Assegni di divorzio, i nuovi criteri tutelano di più le donne del Sud

La recente sentenza della Cassazione, a Sezioni Unite, nel travolgere il recente criterio dell’autosufficienza economica, introdotto dalla contestata sentenza dello scorso anno, restituisce al matrimonio il suo carattere solidaristico.
A chi reclama un intervento normativo in materia di assegno divorzile rispondo preoccupato che il nostro legislatore negli ultimi tempi ha dato il peggio di se e che la materia non può essere mortificata da asettici criteri tabellari.
In questa fase di grande confusione, dovuta alle poco illuminanti sentenze della Cassazione, spetterà agli avvocati e ai giudici di merito lavorare insieme per elaborare nuovi criteri giurisprudenziali che, nell’esaminare caso per caso nel contempo salvaguardino i principi di solidarietà e pari dignità dei coniugi e contrastino insopportabili comportamenti speculativi.

Questo è il testo del mio intervento pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno (Campania) dello scorso 19 luglio.

Assegni di divorzio, i nuovi criteri tutelano di più le donne del Sud
di Alessandro Senatore Avvocato cassazionista e presidente di «Unicamente Rete di professionisti»

Caro direttore, il dibattito — giurisprudenziale e non — attorno alla questione dell’assegno divorzile è, da tempo immemore, foriero di dubbi e attriti. Nel tentativo di dirimere i conflitti tra gli ex coniugi ed i contrasti interpretativi tra gli operatori del diritto, la Cassazione civile è intervenuta a più riprese con sentenze che hanno segnato dei punti di svolta importanti. Dopo la nota sentenza numero 11504/2017 con la quale, non senza suscitare qualche perplessità, la Corte di Cassazione si era pronunciata affermando l’eliminazione, dai criteri di determinazione dell’assegno divorzile all’ex coniuge, del riferimento al tenore di vita in costanza di matrimonio, di recente la Cassazione, questa volta a Sezioni Unite, è intervenuta nuovamente sulla questione. La sentenza numero 18287/2018 dello scorso 11 luglio ha, in un certo qual modo, aggiustato il tiro della pronuncia precedente che a molti, tra gli addetti ai lavori, era apparsa troppo radicale e difficilmente adattabile in un ambito così delicato e peculiare come quello dei rapporti matrimoniali. Se la sentenza del 2017, infatti, aveva attribuito priorità all’applicazione del principio della pari dignità di genere rispetto al principio di solidarietà tra ex coniugi, con lo scopo di evitare che il rapporto matrimoniale, anche se definitivamente estinto sul piano personale, potesse dare adito al perpetuarsi di ingiustificati vincoli patrimoniali ultronei rispetto al divorzio, questa volta le Sezioni Unite sono giunte a considerare che non tutti i matrimoni rispondono alle medesime dinamiche. Si tratta di un traguardo importante che, senza smettere di guardare al futuro e dunque ai mutamenti di costume che sono intervenuti nella nostra società e che, correttamente, hanno valorizzato l’indipendenza e l’autonomia della donna e richiamato ciascun coniuge all’autoresponsabilità, non dimentica di considerare quei nuclei familiari in cui le scelte di vita economiche e personali risultano ancora legati a retaggi del passato o a condizioni contingenti.

La sentenza delle Sezioni Unite, che non ha reintegrato il criterio del «tenore di vita», contempla una serie di parametri compositi in cui assume preliminare importanza il contributo apportato dal coniuge alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto all’assegno divorzile. Alla pronuncia del 2017 erano seguite una serie di sentenze che nella rigida affermazione del principio dell’indipendenza e autosufficienza economica penalizzava il coniuge debole considerato, dopo il divorzio, come individuo avulso dal pregresso familiare e personale nonché dal contesto economico e sociale di appartenenza. I parametri delineati con la sentenza del 2017, infatti, non tenevano in considerazione quei matrimoni tuttora numerosi in cui le donne, per indole o cultura familiare, decidono di dedicarsi completamente alla cura dei figli e della casa, trascurando la professione o, ancora, quelle crisi coniugali intervenute in età avanzata, quando l’ingresso nel mercato del lavoro diventa più difficile, specie in realtà come quelle del Mezzogiorno in cui il lavoro manca o è mal pagato. Allo stesso tempo, questa sentenza riporta al centro della questione la figura dell’avvocato matrimonialista il fondamentale compito di sapere rappresentare scrupolosamente al giudice la presenza di uno squilibrio economico sussistente tra i due coniugi e l’apporto effettivo, in termini di sacrifici anche di carattere personale, prestato dal coniuge richiedente l’assegno.

Un grande lavoro in sede probatoria che comporterà, alla luce delle regole processuali vigenti, una dilatazione dei tempi del processo che già adesso appaiono inconciliabili con i tempi della vita quotidiana che, certamente, non può restare cristallizzata al momento della fase istruttoria. Il rischio, dunque, è quello di ottenere sentenze che arrivano troppo in ritardo mentre nel frattempo nella vita degli ex coniugi sono intervenuti profondi cambiamenti, personali o economici. Quello che ci si auspica è che il legislatore italiano intervenga sull’assetto processuale al fine di snellire la procedura in modo da consentire agli operatori del diritto di operare compiutamente ed a quanti si apprestano ad affrontare il dolore di un fallimento coniugale di poter riprendere in mano la propria esistenza in tempi brevi e nel migliore dei modi.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Mantenimento e spese straordinarie per i figli: le Linee Guida

Le Linee Guida del CNF e della Corte di Appello di Milano in materia di spese straordinarie. La fine di un conflitto?

