speciale, esclusivamente, alla documentazione contabile e non già alla copia dei contratti intercorsi tra le parti.

In realtà il diritto di ricevere copia dei contratti sottoscritti tra le parti è un diritto più ampio di quello previsto dalla norma speciale innanzi richiamata, riferibile ad entrambe le parti del rapporto, ed è riconducibile al dovere generale delle parti di un rapporto obbligatorio, ex art. 1175 c.c., di agire secondo le regole della correttezza, facendo applicazione del principio della “buona fede”, ex art 1375 c.c.. (Cass. n. 12093/2001; Cass. n. 11004/2006).

In ogni caso l’art. 117 T.U.B. prevede a carico dell’Intermediario l’obbligo della consegna alla Clientela di un esemplare del contratto sottoscritto, il che configura il diritto del Cliente ad ottenere una copia sia al momento della sottoscrizione sia successivamente, nel caso in cui la documentazione sia andata smarrita.

E’ bene precisare che tale diritto, che come abbiamo visto, esula dalla disposizione speciale dell’art. 119 T.U.B., non soggiace alla limitazione temporale prevista dalla predetta disposizione ovvero al limite decennale (Corte di Appello di Milano, n. 1796/2012) e permane anche dopo lo scioglimento del rapporto tra le parti, con l’unica limitazione della prescrizione decennale dalla data di estinzione del rapporto (ex art. 2946 c.c.).

Si può, pertanto, affermare che il diritto del Cliente ad ottenere una copia del contratto intercorso con l’Istituto Bancario è un diritto sostanziale autonomo la cui tutela è riconosciuta come situazione giuridica finale e non strumentale, con la conseguente irrilevanza, ai fini della configurabilità dello stesso, dell’utilizzazione che se ne intende fare della documentazione richiesta (Tribunale Monza, n. 95/2016) o della ragione per la quale non si dispone di una copia della stessa.

A tanto consegue che l’Istituto Bancario che non provveda a consegnare la copia del contratto, così come la copia documentazione contabile, ex art. 119 T.U.B., incorre in un inadempimento contrattuale ed in una responsabilità contrattuale che legittima il Cliente a richiedere il risarcimento danni, subordinato alla prova della sussistenza del danno ed alla sua quantificazione.

E’ il caso di evidenziare che, in caso di assenza di un contratto scritto, l’art. 117, I comma, T.U.B. prevede la sanzione tipica della nullità, con la conseguente applicazione, specie per la determinazione degli interessi passivi, della disciplina legale ex art. 1284 c.c.; tale ipotesi è, invece, diversa ed autonoma da quella disciplinata dall’art. 117, IV comma, T.U.B. ovvero della mancata indicazione, in un contratto scritto, del tasso d’interesse e delle condizioni praticate, che determina l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 117, VII comma, T.U.B.  ovvero, per la determinazione degli interessi passivi, l’applicazione dei cd. tassi sostitutivi B.O.T.. (Sentenza Trib. Parma, 23.3.2010, n. 427).

Francesco Mazzella si è laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli ed ha svolto il tirocinio professionale in Napoli, presso lo studio legale ‘Ernesto e Francesco Procaccini’.
Abilitato al patrocinio presso le Magistrature Superiori, esercita l’attività professionale occupandosi, tra l’altro, del contenzioso civile, con attività prevalente nel settore bancario e finanziario ed intrattenendo diverse collaborazioni professionali.
Nel 2016 si è abilitato come Gestore della Crisi da Sovraindebitamento.
Dall’aprile del 2017 è stato eletto Presidente della Confprofessioni Campania, partecipa ai lavori del Partenariato Regionale Economico e Sociale della Regione Campania e dell’Osservatorio del Mercato del Lavoro presso Regione Campania.

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Adozione mite

Abbandono del minore: continuità affettiva e adozione mite

 

L’abbandono

Non esiste una “classificazione” di comportamenti che ex se conducono alla pronuncia di abbandono, piuttosto soccorre la valutazione globale del benessere del minore all’attualita’ e come proiezione futura .

Azioni commissive quindi ma anche omissioni, il mancare cioe’ di un progetto educativo e formativo che protegga il minore nel suo intero percorso di crescita e inserimento, l’esporre con il proprio comportamento il minore ad un grave pericolo di compromissione per la salute e le possibilita’ del suo armonico sviluppo fisico e psichico (Cassazione n.21100/28-10-05). L’indicazione normativa e’ per concorde dottrina elastica nel senso che deve necessariamente tener conto delle condizioni sociali ed ambientali del contesto di appartenenza, parametrate pero’ ai livelli “esterni” e storici.

Si afferma quindi il diritto ad un livello minimo di prestazioni genitoriali al di sotto del quale non vi sarebbe una mera inadeguatezza al ruolo parentale ma un autentico abbandono. Nella disamina dei doveri genitoriali si deve quindi tener conto dell’appartenenza generalizzata alla cultura ..non rilevando come giustificazione ad una collocazione al di sotto della soglia minima le problematiche o le insufficienze di base. Il minore nella sua famiglia ben collocato nella societa’ secondo il principio fondamentale dell’inclusione  sociale. Pronunce e atteggiamenti di tolleranza sociale nell’ambito del rispetto dell’alterita’ possono riguardare solo le minoranze etniche e culturali presenti sul territorio.

Un nucleo disagiato ha opportunita’ diverse di superare il proprio disagio a seconda degli strumenti che lo stato sociale nell’accezione solidaristica e di cooperazione mette a disposizione.

Cosi’ come e’ fluttuante e liquida quindi  la definizione dell’abbandono del minore altrettanto lo e’ quella di disagio della famiglia e della possibilita’/impossibilita’ a superarlo.

Resta sullo sfondo la valutazione dell’interesse del minore che prescinde dall’accertamento di una presunta colpa della famiglia configurandosi l’allontanamento ed il collocamento etero familiare come strumento di tutela e non gia’ punizione verso i genitori giustificato dalla mancanza di cure  materiali di aiuto psicologico e morale indispensabile per la formazione e lo sviluppo della personalita’ anche a prescindere quindi da una precisa volonta’ abbandonica.

L’inconsapevole condotta genitoriale e’ particolarmente significativa e spiega come la sig.ra (x), ad es.,  come altre protagoniste di una frangia estrema del tessuto sociale, ha , con le diverse gravidanze, piu’ volte ripercorso la possibilita’ di costituire una famiglia l’unica che e’ nel proprio schema genetico e che sicuramente non corrisponde alla famiglia degli affetti ampiamente intesa.

L’idoneita’ genitoriale si misura sostanzialmente nella capacita’anche e soprattutto di mantenere, educare e istruire i figli in maniera adeguata ad una sana crescita.

Sicuramente il giudice minorile deve tener conto del vissuto della famiglia di origine e sullo stesso lavorare di concerto con i servizi sociali ma lo scopo finale e’ quello di far vivere il minore in un ambiente idoneo come misura protettiva. Il sostegno alle famiglie, i provvedimenti in materia di responsabilita’ genitoriale e gli altri rimedi apprestati dall’ordinamento per l’ipotesi di inadempimento dei doveri genitoriali sono tutte le misure che devono essere tentate ma solo quando, come sottolinea Manera, con “sano realismo” il recupero della famiglia biologica appare probabile senza permettere che questo tempo comporti un ulteriore sofferenza per il minore e la perdita di possibilita’ di inserimento in nuclei diversi anche se adottivi.

Il percorso giurisprudenziale in questi anni ha inteso proteggere come posizioni di partenza parallele e non necessariamente convergenti l’interesse del minore ed il diritto dello stesso a vivere nella propria famiglia di origine.

Non a caso nella nuova formulazione della L.149/01 si parla di diritto del minore ad una famiglia.

Gli interventi di sostegno, cosi’ come le prescrizioni di percorsi personalizzati tendenti a costruire una genitorialita’ responsabile hanno comunque come scopo l’interesse di vedere collocato il minore in maniera adeguata alla propria crescita, il doppio binario dell’affidamento etero familiare e del lavoro sulle famiglie di origine tende ad evitare il verificarsi di ulteriori pregiudizi

Lo svantaggio di base di un nucleo familiare all’attenzione del giudice minorile per ipotesi di abbandono non puo’ pregiudicare un risultato.