Con la riforma del titolo IX capi I e II del primo libro del Codice Civile, il legislatore italiano è intervenuto nel modificare la materia dei rapporti di filiazione cancellando la figura del genitore affidatario in via esclusiva ed introducendo il principio della natura “meramente perequativa” dell’assegno di mantenimento, allo scopo di garantire la c.d. bigenitorialità posta a base dell’affidamento condiviso. Un aspetto che da sempre è stata foriero di discussioni giurisprudenziali e motivo di conflitto tra i coniugi è la questione relativa alle spese di mantenimento ordinario e straordinario, riguardo alla natura delle stesse ed alle modalità dell’esborso.

Ed è all’interno di tale diatriba che si inserisce il documento elaborato da CNF, così come quello della Corte d’Appello di Milano, con i quali si è cercato di fare chiarezza e di tracciare delle linee guida, appunto, per gli operatori del diritto coinvolti nelle vicende che seguono la crisi di un rapporto familiare.

Punto di riferimento imprescindibile sono gli  artt. 316 bis e 337 ter del Codice Civile che pongono come prioritario il perseguimento del benessere della prole minore o non autosufficiente.

Dunque, come noto, oltre alle spese ordinarie che attengono alla gestione quotidiana gestione dei compiti di cura, educazione e istruzione, va sempre affiancata la previsione di un’equa ripartizione delle spese straordinarie.

Queste ultime, solitamente, presuppongono un esborso più ingente rispetto all’assegno di mantenimento omnicomprensivo delle spese ordinarie e dunque, nel momento il cui il giudice ne determina la misura della contribuzione, è tenuto ad applicare il principio della natura perequativa dell’assegno di mantenimento ex art. 337 ter, IV comma c.c. in forza del quale ciascun genitore partecipi al mantenimento dei figli ed i genitori in modo proporzionale alle proprie risorse.

In merito all’obbligo di contribuzione il documento della Corte d’Appello di Milano assume una posizione più esplicita, affermando “il potere – dovere del genitore di cura degli interessi del figlio, contribuendo economicamente alla sua protezione, educazione ed istruzione, in continuità con quanto già accadeva prima della crisi familiare”.

Dunque, la contribuzione alle spese per le esigenze ordinarie della vita del minore (vitto giornaliero, mensa scolastico, canone di locazione, utenze e consumi, abbigliamento ordinario, compresi cambi di stagione, per la cancelleria scolastica ricorrenti nell’anno e l’acquisto di medicinali) si realizza mediante il versamento dell’assegno di mantenimento al genitore collocatario.

Mentre i versamenti aggiuntivi per le spese straordinarie si distinguono in diverse tipologie a seconda che siano “obbligatorie” – ossia quelle per le quali non è richiesta una previa concertazione – e quelle che sono subordinate al consenso di entrambi i genitori.

In via generale, nella giurisprudenza di legittimità si è consolidato il principio per cui non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione e concertazione preventiva con l’altro in ordine alla determinazione delle spese ordinarie, trattandosi di decisione di maggiore interesse per il figlio. A ciò consegue, pertanto, che sussiste a carico del coniuge non affidatario, un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso.

Nelle ipotesi di mancata concertazione preventiva o successivo rifiuto al rimborso per la propria parte, spetta al giudice verificare se la spesa è stata effettuata nell’interesse del figlio ed alla successiva commisurazione rispetto alla utilità e sostenibilità della stessa in relazione alle condizioni economiche dei genitori.

L’importanza delle Linee Guida sta nell’aver definito preventivamente la natura delle spese extra sulla scorta di quanto canonizzato dalla giurisprudenza.

La Corte d’Appello di Milano, inoltre, individua un principio più generale per cui le spese extra sono tutte quelle che presentano almeno uno dei tre requisiti: voluttuarie (dato funzionale), occasionali (dato temporale) o gravose (dato quantitativo). Ulteriore requisito è che siano debitamente documentate.

A questo punto, si distinguono:

  • Le spese extra assegno obbligatorie, per le quali non è richiesta la previa concertazione e vengono individuate in: libri scolastici, spese sanitarie urgenti, spese per interventi chirurgici indifferibili sia presso strutture pubbliche che private, acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da banco, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese protesistiche, spese di bollo ed assicurazione per il mezzo di trasporto quando acquistato con l’accordo di entrambi i genitori.
  • Le spese extra assegno, subordinate al consenso di entrambi i genitori: 1) scolastiche: iscrizioni e rette di scuole private, iscrizioni, spese ed eventuali spese alloggiative, ove fuori sede, di università pubbliche e private, ripetizioni, frequenza del conservatorio o scuole formative, spese per la preparazione di esami di abilitazione o alla preparazione di concorsi, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola, soggiorni all’estero per motivi di studio, corsi di apprendimento per le lingue straniere (…); 2) spese di natura ludica o parascolastica: centri estivi, corsi di informatica, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di mezzi di trasporto, conseguimento della patente presso autoscuola private; 3) spese sportive: attività sportiva comprensiva dell’attrezzatura e di quanto necessario per lo svolgimento dell’eventuale attività agonistica; 4) spese medico sanitarie: spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non effettuate tramite SSN, spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, cicli di psicoterapia e logopedia; 5) organizzazione di ricevimenti, celebrazione e festeggiamenti dedicati ai figli.

Il CNF ha, infine, stabilito che per le spese straordinarie per le quali è prevista la concertazione, il genitore manifesta la propria volontà con formale richiesta scritta avanzata all’altro (a mezzo sms, email, fax, pec, ecc…) che, a sua volta, dovrà manifestare un motivato dissenso, sempre per iscritto, entro venti giorni dalla data di ricevimento della richiesta in quanto, in caso di mancata risposta, il silenzio viene considerato come consenso. Per ottenere il rimborso della quota il genitore che ha anticipato la spesa è tenuto ad esibire e consegnare idonea documentazione entro un mese dalle stesse mentre il genitore che è tenuto al rimborso deve provvedere entro un mese dalla richiesta.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
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Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
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Casa in comodato gratuito al figlio: come funziona?

Comodato della casa al figlio: in caso di separazione, è possibile chiedere la restituzione del bene?

 

La questione centrale di un giudizio avente ad oggetto il rilascio di un immobile concesso in comodato è quella della corretta qualificazione del contratto di comodato.

Tale problematica è già stata esaminata dalle Sezioni Unite, con sentenza 29 settembre 2014 n. 20448 con la quale sono state delineate due forme di comodato. Uno è regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., c.d. “comodato propriamente detto” che sorge «con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale» e per il quale è possibile chiedere la restituzione immediata solo in ipotesi di bisogno urgente ed imprevisto; l’altro disciplinato dall’art. 1810 c.c., c.d. “comodato senza determinazione di durata” caratterizzato dalla mancata pattuizione di un termine e dall’impossibilità di desumerlo dall’uso a cui è destinata la cosa e la cui richiesta di rilascio al comodatario è possibile ad nutum.

Quando la concessione di una casa è riconducibile a un comodato di immobile «pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario (…).si applicano gli articoli 1803 e 1809  perché si tratta di un contratto sorto per un uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista».

Spetta dunque al coniuge separato e assegnatario dell’immobile già concesso in comodato l’onere di provare che la pattuizione è attributiva del diritto personale di godimento mentre è onere del comodante dimostrare il raggiungimento del termine fissato per relationem.

Con sentenza del 3 dicembre 2015 n. 24618  la Cassazione ha ribadito tale principio ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare». Per effetto della concorde volontà delle parti, infatti, si è impresso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative della famiglia idoneo a conferire all’uso «il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante».

Ove il comodato di un bene immobile sia stato stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare (nella specie: dal genitore di uno dei coniugi) già formato o in via di formazione si versa nell’ipotesi del comodato a tempo indeterminato, caratterizzato dalla non prevedibilità del momento in cui la destinazione del bene verrà a cessare». Per effetto della concorde volontà delle parti, infatti, si è impresso un vincolo di destinazione alle esigenze abitative della famiglia idoneo a conferire all’uso «il carattere implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi coniugale e senza possibilità di far dipendere la cessazione del vincolo esclusivamente dalla volontà, ad nutum, del comodante».

Il comodante può quindi chiedere la restituzione se sopravviene un bisogno urgente e imprevisto ex art 1809 comma 2 c.c. .  «ancorché la sua destinazione sia quella di casa familiare». Resta ferma, in tal caso, «la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante».

Riferimenti normativi :

ARTICOLO N.1803 Nozione.

  • [I]. Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta.
  • [II]. Il comodato è essenzialmente gratuito.

ARTICOLO N.1809

Restituzione.

  •  [I]. Il comodatario è obbligato a restituire la cosa [1246 2] alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando se ne è servito in conformità del contratto [1810].
  • [II]. Se però, durante il termine convenuto o prima che il comodatario abbia cessato di servirsi della cosa, sopravviene un urgente e impreveduto bisogno al comodante, questi può esigerne la restituzione immediata.

ARTICOLO N.1810 Comodato senza determinazione di durata.

  • [I]. Se non è stato convenuto un termine [1183] né questo risulta dall’uso a cui la cosa doveva essere destinata [1809], il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante la richiede [1771].

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
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L’assegno divorzile

L’elisione del tenore di vita dai criteri di determinazione del quantum

 

Alla luce dell’art. 10 della legge 6 marzo 1987, n. 74 intervenuta ad innovare l’art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 l’assegno divorzile costituisce una misura di solidarietà post-coniugale che, pertanto, non viene riconosciuto in virtù della causa di divorzio ma in quanto sussisteva un precedente matrimonio da cui, tuttavia, non scaturisce in maniera automatica.