La Cassazione ha ribadito piu’ volte la necessita’ che la vita offerta dalla famiglia di origine non sia inferiore alla soglia del minimo indispensabile per non compromettere in maniera grave e permanente la crescita del minore (29/4/98 n.4363); cosi’ come ha letto una presunzione di abbandono nella totale inidoneita’ educativa del genitore (24/10/95 n.11054)

Le famiglie che non recuperano un obiettivo minimo da considerarsi integrati costituiscono quella zona grigia in cui con coraggio alcuni tribunali hanno sperimentato l’adozione mite.

Il semiabbandono permanente quale presupposto di fatto e di diritto viene individuato in tutti quei casi in cui attraverso la valutazione negativa del percorso di sostegno anche a mezzo CTU si evidenzia una incapacita’ senza ragionevole previsione di recupero e/o di superamento di rispondere ai bisogni educativi del figlio pur avendo con lo stesso un rapporto affettivo significativo e che non e’ opportuno cancellare.

Si parla di famiglie inidonee in modo continuativo anche se parziale. Quel che rileva in questa valutazione al di la’ dei fatti specifici che hanno movimentato l’azione e’ la capacita’ di superamento.

L’adozione mite si perfeziona come una forma di adozione i casi particolari ex art. 44 l: 184/1983 in capo agli stessi affidatari cui il minore e’ legato da un rapporto affettivo solido al punto che un allontanamento determinerebbe per lui un serio pregiudizio.

Cio’ accade quando il genitore biologico non ha recuperato, pur desiderandolo, un minimo di attendibilita’.

E’ emblematico infatti di queste situazioni il consenso espresso da minori anche infradodicenni e che si trovano al centro tra queste due mamme e i mondi che rappresentano: il benessere di cui l’una e’ portatrice e la problematicita’ dell’altra. Il minore non esita perche’ nell’accudimento, nelle “cose” riconosce l’affetto.

Si salva, mantenendo intatto il legame affettivo e la possibilita’ di incontro.

Il periodo di affidamento che nell’ipotesi del legislatore era un lavoriamo insieme in realta’ e’ un tempo, uno spazio che viene offerto anche a piene mani per un arduo tentativo di reinserimento. Soprattutto perche’ qualsiasi siano le previsioni anche sulla base di dati esperenziali  sulle capacita’ genitoriali non si puo’ pronunciare l’adottabilita’  se non viene attuato un piano di sussidarieta’ e cooperazione. In questa senso Cass.ne con sentenza n. 11019 del 12.5.06    ha precisato che la situazione di abbandono deve essere accertata in concreto sulla base di riscontri obiettivi non potendo la verifica dello stato di abbandono del minore essere rimessa ad una valutazione astratta compiuta ex ante alla stregua di un giudizio prognostico fondato su indizi privi di valenza assoluta.

Ma la ritrovata disponibilita’ di assistere e curare il minore da parte della famiglia di origine non serve ad interrompere significativamente la condotta abbandonica se non e’ l’espressione costante e monitorata di un profondo ravvedimento – Cass.ne 7/11/83 n.6563

L’adozione mite risponde quindi all’esigenza di assicurare un contesto di cura a minori i cui genitori non possono essere dichiarati decaduti stante il forte legame affettivo.

Il minore pero’ mantiene i rapporti con la famiglia di origine cosi’ come mantiene i doveri ex art. 300c.c.

La normativa sull’affido condiviso e l’introduzione del 709 ter hanno in qualche modo scardinato questa “zona grigia” evidenziando una inadeguatezza nelle scarse visite del genitore non affidatario, nell’insufficiente apporto economico, nel disinteresse verso le aspirazioni e le individualita’.

Le ipotesi di sanzione e/o ammonimento delineano infatti le mancanze significative per l’ordinamento riconducibili, nel loro reiterarsi, nella mancata attuazione di un progetto riparativo, ai provvedimenti limitativi e/o ablativi.

La legge sulla continuità affettiva ha sancito ancor più la tutela del legame affettivo che nasce proprio dalla capacita’ di accogliere un minore in difficoltà e di offrirgli, all’interno di un contesto familiare ed empatico, un contesto che funziona, possibilità di crescita sana ed equilibrata.

Allora ci si chiede se possa avere ancora un senso il vincolo di sangue, l’appartenenza, l’affettivita’, un legame scevro dalla cura o se viceversa la sua mancanza non e’ un codice un elemento di un rito di passaggio ad una condizione diversamente inaccessibile quale quella dell’adozione.

Nata a Napoli il 24/08/55 si e’ laureata in giurisprudenza nel 1982, presso l’Universita’ di Napoli,  discutendo una tesi finale sperimentale sull’imputabilita’ dei tossicodipendenti alla luce della L. basaglia.
Segue il corso biennale del CRF di animatore di comunita’ psichiatrica discutendo la tesi finale Il nuovo concetto di salute mentale.
Segue master Psicologia della comunicazione
Segue il corso seminariale biennale Mediazione familiare, conflittualita’ di coppia e responsabilita’ genitoriale presso l’Universita’ degli Studi di Napoli, discutendo la tesi finale La mediazione familiare, storia e modalita’ di approccio (2003)
Segue il master in diritto di famiglia presso il CEIDA in Roma e discute la tesi finale La genitorialita’ giuridica e le liberta’ fondamentali(2005).

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Articoli dell'Avvocato Errico

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Crediti con privilegio: retribuzioni dei professionisti

Un importante riconoscimento per le retribuzioni dei professionisti nel delicato ambito dei privilegi: prime conseguenze nelle ammissioni al passivo fallimentare

 

La legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018), entrata in vigore l’ 1 gennaio 2018, ha introdotto una rilevante novità di grande interesse per tutti i professionisti (e per ogni prestatore d’opera intellettuale).

Il comma 474 dell’art.1 apporta la seguente integrazione al sistema dei privilegi generali: all’articolo 2751-bis, numero 2), codice civile, dopo le parole: ”le retribuzioni dei professionisti” è inserito “compresi il contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza e il credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto “.

Di conseguenza il predetto art. 2751bis c.c. assume la seguente nuova dicitura:

Hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti:

2) le retribuzioni dei professionisti e di ogni altro prestatore d’opera dovute per gli ultimi due anni di prestazione, compresi il contributo integrativo da versare alla rispettiva cassa di previdenza ed assistenza e il credito di rivalsa per l’imposta sul valore aggiunto”.

L’attribuzione per legge del grado privilegiato è per due valori strettamente concernenti le retribuzioni dei professionisti e precisamente:

– il contributo da versarsi alle Casse di previdenza e assistenza;

– il credito di rivalsa dell’IVA.

Sino al 2017 c’era una illegittima sperequazione tra liberi professionisti addirittura era per legge riconosciuto il privilegio per i contributi alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti (art.11 L. 29 gennaio 1986, n. 21 “La maggiorazione è ripetibile nei confronti di quest’ultimo e il relativo credito è assistito da privilegio di grado pari a quello del credito per prestazioni professionali”), norma assente ad esempio nella legge sulla Cassa nazionale a favore degli Avvocati (L. 576/1980).

La Suprema Corte in materia fallimentare ha più volte preferito dare maggiore pregnanza al principio della tassatività per i privilegi rispetto all’evidente violazione dei principi di pari trattamento e di eguaglianza (cfr. Cass. 3 luglio 2015 n.13771 secondo la quale ai fini dell’ammissione al passivo del fallimento i crediti del professionista per il rimborso del contributo integrativo da versarsi alla Cassa di previdenza  – al pari di quelli per rivalsa I.V.A. – hanno una collocazione diversa da quella spettante al credito per le corrispettive prestazioni professionali, atteso che essi non costituiscono semplici accessori di quest’ultimo, ma conservano una loro distinta individualità. Il contributo integrativo di cui all’art. 11 della L. 576/1980 non costituisce retribuzione, di talché non è allo stesso applicabile il disposto di cui all’art. 2751-bis, n. 2, c.c.).

Finalmente è stato raggiunto il tanto atteso riconoscimento che equipara tutti i professionisti e tutele le loro retribuzioni anche nei casi in cui svolgono funzione quali Organi di procedure concorsuali e nelle fasi di ammissione al passivo per i crediti professionali da azionare nelle dette procedure.

Di grandissimo rilievo è soprattutto l’attribuzione del privilegio generale professionale al credito per rivalsa Iva del professionista, stante i discutibili indirizzi giurisprudenziali in cui si escludeva la natura prededucibile a volte consentendo soltanto il privilegio speciale di cui all’art. 2758, co. 2 c.c., con tutte le conseguenza in ordine alla mancanza dei beni gravati. Interpretazioni sul piano economico comportava notevolissimi pregiudizi ai professionisti che si vedevano ridotti i pagamenti perché le detrazioni dell’IVA sull’imponibile ammesso, con l’indicibile conseguenza   di arrecare un ingiustificato arricchimento alla massa fallimentare.

Ora il curatore fallimentare è tenuto a pagare il credito per prestazioni con il contestuale pagamento anche dell’Iva (e ciò indipendentemente dall’esistenza del bene gravato, visto che la riforma ha sancito il privilegio generale, facendolo assurgere al livello di quello professionale).

Avv. Giuseppe Sparano, nato a Napoli il 18.2.1965
Laureato nel 1987 con lode, presso l’Università Federico II di Napoli
Iscritto all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 22.2.1991 -patrocinio presso le Corte Superiori.
Dottore di ricerca in Diritto delle Imprese in crisi –  Università Federico II di Napoli
Docente di Diritto Commerciale corso in “Diritto dei contratti d’impresa” nelle Scuole di Specializzazione delle Professioni Università Federico II di Napoli e Università Vanvitelli (già  Seconda Università di Napoli).
Presidente dei Collegio dei probiviri della Camera degli Avvocati Civili di Napoli (già segretario e tesoriere).

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Immobile all’asta: aggiudicazione e opposizione

Termini previsti per l’opposizione all’esecuzione, opposizione agli atti esecutivi ed opposizione di terzo

 

Nel caso di aggiudicazione di immobile all’asta, fino a quando è possibile proporre opposizione all’esecuzione, opposizione agli atti esecutivi ed opposizione di terzo? Lo chiarisce la Suprema Corte in diverse sentenze.

La sentenza più recente (Cassazione civile sez.III 10 febbraio2015 n.2472) ha preso il riferimento dell’articolo 2929 del codice civile che stabilisce: “la nullità degli atti esecutivi che hanno preceduto la vendita o l’assegnazione non ha effetto riguardo all’acquirente o all’assegnatario, salvo il caso di collusione con il creditore procedente. Gli altri creditori non sono in nessun caso tenuti a restituire quanto hanno ricevuto per effetto dell’esecuzione”

Da tale norma deriva il principio in forza del quale il debitore ha l’onere di attivarsi per rilevare la nullità della procedura non solo entro i termini fissati dall’art.617 del codice di procedura civile (20 giorni dalla conoscenza dell’atto di esecuzione), ma soprattutto prima della vendita. Difatti una volta intervenuta la vendita, si viene a determinare uno sbarramento alla proponibilità di opposizioni ex art.617 c.p.c., intendendosi in tal modo tutelare l’affidamento incolpevole dell’acquirente e la stabilità della procedura di esecuzione forzata, anche al fine di incentivare l’acquisto dei beni posti ad incanto.

La Corte di Cassazione con sentenza del 27 agosto 2014 n.18312, ha ribadito tale principio anche con riferimento al regime delle altre opposizioni all’esecuzione forzata.

Pertanto, il principio affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n.2472 del 2015 è il seguente: “ove sopravvenga l’accertamento dell’inesistenza di un titolo idoneo a giustificare l’esercizio dell’azione esecutiva, non viene meno l’acquisto dell’immobile pignorato, da parte del terzo nell’ambito di procedura espropriativa conforme alle normative, salvo dimostrazione di collusione tra il terzo acquirente del bene e il creditore procedente (nella specie, relativa ad una espropriazione immobiliare esattoriale, l’opponente aveva fatto valere la nullità assoluta di tutti gli atti della procedura esecutiva derivante dalla omessa notifica, ai sensi dell’art.78 comma 2 del d.p.r. n.602/73, dell’avviso di vendita che pur risultando notificato a mezzo del servizio postale con raccomandata riportava in calce all’avviso di ricevimento una firma del destinatario non corrispondente alla sua; la Corte ha rilevato che tale vizio, seppure sussistente, non poteva essere opposto all’aggiudicatario in difetto di una qualsiasi prova di collusione del terzo con il creditore procedente)”.

Sul punto vale la pene evidenziare che il principio enunciato è in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 21110 del 2012 le quali hanno anche precisato che “resta salvo il diritto dell’esecutato di far proprio il ricavato della vendita e di agire per risarcimento dell’eventuale danno nei confronti di chi, agendo senza la normale prudenza, abbia dato corso al procedimento esecutivo in difetto di un titolo idoneo.”

Le sezioni unite hanno risolto un contrasto in ordine alla valenza interpretativa da attribuire alla disposizione dell’art. 2929 del codice civile.

Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Napoli. Diritto civile, in particolare nel contenzioso, procedure esecutive immobiliari, diritto comunitario, arbitrato e mediazione nazionale ed internazionale, diritto di famiglia, risarcimento del danno nell’ambito della responsabilità medica.

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Casa in comodato gratuito al figlio: come funziona?

Comodato della casa al figlio: in caso di separazione, è possibile chiedere la restituzione del bene?

 

La questione centrale di un giudizio avente ad oggetto il rilascio di un immobile concesso in comodato è quella della corretta qualificazione del contratto di comodato.

Tale problematica è già stata esaminata dalle Sezioni Unite, con sentenza 29 settembre 2014 n. 20448 con la quale sono state delineate due forme di comodato. Uno è regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., c.d. “comodato propriamente detto” che sorge «con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale» e per il quale è possibile chiedere la restituzione immediata solo in ipotesi di bisogno urgente ed imprevisto; l’altro disciplinato dall’art. 1810 c.c., c.d. “comodato senza determinazione di durata” caratterizzato dalla mancata pattuizione di un termine e dall’impossibilità di desumerlo dall’uso a cui è destinata la cosa e la cui richiesta di rilascio al comodatario è possibile ad nutum.

Quando la concessione di una casa è riconducibile a un comodato di immobile «pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario (…).si applicano gli articoli 1803 e 1809  perché si tratta di un contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista».

Spetta dunque al coniuge separato e assegnatario dell’immobile già concesso in comodato l’onere di provare che la pattuizione è attributiva del diritto personale di godimento mentre è onere del comodante dimostrare il raggiungimento del termine fissato per relationem.

Con sentenza del 3 dicembre 2015 n. 24618  la Cassazione ha ribadito tale principio ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare». Per effetto della concorde volontà delle parti, infatti, si è impresso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative della famiglia idoneo a conferire all’uso «il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante».

Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare». Per effetto della concorde volontà delle parti, infatti, si è impresso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative della famiglia idoneo a conferire all’uso «il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante».

Il comodante può quindi chiedere la restituzione se sopravviene un bisogno urgente e imprevisto ex art 1809 comma 2 c.c. .  «ancorché la sua destinazione sia quella di casa familiare». Resta ferma, in tal caso, «la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante».

Riferimenti normativi :

ARTICOLO N.1803 Nozione.

  • [I]. Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.
  • [II]. Il comodato è essenzialmente gratuito.

ARTICOLO N.1809

Restituzione.

  •  [I]. Il comodatario è obbligato a restituire la cosa [1246 2] alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto [1810].
  • [II]. Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e impreveduto bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata.

ARTICOLO N.1810 Comodato senza determinazione di durata.

  • [I]. Se non è stato convenuto un termine [1183] né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata [1809], il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede [1771].

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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L’assegno divorzile

L’elisione del tenore di vita dai criteri di determinazione del quantum

 

Alla luce dell’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74 intervenuta ad innovare l’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 l’assegno divorzile costituisce una misura di solidarietà post-coniugale che, pertanto, non viene riconosciuto in virtù della causa di divorzio ma in quanto sussisteva un precedente matrimonio da cui, tuttavia, non scaturisce in maniera automatica.

All’assegno divorzile notoriamente viene attribuita una natura e funzione prettamente assistenziale nella misura in cui ha la funzione di assicurare al coniuge richiedente, che si trova in una situazione economica di inadeguatezza di mezzi, la possibilità di vivere in modo autosufficiente e dunque non più come parte di un rapporto matrimoniale.