All’assegno divorzile notoriamente viene attribuita una natura e funzione prettamente assistenziale nella misura in cui ha la funzione di assicurare al coniuge richiedente, che si trova in una situazione economica di inadeguatezza di mezzi, la possibilità di vivere in modo autosufficiente e dunque non più come parte di un rapporto matrimoniale.

E’ bene precisare, inoltre, che per inadeguatezza dei mezzi non si intende l’indigenza (Cass. civ., sent., 27 luglio 2005, n. 15728) pertanto, l’onere della prova avrà ad oggetto la mera non autosufficienza economica.

Posto questo iniziale e doveroso preambolo, ci affacciamo a illustrare come la sentenza in esame  è intervenuta a ribaltare un orientamento giurisprudenziale consolidato da quasi trent’anni, in base al quale il giudizio in merito all’adeguatezza dei mezzi economici del richiedente veniva compiuto con riferimento alla condizione socio-economica ed allo stile di vita della coppia all’epoca durante il matrimonio (Cass. civ., sez. I, 6 ottobre 2005, n. 19446) raffrontata all’attuale situazione economica.

Pacificamente infatti l’assegno divorzile, per lungo tempo, è stato determinato con la finalità di consentire al coniuge richiedente di continuare a perseguire gli standard di vita analoghi a quelli goduti in costanza di matrimonio. Pertanto, il paramento cui sì è fatto riferimento, sino ad ora, per valutare l’adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente è stato, appunto, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

La ratio della recente sentenza della Cassazione, di contro, parte dalla presa d’atto che il discioglimento del vincolo matrimoniale incide non solo sullo status personale dei coniugi – che tornano ad essere persone singole – ma anche sul piano dei loro rapporti economici.

Come anticipato, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, la Cassazione ha delineato un nuovo criterio interpretativo dell’art. 5 Legge 898/70. invitando il giudice a scindere l’accertamento  necessario al riconoscimento dell’assegno divorziale in due fasi distinte. Il coniuge richiedente, affinché ottenga l’attribuzione dell’assegno, deve necessariamente dimostrare la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma (fase dell’an), ossia la mancanza di mezzi adeguati e l’oggettiva impossibilità di procurarseli. Solo il positivo accertamento sull’an consente di accedere alla seconda fase, quella diretta alla determinazione della misura dell’assegno ossia alla  determinazione del quantum sulla base della posizione economico-patrimoniale del coniuge richiedente.

Si rende quindi necessario un accertamento volto alla ricostruzione complessiva della posizione patrimoniale e reddituale del coniuge richiedente per stabilire se, quella attuale, lo ponga in una condizione che gli impedisca, con i mezzi di cui dispone, di condurre una esistenza libera e dignitosa.

Per quanto attiene al presupposto dell’indipendenza economica, costituiscono parametri di riferimento: 1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri connessi e del costo della vita nel luogo di  abituale dimora del richiedente l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso, al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione.

L’indagine sull’impossibilità di procurarsi mezzi adeguati di sussistenza investe l’effettiva impossibilità di reperire mezzi tali da consentire il raggiungimento dell’autosufficienza economica, sulla base delle condizioni soggettive del richiedente (età, malattia, sesso…) e della effettiva e concreta capacità lavorativa da valutarsi tenendo conto di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi del caso di specie in relazione a ogni fattore economico, sociale, individuale, ambientale, territoriale (Cass. civ., sez. I, sent., 26 febbraio 1998, n. 2087)

E’ bene ricordare che a tale convincimento la Suprema Corte non è giunta all’improvviso ma che la svolta segnata dalla sentenza in esame è frutto di un percorso intrapreso tempo addietro con le sentenze dei giudici di merito.

Il passo decisivo lo si deve al Tribunale di Firenze che nel 2013 ha dato una sferzata a questo iter sollevando l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 5 L. n. 898/90 innanzi alla Corte Costituzionale sul convincimento che il riconoscimento a favore dell’ex coniuge di un assegno parametrato al tenore di vita violasse il principio costituzionale di ragionevolezza.

A fondamento dell’eccezione il Tribunale aveva rilevato, tra il resto: 1) una contraddizione logico giuridica fra l’ “istituto del divorzio che ha come scopo proprio quello della cessazione del matrimonio” e il riferimento al tenore di vita che, di fatto, lo prolunga oltremodo; 2) il prolungamento dei vincoli economici derivanti da un matrimonio che non esiste più; 3) un interpretazione del matrimonio (e del divorzio) non adeguata ai mutamenti sociali nel frattempo intervenuti; 4) il  contrasto tra l’art. 5 l. n. 898/1970 (così come interpretato), la normativa europea e i Principles elaborati dalla Commissione Europea sul diritto di famiglia.

La Corte Costituzionale ha respinto la questione (Corte Cost., 11 febbraio 2015, n. 11)  rilevando come “il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile” ma solo uno degli altri criteri indicati dall’art. 5 Legge 98/70 che egualmente incidono nella determinazione dell’assegno.

La sentenza del Tribunale di Firenze non è rimasta priva di conseguenze in quanto tanto la Suprema Corte quanto i giudici di merito ne hanno riproposto le questioni giuridiche e la ratio argomentativa.