E’ bene precisare, inoltre, che per inadeguatezza dei mezzi non si intende l’indigenza (Cass. civ., sent., 27 luglio 2005, n. 15728) pertanto, l’onere della prova avrà ad oggetto la mera non autosufficienza economica.

Posto questo iniziale e doveroso preambolo, ci affacciamo a illustrare come la sentenza in esame  è intervenuta a ribaltare un orientamento giurisprudenziale consolidato da quasi trent’anni, in base al quale il giudizio in merito all’adeguatezza dei mezzi economici del richiedente veniva compiuto con riferimento alla condizione socio-economica ed allo stile di vita della coppia all’epoca durante il matrimonio (Cass. civ., sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19446) raffrontata all’attuale situazione economica.

Pacificamente infatti l’assegno divorzile, per lungo tempo, è stato determinato con la finalità di consentire al coniuge richiedente di continuare a perseguire gli standard di vita analoghi a quelli goduti in costanza di matrimonio. Pertanto, il paramento cui sì è fatto riferimento, sino ad ora, per valutare l’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente è stato, appunto, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

La ratio della recente sentenza della Cassazione, di contro, parte dalla presa d’atto che il discioglimento del vincolo matrimoniale incide non solo sullo status personale dei coniugi – che tornano ad essere persone singole – ma anche sul piano dei loro rapporti economici.

Come anticipato, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, la Cassazione ha delineato un nuovo criterio interpretativo dell’art. 5 Legge 898/70. invitando il giudice a scindere l’accertamento  necessario al riconoscimento dell’assegno divorziale in due fasi distinte. Il coniuge richiedente, affinché ottenga l’attribuzione dell’assegno, deve necessariamente dimostrare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma (fase dell’an), ossia la mancanza di mezzi adeguati e l’oggettiva impossibilità di procurarseli. Solo il positivo accertamento sull’an consente di accedere alla seconda fase, quella diretta alla determinazione della misura dell’assegno ossia alla  determinazione del quantum sulla base della posizione economico-patrimoniale del coniuge richiedente.

Si rende quindi necessario un accertamento volto alla ricostruzione complessiva della posizione patrimoniale e reddituale del coniuge richiedente per stabilire se, quella attuale, lo ponga in una condizione che gli impedisca, con i mezzi di cui dispone, di condurre una esistenza libera e dignitosa.

Per quanto attiene al presupposto dell’indipendenza economica, costituiscono parametri di riferimento: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri connessi e del costo della vita nel luogo di  abituale dimora del richiedente l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso, al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

L’indagine sull’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sussistenza investe l’effettiva impossibilità di reperire mezzi tali da consentire il raggiungimento dell’autosufficienza economica, sulla base delle condizioni soggettive del richiedente (età, malattia, sesso…) e della effettiva e concreta capacità lavorativa da valutarsi tenendo conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in relazione a ogni fattore economico, sociale, individuale, ambientale, territoriale (Cass. civ., sez. I, sent., 26 febbraio 1998, n. 2087)

E’ bene ricordare che a tale convincimento la Suprema Corte non è giunta all’improvviso ma che la svolta segnata dalla sentenza in esame è frutto di un percorso intrapreso tempo addietro con le sentenze dei giudici di merito.

Il passo decisivo lo si deve al Tribunale di Firenze che nel 2013 ha dato una sferzata a questo iter sollevando l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 5 L. n. 898/90 innanzi alla Corte Costituzionale sul convincimento che il riconoscimento a favore dell’ex coniuge di un assegno parametrato al tenore di vita violasse il principio costituzionale di ragionevolezza.

A fondamento dell’eccezione il Tribunale aveva rilevato, tra il resto: 1) una contraddizione logico giuridica fra l’ “istituto del divorzio che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio” e il riferimento al tenore di vita che, di fatto, lo prolunga oltremodo; 2) il prolungamento dei vincoli economici derivanti da un matrimonio che non esiste più; 3) un interpretazione del matrimonio (e del divorzio) non adeguata ai mutamenti sociali nel frattempo intervenuti; 4) il  contrasto tra l’art. 5 l. n. 898/1970 (così come interpretato), la normativa europea e i Principles elaborati dalla Commissione Europea sul diritto di famiglia.

La Corte Costituzionale ha respinto la questione (Corte Cost., 11 febbraio 2015, n. 11)  rilevando come “il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile” ma solo uno degli altri criteri indicati dall’art. 5 Legge 98/70 che egualmente incidono nella determinazione dell’assegno.

La sentenza del Tribunale di Firenze non è rimasta priva di conseguenze in quanto tanto la Suprema Corte quanto i giudici di merito ne hanno riproposto le questioni giuridiche e la ratio argomentativa.

Tuttavia a segnare la svolta definitiva è stata la sentenza che qui ci occupa.

Nell’elidere dal discorso intorno all’assegno di divorzio il riferimento al “tenore di vita” come termine di paragone rispetto al giudizio di adeguatezza/inadeguatezza, la Corte ha seguito un iter logico preciso. Il tenore di vita caratterizza una situazione (il matrimonio) che, per effetto del divorzio, è venuta meno, cosicché non avrebbe senso perpetuare all’infinito un vincolo economico che, in questo modo, sarebbe la proiezione di un vincolo solidaristico cancellato.

Rimangono tuttavia alcune perplessità.

In primo luogo la Corte sembra essersi sostituito al legislatore attribuendo alla Riforma del 1987 una portata innovativa ben maggior di quella che effettivamente è possibile riconoscerle.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con  la pronuncia n. 11490-11492 del 1990, nel riconosce la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio tuttavia non sganciò il diritto dal parametro del tenore di vita in quanto non intravide, nella riforma del 1987, la volontà del legislatore di superare questa dicotomia. La giurisprudenza di legittimità, infatti, pur prendendo atto della modifica del 1987, rilevò che il legislatore non aveva fornito un criterio nuovo per quantificare l’assegno stesso e pertanto affermò che potevano continuare ad applicarsi i criteri precedentemente vigenti, dando vita ad un sistema misto.

In particolare la Corte affermò che tale superamento avrebbe potuto verificarsi solo se la modifica “fosse stata approvata nel testo predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, nel quale l’adeguatezza dei mezzi era quella atta a consentire un “dignitoso” mantenimento, e cioè un livello non rapportabile a quello anteriore, conseguito in costanza di matrimonio, ma che doveva essere apprezzato secondo un criterio autonomo di sufficienza, evidentemente da commisurare alle esigenze e condizioni particolari del coniuge richiedente, in modo da assicurare un tenore di vita “normale” per soddisfare quelle esigenze e tener conto di quelle condizioni. L’iniziale formulazione del testo è stata – però – abbandonata in sede di approvazione della norma la quale non può più essere letta come se ancora contenesse il riferimento al “dignitoso” mantenimento.”

Di contro, la sentenza della Cassazione che qui esaminiamo non è riuscita a fornire argomentazioni altrettanto solide e tali da giustificare un’interpretazione così radicalmente lontana dal testo di legge.

Pur riconoscendo che la cancellazione del tenore di vita come parametro del giudizio di adeguatezza/indadeguatezza abbia una giustificazione condivisibile, allo stesso tempo è altamente legittimo il timore che ciò rischi di dare adito a situazioni di ingiustizia sociale in cui è proprio il soggetto debole del rapporto matrimoniale a non essere adeguatamente tutelato.

Piuttosto che un’elisione tout-court sarebbe più opportuno che i giudici di merito prendessero in considerazione tutti i criteri di determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento, fornendo una argomentazione puntuale e motivata, in modo da poter valutare caso per caso se il riconoscimento del diritto de quo rispecchi correttamente quella funzione assistenziale attribuita dalla norma.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli

Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Lo status di figlio – tra favor veritatis e favor legitimitatis

Il padre biologico e l’azione di disconoscimento

 

Nell’ordinamento italiano l’istituto della filiazione è disciplinato prevalentemente nel Codice Civile, al titolo VII del libro I, agli artt. 231 – 290 c.c..