Tuttavia a segnare la svolta definitiva è stata la sentenza che qui ci occupa.

Nell’elidere dal discorso intorno all’assegno di divorzio il riferimento al “tenore di vita” come termine di paragone rispetto al giudizio di adeguatezza/inadeguatezza, la Corte ha seguito un iter logico preciso. Il tenore di vita caratterizza una situazione (il matrimonio) che, per effetto del divorzio, è venuta meno, cosicché non avrebbe senso perpetuare all’infinito un vincolo economico che, in questo modo, sarebbe la proiezione di un vincolo solidaristico cancellato.

Rimangono tuttavia alcune perplessità.

In primo luogo la Corte sembra essersi sostituito al legislatore attribuendo alla Riforma del 1987 una portata innovativa ben maggior di quella che effettivamente è possibile riconoscerle.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con  la pronuncia n. 11490-11492 del 1990, nel riconosce la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio tuttavia non sganciò il diritto dal parametro del tenore di vita in quanto non intravide, nella riforma del 1987, la volontà del legislatore di superare questa dicotomia. La giurisprudenza di legittimità, infatti, pur prendendo atto della modifica del 1987, rilevò che il legislatore non aveva fornito un criterio nuovo per quantificare l’assegno stesso e pertanto affermò che potevano continuare ad applicarsi i criteri precedentemente vigenti, dando vita ad un sistema misto.

In particolare la Corte affermò che tale superamento avrebbe potuto verificarsi solo se la modifica “fosse stata approvata nel testo predisposto dalla Commissione Giustizia del Senato, nel quale l’adeguatezza dei mezzi era quella atta a consentire un “dignitoso” mantenimento, e cioè un livello non rapportabile a quello anteriore, conseguito in costanza di matrimonio, ma che doveva essere apprezzato secondo un criterio autonomo di sufficienza, evidentemente da commisurare alle esigenze e condizioni particolari del coniuge richiedente, in modo da assicurare un tenore di vita “normale” per soddisfare quelle esigenze e tener conto di quelle condizioni. L’iniziale formulazione del testo è stata – però – abbandonata in sede di approvazione della norma la quale non può più essere letta come se ancora contenesse il riferimento al “dignitoso” mantenimento.”

Di contro, la sentenza della Cassazione che qui esaminiamo non è riuscita a fornire argomentazioni altrettanto solide e tali da giustificare un’interpretazione così radicalmente lontana dal testo di legge.

Pur riconoscendo che la cancellazione del tenore di vita come parametro del giudizio di adeguatezza/indadeguatezza abbia una giustificazione condivisibile, allo stesso tempo è altamente legittimo il timore che ciò rischi di dare adito a situazioni di ingiustizia sociale in cui è proprio il soggetto debole del rapporto matrimoniale a non essere adeguatamente tutelato.

Piuttosto che un’elisione tout-court sarebbe più opportuno che i giudici di merito prendessero in considerazione tutti i criteri di determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento, fornendo una argomentazione puntuale e motivata, in modo da poter valutare caso per caso se il riconoscimento del diritto de quo rispecchi correttamente quella funzione assistenziale attribuita dalla norma.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli

Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Lo status di figlio – tra favor veritatis e favor legitimitatis

Il padre biologico e l’azione di disconoscimento

 

Nell’ordinamento italiano l’istituto della filiazione è disciplinato prevalentemente nel Codice Civile, al titolo VII del libro I, agli artt. 231 – 290 c.c..

Il  nostro sistema giuridico prevede una serie di azioni giudiziali relative allo stato di figlio volte ad accertare la posizione giuridica della persona in rapporto ai suoi genitori, dunque sia per reclamare lo status di figlio, sia per contestarlo. La riforma della filiazione intervenuta tra il 2012 e il 2013 con la Legge n. 219/2012 ed il decreto legislativo n.154/2013 ha informato la disciplina al principio della unicità: lo stato giuridico di figlio è unitario (art. 315 c.c.), indipendentemente dal fatto che il progetto genitoriale si sia realizzato all’interno di una coppia legata da un vincolo coniugale o meno. In forza di tale principio tutte le forme di filiazione riconosciute dal nostro ordinamento (all’interno del matrimonio, fuori del matrimonio, adottiva) godono della medesima considerazione, relativamente alle situazioni giuridiche soggettive imputate al figlio ed alla sua posizione nella rete formale dei rapporti familiari (art. 74 c.c.). Ad una riconosciuta pluralità di stati familiari e di coppia si contrappone dunque l’unicità dello stato di filiazione (per cui “tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico”) che ha eliminato la differenziazione tra figli naturali (nati fuori dal matrimonio) e figli legittimi (nati al suo interno).

Tutta la disciplina è ispirata dalla ricerca di un bilanciamento tra due principi: il favor veritatis ed il favor legitimitatis.

La ricerca di tale equilibrio ha, come logico, informato anche gli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione dove si è assistito al susseguirsi di oscillanti orientamenti.

Nello specifico, la Cassazione ha dapprima affermato il principio secondo il quale la verità biologica del concepimento costituisce solo uno degli elementi da tenere in considerazione per valutare la corrispondenza della azione di disconoscimento della paternità all’interesse del minore (Cass. 22 dicembre 2016, n. 26767), successivamente, ha sancito il principio secondo il quale l’accertamento della verità biologica ha carattere di preminenza, in quanto strettamente legato alla tutela dell’identità personale del figlio (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4020). Di recente, con la pronuncia del 3 aprile 2017, n. 8617 la Cassazione è tornata sui suoi passi, sancendo la necessità di valutare la corrispondenza all’interesse del minore della rimozione dello stato di filiazione acquisito alla nascita.

La sentenza in esame, nello specifico, tiene conto dei principi che governano l’accertamento della filiazione, anche alla luce della recente Riforma del 2012-2013, delle indicazioni provenienti dall’ordinamento sovrannazionale, sia internazionale che europeo, e risente dei progressi registrati sul piano tecnico e scientifico, che determinano un elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini sul DNA

Il diritto al riconoscimento di uno status filiale che corrisponda alla verità biologica trova le fondamenta nel fatto che l’identità genetica costituisce un elemento essenziale del diritto all’identità personale sancito negli art. 30 commi 1 e 4 della Costituzione Italiana e nell’art. 8 CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare. (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4020).

Alla luce di ciò, la Cassazione ha riconosciuto al figlio il diritto (e la facoltà) di mantenere il cognome di cui era precedentemente titolare se questo rappresenti un tratto distintivo della sua identità personale e ciò in quanto il cognome ha perso col tempo quella dimensione legata all’ordine pubblico per assumere la connotazione di un bene legato alla persona.

Allo stesso tempo, vi sono pronunce della Cassazione che, sempre richiamandosi alla Costituzione, alla CEDU e all’art. 24 comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE, sostengono che  la ricerca della verità biologica non gode di una preminenza assoluta, in quanto, nell’ottica di perseguire il superiore interesse del minore, è opportuno anche riconoscere una rilevanza alla certezza ed alla stabilità di quei rapporti affettivi sviluppatisi all’interno della famiglia in quanto anche su di essi si costruisce l’identità di figlio e non solo sul dato genetico. (tra le altre, Cass. 22 dicembre 2016, n. 26767).

La volontà del legislatore di perseguire un equilibrio tra l’interesse al mantenimento dello status di figlio e l’accertamento della verità della procreazione trova conferma nella vigente normativa in cui si prevede l’imprescrittibilità delle azioni di stato per il figlio che, in ogni tempo – anche da minorenne se rappresentato dal curatore – può decidere se proporle. Mentre prevede termini decadenziali per i genitori, seppure con opportuni distinguo.

Tra le sentenze che hanno dato il loro più significativo contributo alla questione rileva la n. 4020/2017, emessa all’esito di un procedimento instaurato con la richiesta da parte del sedicente padre biologico della nomina di un curatore speciale per il figlio minore affinché questi promuovesse azione di disconoscimento della paternità nei confronti del padre non biologico, ma coniugato con la di lui madre. Le circostanze portate a sostegno si fondavano sulla relazione che il sedicente padre biologico aveva intrattenuto con la madre del minore nel periodo del concepimento dello stesso. Il Tribunale, pur dichiarando inammissibile l’intervento in causa del sedicente padre biologico, con sentenza definitiva, giungeva a dichiarare che il minore non era il figlio del padre non biologico, marito della madre; decisione che veniva confermata anche in sede di appello.

La Corte di Cassazione con la suddetta sentenza ha confermato il ragionamento dei giudici di merito in quanto l’azione di disconoscimento di paternità proposta dal curatore speciale del minore infraquattordicenne era fondata sull’esistenza di una relazione sessuale, tra il sedicente padre biologico e la madre del minore nel periodo del concepimento dello stesso, confermata da tutte le parti in causa, nonché in forza della consulenza tecnica biologica che aveva accertato la non paternità del marito relativamente al figlio.

Con la sentenza in esame, la Corte sostanzialmente afferma che il favor veritatis non collide con il favor minoris in quanto la verità biologica costituisce una componente fondamentale dell’interesse del minore a veder garantito il diritto alla propria identità ed al riconoscimento di un rapporto di filiazione fondato sulla verità.

Inoltre, la Cassazione rileva che la sussistenza di un interesse del minore a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità avviene all’interno del procedimento che conduce alla nomina di un curatore speciale, non già nel momento dell’esame del merito della vicenda in quanto manca qualsiasi riferimento normativo in tal senso e risulta un’inutile duplicazione.

Molteplici sono le perplessità a riguardo. Innanzitutto, la nomina del curatore avviene con procedimento camerale definito con decreto motivato ai sensi dell’art. 737 c.p.c. Le sommarie informazioni da acquisire, nel caso che l’istanza provenga dal PM per il figlio infraquattordicenne, riguardano l’opportunità o meno di nominare un curatore che promuova l’azione di disconoscimento in nome e per conto del minore. Tuttavia appare evidente come, data la delicatezza della materia, l’interesse del minore possa essere effettivamente valutato solo all’esito di un giudizio di cognizione piena, e non all’esito di “sommarie informazioni” costituisce una fattispecie obbligatoria.