Il  nostro sistema giuridico prevede una serie di azioni giudiziali relative allo stato di figlio volte ad accertare la posizione giuridica della persona in rapporto ai suoi genitori, dunque sia per reclamare lo status di figlio, sia per contestarlo. La riforma della filiazione intervenuta tra il 2012 e il 2013 con la Legge n. 219/2012 ed il decreto legislativo n.154/2013 ha informato la disciplina al principio della unicità: lo stato giuridico di figlio è unitario (art. 315 c.c.), indipendentemente dal fatto che il progetto genitoriale si sia realizzato all’interno di una coppia legata da un vincolo coniugale o meno. In forza di tale principio tutte le forme di filiazione riconosciute dal nostro ordinamento (all’interno del matrimonio, fuori del matrimonio, adottiva) godono della medesima considerazione, relativamente alle situazioni giuridiche soggettive imputate al figlio ed alla sua posizione nella rete formale dei rapporti familiari (art. 74 c.c.). Ad una riconosciuta pluralità di stati familiari e di coppia si contrappone dunque l’unicità dello stato di filiazione (per cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”) che ha eliminato la differenziazione tra figli naturali (nati fuori dal matrimonio) e figli legittimi (nati al suo interno).

Tutta la disciplina è ispirata dalla ricerca di un bilanciamento tra due principi: il favor veritatis ed il favor legitimitatis.

La ricerca di tale equilibrio ha, come logico, informato anche gli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione dove si è assistito al susseguirsi di oscillanti orientamenti.

Nello specifico, la Cassazione ha dapprima affermato il principio secondo il quale la verità biologica del concepimento costituisce solo uno degli elementi da tenere in considerazione per valutare la corrispondenza della azione di disconoscimento della paternità all’interesse del minore (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26767), successivamente, ha sancito il principio secondo il quale l’accertamento della verità biologica ha carattere di preminenza, in quanto strettamente legato alla tutela dell’identità personale del figlio (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4020). Di recente, con la pronuncia del 3 aprile 2017, n. 8617 la Cassazione è tornata sui suoi passi, sancendo la necessità di valutare la corrispondenza all’interesse del minore della rimozione dello stato di filiazione acquisito alla nascita.

La sentenza in esame, nello specifico, tiene conto dei principi che governano l’accertamento della filiazione, anche alla luce della recente Riforma del 2012-2013, delle indicazioni provenienti dall’ordinamento sovrannazionale, sia internazionale che europeo, e risente dei progressi registrati sul piano tecnico e scientifico, che determinano un elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini sul DNA

Il diritto al riconoscimento di uno status filiale che corrisponda alla verità biologica trova le fondamenta nel fatto che l’identità genetica costituisce un elemento essenziale del diritto all’identità personale sancito negli art. 30 commi 1 e 4 della Costituzione Italiana e nell’art. 8 CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare. (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4020).

Alla luce di ciò, la Cassazione ha riconosciuto al figlio il diritto (e la facoltà) di mantenere il cognome di cui era precedentemente titolare se questo rappresenti un tratto distintivo della sua identità personale e ciò in quanto il cognome ha perso col tempo quella dimensione legata all’ordine pubblico per assumere la connotazione di un bene legato alla persona.

Allo stesso tempo, vi sono pronunce della Cassazione che, sempre richiamandosi alla Costituzione, alla CEDU e all’art. 24 comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, sostengono che  la ricerca della verità biologica non gode di una preminenza assoluta, in quanto, nell’ottica di perseguire il superiore interesse del minore, è opportuno anche riconoscere una rilevanza alla certezza ed alla stabilità di quei rapporti affettivi sviluppatisi all’interno della famiglia in quanto anche su di essi si costruisce l’identità di figlio e non solo sul dato genetico. (tra le altre, Cass. 22 dicembre 2016, n. 26767).

La volontà del legislatore di perseguire un equilibrio tra l’interesse al mantenimento dello status di figlio e l’accertamento della verità della procreazione trova conferma nella vigente normativa in cui si prevede l’imprescrittibilità delle azioni di stato per il figlio che, in ogni tempo – anche da minorenne se rappresentato dal curatore – può decidere se proporle. Mentre prevede termini decadenziali per i genitori, seppure con opportuni distinguo.

Tra le sentenze che hanno dato il loro più significativo contributo alla questione rileva la n. 4020/2017, emessa all’esito di un procedimento instaurato con la richiesta da parte del sedicente padre biologico della nomina di un curatore speciale per il figlio minore affinché questi promuovesse azione di disconoscimento della paternità nei confronti del padre non biologico, ma coniugato con la di lui madre. Le circostanze portate a sostegno si fondavano sulla relazione che il sedicente padre biologico aveva intrattenuto con la madre del minore nel periodo del concepimento dello stesso. Il Tribunale, pur dichiarando inammissibile l’intervento in causa del sedicente padre biologico, con sentenza definitiva, giungeva a dichiarare che il minore non era il figlio del padre non biologico, marito della madre; decisione che veniva confermata anche in sede di appello.

La Corte di Cassazione con la suddetta sentenza ha confermato il ragionamento dei giudici di merito in quanto l’azione di disconoscimento di paternità proposta dal curatore speciale del minore infraquattordicenne era fondata sull’esistenza di una relazione sessuale, tra il sedicente padre biologico e la madre del minore nel periodo del concepimento dello stesso, confermata da tutte le parti in causa, nonché in forza della consulenza tecnica biologica che aveva accertato la non paternità del marito relativamente al figlio.

Con la sentenza in esame, la Corte sostanzialmente afferma che il favor veritatis non collide con il favor minoris in quanto la verità biologica costituisce una componente fondamentale dell’interesse del minore a veder garantito il diritto alla propria identità ed al riconoscimento di un rapporto di filiazione fondato sulla verità.

Inoltre, la Cassazione rileva che la sussistenza di un interesse del minore a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità avviene all’interno del procedimento che conduce alla nomina di un curatore speciale, non già nel momento dell’esame del merito della vicenda in quanto manca qualsiasi riferimento normativo in tal senso e risulta un’inutile duplicazione.

Molteplici sono le perplessità a riguardo. Innanzitutto, la nomina del curatore avviene con procedimento camerale definito con decreto motivato ai sensi dell’art. 737 c.p.c. Le sommarie informazioni da acquisire, nel caso che l’istanza provenga dal PM per il figlio infraquattordicenne, riguardano l’opportunità o meno di nominare un curatore che promuova l’azione di disconoscimento in nome e per conto del minore. Tuttavia appare evidente come, data la delicatezza della materia, l’interesse del minore possa essere effettivamente valutato solo all’esito di un giudizio di cognizione piena, e non all’esito di “sommarie informazioni” costituisce una fattispecie obbligatoria.

Pertanto, l’unico momento utile nel quale è possibile effettivamente valutare l’interesse del minore ad essere disconosciuto si verifica nel corso del giudizio di merito e non prima, all’interno del procedimento che conduce ad una nomina che avviene per legge.

Infine merita una riflessione la mancata previsione legislativa che legittima l’azione di disconoscimento da parte del padre naturale.

Il padre naturale può accertare il rapporto di filiazione naturale solo se prima è stato rimosso lo stato di figlio “matrimoniale” contrario alla verità biologica da parte dei soggetti indicati dall’art. 243 bis c.c. (madre, padre e figlio).

L’unico strumento riconosciuto al padre biologico è quello ex art. 244, u.c., c.c., ossia la possibilità di rivolgersi al PM affinché domandi la nomina di un curatore speciale che promuova il disconoscimento.

Nel caso oggetto d’esame è stato consentito al sedicente padre biologico di attivare un’azione che non è legittimato a promuovere direttamente ma che, per il mezzo di un curatore speciale, può promuovere senza limiti di tempo. La conseguenza ulteriore è che tale impostazione consente al PM di intervenire in maniera decisiva nei delicati assetti familiari in virtù del principio del favor minoris che, così come impostato dalla sentenza n. 4020/2017 trova ragion d’essere solo se si attribuisce preminenza alla conoscenza della verità ad ogni costo.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La Legge Cirinnà sulle Unioni Civili

Lo scioglimento dell’unione e il diritto al mantenimento del partner più debole.

 

Dopo un lungo e travagliato iter parlamentare anche l’Italia si è dotata di una legge che permette a due cittadini dello stesso sesso di godere di diritti che, prima, era riservati alle sole coppie eterosessuali. L’introduzione del nuovo istituto nasce dalla necessità di rispondere alle pressioni interne, derivanti dalle plurime sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, e da quelle esterne, non solo quindi la legislazione europea ma anche le sentenza di condanna inflitte all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in ordine all’opportunità di riconoscere anche alle coppie dello stesso sesso un nucleo di diritti indiscutibili.