Pertanto, l’unico momento utile nel quale è possibile effettivamente valutare l’interesse del minore ad essere disconosciuto si verifica nel corso del giudizio di merito e non prima, all’interno del procedimento che conduce ad una nomina che avviene per legge.

Infine merita una riflessione la mancata previsione legislativa che legittima l’azione di disconoscimento da parte del padre naturale.

Il padre naturale può accertare il rapporto di filiazione naturale solo se prima è stato rimosso lo stato di figlio “matrimoniale” contrario alla verità biologica da parte dei soggetti indicati dall’art. 243 bis c.c. (madre, padre e figlio).

L’unico strumento riconosciuto al padre biologico è quello ex art. 244, u.c., c.c., ossia la possibilità di rivolgersi al PM affinché domandi la nomina di un curatore speciale che promuova il disconoscimento.

Nel caso oggetto d’esame è stato consentito al sedicente padre biologico di attivare un’azione che non è legittimato a promuovere direttamente ma che, per il mezzo di un curatore speciale, può promuovere senza limiti di tempo. La conseguenza ulteriore è che tale impostazione consente al PM di intervenire in maniera decisiva nei delicati assetti familiari in virtù del principio del favor minoris che, così come impostato dalla sentenza n. 4020/2017 trova ragion d’essere solo se si attribuisce preminenza alla conoscenza della verità ad ogni costo.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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La Legge Cirinnà sulle Unioni Civili

Lo scioglimento dell’unione e il diritto al mantenimento del partner più debole.

 

Dopo un lungo e travagliato iter parlamentare anche l’Italia si è dotata di una legge che permette a due cittadini dello stesso sesso di godere di diritti che, prima, era riservati alle sole coppie eterosessuali. L’introduzione del nuovo istituto nasce dalla necessità di rispondere alle pressioni interne, derivanti dalle plurime sentenze della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, e da quelle esterne, non solo quindi la legislazione europea ma anche le sentenza di condanna inflitte all’Italia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in ordine all’opportunità di riconoscere anche alle coppie dello stesso sesso un nucleo di diritti indiscutibili.

La legge n. 76/2016, meglio nota come Legge Cirinnà, al comma 11 dell’art. 1, prevede espressamente la costituzione della cosiddetta unione civile, con cui le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono gli stessi doveri. Si tratta di una disposizione analoga a quella che l’art. 143, comma 1,  c.c. prevede per il matrimonio, come diretta emanazione dell’art. 29 Cost., in base al quale il matrimonio si basa sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

Tuttavia tra l’unione civile ed il  matrimonio sussistono peculiari differenze in relazione agli specifici doveri che sorgono dal vincolo. Come è noto, il comma 2 dell’art. 143 c.c. riconduce al matrimonio gli obblighi di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione nell’interesse della famiglia e coabitazione, di contro, il comma 3 dell’art. 1 della nuova legge prevede per entrambi gli uniti il dovere di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alla propria capacità di lavoro, professionale o casalingo. Si vede, quindi, come la legge non contempla, dunque, i doveri di fedeltà e di collaborazione, facendo solo riferimento, all’interno dell’unione civile, agli obblighi di assistenza e coabitazione. L’obbligo di fedeltà ha assunto, col tempo, un significato affievolito al punto che la giurisprudenza, nell’occuparsi dell’addebito della separazione in relazione alla sua violazione, ha richiesto la prova che l’adulterio abbia determinato la crisi coniugale e, dunque, l’intollerabilità della convivenza. Dalla mancata previsione di detto obbligo all’interno dell’unione civile non consegue che le parti non debbano considerarsi vincolate dall’impegno di un progetto condiviso ma detto impegno viene incanalato, appunto, nel quadro di un più generale dovere di assistenza materiale e morale. Nell’unione civile manca altresì il riferimento al dovere di collaborazione nell’interesse delle famiglia che, tuttavia, può essere ricondotto nel più generale obbligo di assistenza morale e materiale in proporzione alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo. Si legge, in questo passaggio, un chiaro riferimento ad un nuovo modello di famiglia in cui non è più concepibile la netta distinzione di ruoli (lavorativo e casalingo) che non appartiene più alla nostra epoca.

Un’ulteriore e rilevante differenza rispetto al vincolo coniugale e comunque strettamente connessa alla natura dei doveri che scaturiscono dall’unione civile è che la legge Cirinnà esclude la fase della separazione quale momento prodromico allo scioglimento dell’unione civile. In base ai commi 22, 23 e 24 dell’art. 1 della legge, l’unione civile si scioglie per alcune cause previste dalla legge sul divorzio (ad eccezione, in primis della pregressa separazione, non configurata), ma anche per dichiarazione, congiunta o disgiunta, di sciogliere l’unione stessa.

La mancata previsione della separazione preclude la possibilità che venga accertato l’addebito della crisi della coppia in caso di inottemperanza degli obblighi previsti.