La legge n. 76/2016, meglio nota come Legge Cirinnà, al comma 11 dell’art. 1, prevede espressamente la costituzione della cosiddetta unione civile, con cui le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi doveri. Si tratta di una disposizione analoga a quella che l’art. 143, comma 1,  c.c. prevede per il matrimonio, come diretta emanazione dell’art. 29 Cost., in base al quale il matrimonio si basa sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

Tuttavia tra l’unione civile ed il  matrimonio sussistono peculiari differenze in relazione agli specifici doveri che sorgono dal vincolo. Come è noto, il comma 2 dell’art. 143 c.c. riconduce al matrimonio gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione, di contro, il comma 3 dell’art. 1 della nuova legge prevede per entrambi gli uniti il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo. Si vede, quindi, come la legge non contempla, dunque, i doveri di fedeltà e di collaborazione, facendo solo riferimento, all’interno dell’unione civile, agli obblighi di assistenza e coabitazione. L’obbligo di fedeltà ha assunto, col tempo, un significato affievolito al punto che la giurisprudenza, nell’occuparsi dell’addebito della separazione in relazione alla sua violazione, ha richiesto la prova che l’adulterio abbia determinato la crisi coniugale e, dunque, l’intollerabilità della convivenza. Dalla mancata previsione di detto obbligo all’interno dell’unione civile non consegue che le parti non debbano considerarsi vincolate dall’impegno di un progetto condiviso ma detto impegno viene incanalato, appunto, nel quadro di un più generale dovere di assistenza materiale e morale. Nell’unione civile manca altresì il riferimento al dovere di collaborazione nell’interesse delle famiglia che, tuttavia, può essere ricondotto nel più generale obbligo di assistenza morale e materiale in proporzione alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo. Si legge, in questo passaggio, un chiaro riferimento ad un nuovo modello di famiglia in cui non è più concepibile la netta distinzione di ruoli (lavorativo e casalingo) che non appartiene più alla nostra epoca.

Un’ulteriore e rilevante differenza rispetto al vincolo coniugale e comunque strettamente connessa alla natura dei doveri che scaturiscono dall’unione civile è che la legge Cirinnà esclude la fase della separazione quale momento prodromico allo scioglimento dell’unione civile. In base ai commi 22, 23 e 24 dell’art. 1 della legge, l’unione civile si scioglie per alcune cause previste dalla legge sul divorzio (ad eccezione, in primis della pregressa separazione, non configurata), ma anche per dichiarazione, congiunta o disgiunta, di sciogliere l’unione stessa.

La mancata previsione della separazione preclude la possibilità che venga accertato l’addebito della crisi della coppia in caso di inottemperanza degli obblighi previsti.

Tuttavia, la violazione di quel reciproco impegno sancito per legge non resta senza conseguenze in quanto, sebbene non configuri un addebito, può certamente costituire motivo di risarcimento del danno da illecito endo-familiare, ove compromessi quei diritti – quali la salute, reputazione, libertà personale  – costituzionalmente garantiti. La giurisprudenza ha infatti ritenuto configurabile detto illecito, in presenza di condotte del coniuge contrastanti con i doveri che derivano dal matrimonio in quanto detti doveri si considerano espressione di principi generali di rispetto e solidarietà operanti anche all’interno di una convivenza more uxorio e dunque direttamente riconducibili all’impianto costituzionale e non quale mero rinvio all’art. 143 c.c. (Cass. 20 giugno 2013, n. 15481).

Non solo, le ragioni dello scioglimento dell’unione civile rilevano ai fine della determinazione dell’assegno “divorzile” che dovesse essere liquidato nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 5 l. n. 898/1970, in quanto la legge prevede tra i vari parametri di cui il giudice deve tenere conto nella quantificazione dell’assegno, rientrano pure “le ragioni della decisione”.

In effetti, la Legge n. 76/2016 – rinviando alle disposizioni vigenti in tema di matrimonio “per quanto compatibili” – al comma 25 dell’art. 1 regolamenta le possibili conseguenze di natura economica che possono derivare in capo ai soggetti di una unione civile nel caso di disgregazione.

E’ indubbio, pertanto, che la legge abbia voluto riconoscere al soggetto debole di una unione civile le medesime garanzie previste per il coniuge debole. Tuttavia la evidente non equiparabilità dell’unione rispetto al matrimonio non può non avere conseguenze sotto il profilo dell’an e del quantum dell’assegno spettante al soggetto debole dell’unione.

Relativamente all’an, al momento dello scioglimento dell’unione civile, il Tribunale adito può stabilire l’obbligo per uno degli uniti di somministrare periodicamente al partner un assegno quando quest’ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Non si tratta, pertanto, di una attribuzione automatica ma condizionata all’accertamento dell’assenza, in capo al soggetto richiedente l’assegno, di mezzi adeguati a garantirne il mantenimento o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive che dovrà essere valutata in concreto, tenuto conto delle condizioni soggettive (età, malattia) del richiedente alla luce di fattori economici, sociali, individuali, e territoriali.

Una volta accertata la sussistenza del diritto, la misura della relativa contribuzione verrà poi determinata considerando: a) le condizioni delle parti dell’unione; b) le ragioni della decisione; c) il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune; d) il reddito di entrambi, il tutto parametrato in relazione al criterio temporale della e) durata dell’unione civile.

E’ importante sottolineare come il riferimento al parametro c) consente di annoverare a tutti gli effetti l’unione civile in un concetto lato di famiglia, bene distante dall’accezione tradizionalmente intesa. Probabilmente alcune criticità emergeranno, di contro, rispetto ad altri due elementi: quello della durata dell’unione e quello delle ragioni dello scioglimento.

Infatti, se rispetto al criterio temporale, i giudici non potranno non far riferimento alla durata legale del vincolo, ci si chiede quale valore verrà attribuito, in sede di quantificazione dell’assegno, alla convivenza intervenuta prima della formalizzazione del vincolo, considerato l’enorme ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto a riconoscere le coppie same-sex.

Con riguardo poi alle “ragioni della decisione”, tale parametro – a prima lettura – potrebbe risultare incompatibile con la mancata previsione di un preventivo giudizio di separazione in cui venga valutata l’eventuale “colpa” per il dissolvimento dell’unione civile. Tuttavia, il parametro è congruente se considerato come meramente funzionale alla quantificazione della misura dell’assegno, per ricostruire una verità storica e non la colpa dell’eventuale obbligato. Il legislatore italiano, verosimilmente, non ha voluto introdurre nessun surrogato di accertamento di addebito per colpa sulla falsariga del divorzio in quanto il riferimento a tale parametro ha solo lo scopo di ricostruire le condotte dei singoli all’interno dell’unione civile per attenuare il diritto alla percezione di contributo economico ancorché tali apporti non vi siano stati in materia reciproca.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La nuova “Legge Cinema”. I suoi incentivi e contributi

Incentivi fiscali e i contributi, il tax credit nel cinema e i contributi automatici e selettivi.

 

L’Italia e il cinema, un binomio imprescindibile prima che l’identità industriale del nostro Paese perdesse il suo carattere originario. L’azienda cinematografica ha, senza dubbio, assorbito, più di altri settori, la acclarata depressione industriale degli ultimi anni, sancita, nel caso di specie, non già da una scarsa capacità artistica ma piuttosto da un inadeguato sostentamento ai processi industriali utili ad elaborare e trasformare la materia prima e, successivamente, a favorirne la diffusione. Proprio per questo, la legge n. 220/2016 – rubricata “disciplina del cinema e dell’audiovisivo” – (che in questa sede chiameremo “nuova legge cinema”) porta con sé la realizzabilità di un mercato cinematografico e audiovisivo competitivo e ancor più il superamento di tutte le note critiche che hanno accompagnato la riferita depressione, attraverso la precisa e sistematica previsione di contributi e incentivi fiscali e attraverso una serie di regole speciali per le opere che beneficeranno dei vari incentivi governativi[1].

La nuova legge cinema presenta, trai i suoi principali obiettivi, quello di voler realizzare un cinema “sostenibile”, dove la sostenibilità viene garantita da interventi pubblici e privati che trovano la loro fonte nell’industria cinematografica stessa, resa possibile proprio grazie alla costruzione di un sistema autonomo e autosufficiente.

Viene, per questo, istituito il “Fondo per il Cinema e l’audiovisivo”, un contenitore delle risorse economiche costituite, nella misura dell’11% e per un valore non inferiore a 400 milioni di euro annui, dal gettito IRES e IVA versato dai soggetti del cinema e dell’audiovisivo stessi. Tali risorse verranno utilizzate per la distribuzione dei diversi contributi previsti dalla legge cinema, tra i quali ricordiamo i contributi automatici e selettivi e il credito di imposta (tax credit).

Gli incentivi fiscali e i contributi.

Il punto centrale della legge è, così, costituito dalla progettazione di un nuovo sistema di finanziamento che trova la sua fonte nel settore di destinazione stesso. L’erogazione dei contributi, difatti, viene garantita proprio dall’operatività del sistema. Gli interventi esterni costituiscono un aspetto collaterale in grado di sostenere l’azienda cinematografica.

Negli ultimi anni, difatti, l’azienda cinematografica si è avvalsa di finanziamenti esterni stimolati dalla ricompensa del credito di imposta che ha generato un diverso modo di concepire il cinema e soprattutto un’ apertura del cinema stesso verso altre realtà produttive. Così, la nuova legge è finita per progettare un sistema mai concepito: la struttura progettata dalla nuova legge è, infatti, prevalentemente autonoma e in grado di autorigenerarsi e autoprodursi. Ma vediamo nel dettaglio quali sono gli incentivi fiscali e i contributi previsti e come questi interagiscono e operano nel sistema.

Il tax credit nel cinema.

Per tax credit si intende la possibilità, per ciascun investitore nel cinema e nell’audiovisivo, di veder ricompensato il proprio investimento, usufruendo del credito di imposta, in misura proporzionale al conferimento effettuato e nei limiti stabiliti dalla legge (la sua misura è pari, a seconda dei casi, a un minimo del 15 percento fino a un massimo del 40 percento). Tale credito può essere utilizzato esclusivamente in compensazione. La sua originaria previsione la rinveniamo nella legge finanziaria del 2008, alla quale seguono diversi decreti ministeriali (dal 2009 al 2015) utili ad estendere e disciplinare il beneficio fiscale. La nuova legge integra la previsione del tax credit nell’ambito di questo sistema autonomo, prevedendo, inoltre, in alternativa alla compensazione, la possibilità di cederlo a intermediari bancari (ivi incluso l’Istituto per il credito sportivo), finanziari e assicurativi. Tra l’altro, nel caso di cessioni a favore dell’Istituto per il credito sportivo, è anche possibile stipulare convenzioni che limitino la destinazione dei crediti ceduti al settore del cinema e dell’audiovisivo.

Intanto i soggetti che godono del detto beneficio sono soggetti che investono danari e/o servizi nel cinema e nell’audiovisivo e si distinguono in soggetti investitori che fanno parte del settore in discorso e soggetti investitori appartenenti ad altri settori o, in ogni caso, completamente estranei all’azienda cinematografica e audiovisiva: si distingue, infatti, il tax credit interno da quello esterno, volendo riferirsi proprio a questa preliminare differenza soggettiva. In secondo luogo e in merito alla natura dei soggetti investitori, questi possono essere sia persone fisiche che persone giuridiche. L’unica eccezione è costituita dall’ipotesi in cui l’apporto conferito abbia ad oggetto servizi e non risorse finanziarie, poiché, in questo caso, per soggetti investitori possono intendersi esclusivamente le persone giuridiche. Ma il discrimen rilavante tra i due tipi di investitori viene dato essenzialmente dal ruolo che rispettivamente rivestono nel sistema. Difatti, laddove l’investitore sia una società interna al settore ovvero, in via meramente esemplificativa, una società di post-produzione e l’ intervento finanziario e/o l’apporto di servizi vada a confluire in un proprio progetto, il ruolo di “investitore” ha una rilevanza giuridica solo ai fini dell’accesso al credito di imposta, in quanto, oltre ad apportare risorse, l’investitore è anche il proprietario del progetto finanziato (sia pure in forma associata). Può però anche aversi il caso in cui una società del settore investa in un progetto cinematografico altrui, di cui non pretende quote di diritti sul prodotto e di cui non intende condividerne le perdite: in questo caso il ruolo dell’investitore, ancorché interno al settore, è assolutamente identico a quello rivestito dall’investitore esterno di cui infra. Per facilitare questa ulteriore distinzione chiameremmo “investitore interno proprio” colui che investe in un proprio progetto (seppure la proprietà sia in forma associata) e “investitore interno improprio” colui che investe in un progetto altrui (privo, per questo, di diritti dominicali sul prodotto finale).

L’investitore esterno ovvero un soggetto imprenditoriale e/o una persona fisica non appartenente all’industria cinematografica e/o audiovisiva, può, a fronte di un investimento nel cinema e/o nell’audiovisivo, godere del credito di imposta alla sola condizione che sottoscriva un contratto di associazione in partecipazione agli utili ai sensi e per gli effetti degli artt. 2459 e ss. c.c. Ciò vuol dire che l’investitore esterno, a differenza dell’investitore interno proprio non entra nel vivo della produzione né tantomeno diventa proprietario di quote di diritti sul prodotto. Egli conferisce alla produzione un servizio ovvero una somma di danaro e partecipa ai ricavi netti in misura  proporzionale al conferimento. Pertanto, nel caso in cui un’azienda immobiliare abbia effettuato una spesa di € 10.000, in termini di investimenti, può ottenere un credito di € 3.000,00 che potrà utilizzare in compensazione, cedere e quindi, eventualmente, rinvestire nel settore.

Pertanto, con il tax credit esterno assistiamo a una tipologia di intervento complessa perché se da un lato l’investimento diretto deriva da altri sistemi, dall’altro, l’incentivo all’investimento stesso è strettamente correlata al funzionamento del sistema automatico del cinema e dell’audiovisivo. Del resto l’aspetto più interessante della nuova legge è l’interazione tra i diversi tipi di incentivi previsti e il loro ruolo attivo nel funzionamento dell’intero sistema. La legge tende ad integrare tutti gli interventi e a farli cooperare al fine di consentire ai prodotti di particolare qualità artistica di ottenere maggiori erogazioni che, a loro volta, andranno ad integrare il funzionamento di tutta la struttura. Pertanto, anche nel caso del tax credit sussiste una forte interazione tra investimento, beneficio e caratteristiche proprie del prodotto finanziato.

 I contributi automatici e selettivi.

Se con la disciplina del tax credit, sia esso interno che esterno, assistiamo a un contributo indiretto da parte dello Stato e ancor più a un mero sostegno al funzionamento del sistema automatico e autosufficiente, come previsto dalla nuova legge, con i contributi che lo Stato eroga direttamente a favore del cinema e dell’audiovisivo siamo di fronte alla forma diretta di incentivo alla industria di settore. La nuova legge cinema prevede infatti che il Fondo per il Cinema e l’audiovisivo accantoni risorse che derivano dal gettito erariale al fine di erogare, oltre il detto credito d’imposta, anche contributi automatici e selettivi.

Per contributi automatici si intendono le erogazioni economiche favorite alle imprese di settore che abbiano una posizione contabile presso il Ministero calcolate sulla base dei risultati economici, culturali e artistici oltre che di diffusione ottenuti. Per le opere cinematografiche si tiene conto prevalentemente degli incassi ottenuti nelle sale cinematografiche italiane, anche in relazione al rapporto fra gli incassi ottenuti e i relativi costi di produzione e di distribuzione. Per le opere audiovisive si tiene, invece, conto prevalentemente della durata dell’opera realizzata e dei relativi costi medi orari di realizzazione.

Per contributi selettivi si intendono i contributi a favore della scrittura, sviluppo, produzione e distribuzione nazionale ed internazionale di opere cinematografiche e audiovisive. Ai fini dell’erogazione si tiene conto del requisito oggettivo di opera prima e/o seconda e della complessità dell’opera in relazione alle modeste risorse utilizzate, nonché della particolare qualità artistica del prodotto.

La particolarità dei summenzionati contributi sta certamente nella loro origine, essendo questa strettamente correlata al sistema e in grado di rigenerarsi grazie a nuove produzioni che trovano il loro slancio proprio nelle erogazioni pubbliche. La struttura del sistema progettata dalla nuova legge ha, pertanto, i caratteri di un circuito elettrico e la sua principale energia la si rinviene, esclusivamente, nell’espressione artistica. Per il momento è chiaro che la prospettazione del riferito meccanismo opera esclusivamente in via teorica, in quanto, come già sostenuto dal Prof. Avv. Cesare Galli (cfr. nota 1), risulta difficile prevedere cosa effettivamente accadrà.

Note conclusive.

A conclusione di questa breve indagine sul tema, si comprende la ratio della legge finalizzata prevalentemente a conferire piena autonomia al settore. Pensiamo, infatti, al caso in cui l’azienda di produzione cinematografica Alfa – che ha ottenuto investimenti esterni per la produzione di un Film Gamma e contributi automatici proprio per le particolari caratteristiche del Film Gamma – intenda utilizzare i contributi automatici per finanziare il progetto Delta di un giovane autore. In questo caso il progetto Delta viene finanziato dall’azienda Alfa, in misura esattamente corrispondente alla somma erogata come contributo automatico per il Film Gamma. A fronte del finanziamento l’azienda Alfa potrà accedere al beneficio del tax credit – di qui ottenere un credito da utilizzare in compensazione o che potrà cedere e ottenere una corrispondente somma in danaro – mentre il giovane autore non solo riuscirà a realizzare il suo progetto ma potrà ottenere i c.d. contributi selettivi, utili, eventualmente, a finanziare la realizzazione di una nuova idea. Con la realizzazione di tutte queste ipotesi ci troviamo di fronte a un modello perfetto di sistema automatico e autosufficiente.

Un sistema in grado di autoalimentarsi e in grado di rigenerare le risorse che in esso confluiscono costituisce certamente il paradigma di una realtà efficiente, in grado di svilupparsi e raggiungere elevati livelli di competitività. Del resto lo scopo della nuova previsione normativa è proprio quello di realizzare un cinema “sostenibile” e competitivo.

[1] sul punto v. Prof. Avv. Cesare Galli “La nuova legge sul cinema introduce regole speciali per i diritti di proprietà intellettuale sulle Opere Agevolatein Marchi e Brevetti Web – Sezione Angolo del Professionista, che analizza l’importante interazione e la necessità di coordinamento tra la legge sul diritto d’autore e le nuove regole previste nelle ipotesi di “Opere Agevolate”.

Paola Carmela D’Amato, nata ad Avellino il 5 luglio 1984, avvocato civilista, si è laureata in giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II di Napoli.
Dopo una proficua collaborazione con lo Studio legale Sparano ha iniziato l’attività professionale in proprio fondando lo Studio legale D’Amato e dedicandosi, prevalentemente, al diritto della proprietà industriale ed intellettuale.
E’ iscritta nell’elenco degli avvocati per il patrocinio a spese dello Stato.
Assiste diverse aziende campane nella tutela dei marchi.
Assiste aziende di produzione cinematografica nella stipula di contratti e nella gestione legale dei prodotti cinematografici.

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Vendite giudiziarie: cosa sono?

Acquisto di un immobile all'asta: vendita con incanto o senza incanto

 

Le vendite giudiziarie derivano da procedure attivate presso i Tribunali al fine di ricavare determinate somme di denaro dalla vendita di compendi immobiliari, per soddisfare i creditori. L’Asta Giudiziaria è dunque lo strumento utilizzato dai Tribunali per vendere in maniera forzata i beni immobili, al fine di soddisfare i creditori precedenti. Per garantire l’assoluta trasparenza ed imparzialità di questa modalità di vendita, la legge prevede che le Aste si svolgano secondo il criterio della “ gara al miglior offerente”.

  • Tutti possono partecipare alle vendite giudiziarie, con esclusione dell’esecutato o del fallito
  • Non occorre l’assistenza di un legale o altro professionista (ma è consigliata)
  • Oltre al prezzo di aggiudicazione si pagano i soli oneri fiscali (IVA o Imposta di Registro), con le agevolazioni di legge ( 1° casa, imprenditore agricolo, ecc.)
  • La vendita non è gravata da oneri di mediazione
  • L’acquisto è sicuro in quanto il trasferimento dell’immobile viene ordinato dal Giudice ed effettuato dal Tribunale a mezzo del Decreto di Trasferimento.

Partecipare ad un’asta giudiziaria per l’acquisto di un immobile è molto semplice. Scelto l’immobile, l’offerente consulterà l’avviso di vendita pubblicato sul sito internet per sapere se dovrà partecipare ad una vendita senza incanto o ad una vendita con incanto. Nel caso di vendita senza incanto, l’offerente dovrà predisporre una domanda scritta contenente i seguenti dati: Tribunale; Giudice dell’esecuzione; numero di procedura; data ed ora dell’asta.

  • generalità dell’offerente (nome e cognome del partecipante, data e luogo di nascita, stato civile, regime patrimoniale)
  • numero e descrizione del lotto per cui s’intende partecipare, reperibili nell’avviso di vendita;
  • l’importo offerto per l’acquisto dell’immobile scelto, mai inferiore al prezzo base d’asta;
  • la cauzione, pari al 10% del prezzo offerto

Alla domanda devono essere sempre allegati, a pena d’ irricevibilità, gli assegni circolari non trasferibili a titolo di cauzione e di anticipo spese. Per intestare correttamente gli assegni circolari, occorre esaminare l’avviso di vendita pubblicato sul sito, ove è contenuta l’indicazione dell’intestazione al Giudice dell’Esecuzione, o al Giudice Delegato ovvero al Professionista Delegato. La domanda corredata da un marca da bollo di €14.62, unitamente agli assegni circolari, deve essere inserita in busta chiusa e sigillata, senza che all’esterno sia indicato il nome dell’offerente. E’ importantissimo che la busta contenente l’offerta venga depositata entro la data e l’ora indicata nell’avviso di vendita quale termine ultimo di presentazione.

L’inosservanza del termine, comporterà l’inammissibilità dell’offerta con la conseguente impossibilità di partecipare all’asta. 

Il deposito dovrà essere effettuato presso la cancelleria del Tribunale, in caso di vendita davanti al Giudice, ovvero presso lo studio del Professionista (Notaio, Avvocato, Commercialista) in caso di vendita delegata. Nella vendita senza incanto, essendo l’offerta segreta, la busta che la contiene, sarà aperta il giorno della vendita dal Giudice dell’esecuzione ovvero dal Professionista delegato. Nell’ipotesi di unico offerente, il Giudice procederà ad aggiudicare l’immobile in suo favore, anche se l’offerente non è fisicamente presente; in caso di pluralità di offerte, ritenute valide, il Giudice invece procederà ad una gara tra gli offerenti che potranno rilanciare. L’aggiudicazione verrà disposta a favore di colui che ha offerto il prezzo più alto, definito migliore offerente

Partecipare ad una vendita con incanto

Le modalità di partecipazione sono molto simili. Anche in tale ipotesi è necessario predisporre la domanda di partecipazione, contenente tutti gli elementi previsti per la vendita senza incanto. Identici sono le modalità ed i luoghi di deposito.

La fondamentale differenza consiste nel fatto che l’offerta non è segreta e pertanto la domanda di partecipazione consiste in una istanza, per la presentazione della quale non devono essere osservati i requisiti di segretezza richiesti per la vendita senza incanto.

Anche nella vendita con incanto, all’istanza, in bollo, va allegato l’assegno circolare a titolo di cauzione pari al 10% del prezzo base d’asta previsto in avviso.

In buona sostanza nella vendita con incanto non si offre, si chiede di partecipare ad un’asta pubblica.

Nel caso di più offerte, si svolgerà un gara con rilanci minimi ed all’esito del rilancio più alto il giudice dichiarerà l’aggiudicazione.

Nella vendita con incanto l’aggiudicazione è provvisoria, potendo altri soggetti interessati, entro 10 giorni dall’aggiudicazione, aprire la fase del rincaro presentando un’offerta in aumento.

Avvocato presso il Consiglio dell’Ordine di Napoli.Diritto civile, in particolare nel contenzioso, procedure esecutive immobiliari, diritto comunitario, arbitrato e mediazione nazionale ed internazionale, diritto di famiglia, risarcimento del danno nell’ambito della responsabilità medica.

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