Tuttavia, la violazione di quel reciproco impegno sancito per legge non resta senza conseguenze in quanto, sebbene non configuri un addebito, può certamente costituire motivo di risarcimento del danno da illecito endo-familiare, ove compromessi quei diritti – quali la salute, reputazione, libertà personale  – costituzionalmente garantiti. La giurisprudenza ha infatti ritenuto configurabile detto illecito, in presenza di condotte del coniuge contrastanti con i doveri che derivano dal matrimonio in quanto detti doveri si considerano espressione di principi generali di rispetto e solidarietà operanti anche all’interno di una convivenza more uxorio e dunque direttamente riconducibili all’impianto costituzionale e non quale mero rinvio all’art. 143 c.c. (Cass. 20 giugno 2013, n. 15481).

Non solo, le ragioni dello scioglimento dell’unione civile rilevano ai fine della determinazione dell’assegno “divorzile” che dovesse essere liquidato nella ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 5 l. n. 898/1970, in quanto la legge prevede tra i vari parametri di cui il giudice deve tenere conto nella quantificazione dell’assegno, rientrano pure “le ragioni della decisione”.

In effetti, la Legge n. 76/2016 – rinviando alle disposizioni vigenti in tema di matrimonio “per quanto compatibili” – al comma 25 dell’art. 1 regolamenta le possibili conseguenze di natura economica che possono derivare in capo ai soggetti di una unione civile nel caso di disgregazione.

E’ indubbio, pertanto, che la legge abbia voluto riconoscere al soggetto debole di una unione civile le medesime garanzie previste per il coniuge debole. Tuttavia la evidente non equiparabilità dell’unione rispetto al matrimonio non può non avere conseguenze sotto il profilo dell’an e del quantum dell’assegno spettante al soggetto debole dell’unione.

Relativamente all’an, al momento dello scioglimento dell’unione civile, il Tribunale adito può stabilire l’obbligo per uno degli uniti di somministrare periodicamente al partner un assegno quando quest’ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Non si tratta, pertanto, di una attribuzione automatica ma condizionata all’accertamento dell’assenza, in capo al soggetto richiedente l’assegno, di mezzi adeguati a garantirne il mantenimento o dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive che dovrà essere valutata in concreto, tenuto conto delle condizioni soggettive (età, malattia) del richiedente alla luce di fattori economici, sociali, individuali, e territoriali.

Una volta accertata la sussistenza del diritto, la misura della relativa contribuzione verrà poi determinata considerando: a) le condizioni delle parti dell’unione; b) le ragioni della decisione; c) il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune; d) il reddito di entrambi, il tutto parametrato in relazione al criterio temporale della e) durata dell’unione civile.

E’ importante sottolineare come il riferimento al parametro c) consente di annoverare a tutti gli effetti l’unione civile in un concetto lato di famiglia, bene distante dall’accezione tradizionalmente intesa. Probabilmente alcune criticità emergeranno, di contro, rispetto ad altri due elementi: quello della durata dell’unione e quello delle ragioni dello scioglimento.

Infatti, se rispetto al criterio temporale, i giudici non potranno non far riferimento alla durata legale del vincolo, ci si chiede quale valore verrà attribuito, in sede di quantificazione dell’assegno, alla convivenza intervenuta prima della formalizzazione del vincolo, considerato l’enorme ritardo con cui il legislatore italiano è intervenuto a riconoscere le coppie same-sex.

Con riguardo poi alle “ragioni della decisione”, tale parametro – a prima lettura – potrebbe risultare incompatibile con la mancata previsione di un preventivo giudizio di separazione in cui venga valutata l’eventuale “colpa” per il dissolvimento dell’unione civile. Tuttavia, il parametro è congruente se considerato come meramente funzionale alla quantificazione della misura dell’assegno, per ricostruire una verità storica e non la colpa dell’eventuale obbligato. Il legislatore italiano, verosimilmente, non ha voluto introdurre nessun surrogato di accertamento di addebito per colpa sulla falsariga del divorzio in quanto il riferimento a tale parametro ha solo lo scopo di ricostruire le condotte dei singoli all’interno dell’unione civile per attenuare il diritto alla percezione di contributo economico ancorché tali apporti non vi siano stati in materia reciproca.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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Scioglimento anticipato della comunione legale

Separazione dei coniugi: quando si ha lo scioglimento anticipato della comunione dei beni?

 

L’ingresso nel nostro ordinamento della legge 55/2015 la cosiddetta legge sul “divorzio breve” oltre a ridurre i termini i termini per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ha portato una seconda novità che riguarda lo scioglimento anticipato della comunione legale.

L’art. 2 modifica l’art. 191 c.c. inserendo un’ulteriore comma che prevede lo scioglimento della comunione legale: in caso di separazione giudiziale, nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, in caso di separazione consensuale, dalla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione dei coniugi dinanzi al presidente, purché successivamente omologato.

Fino ad oggi la comunione legale si scioglieva con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale o del decreto di omologa della separazione consensuale.

Lo scioglimento ha efficacia ex nunc, quindi non retroagisce fino al momento della domanda di separazione personale.

Questa modifica legislativa consente pertanto ai coniugi di definire fin da subito i rapporti patrimoniali tra coniugi in regime di comunione legale evitando così una serie di situazioni negative: che il patrimonio comune rimanesse immobilizzato, almeno per tutta la durata del giudizio di 1° grado per la separazione giudiziale, se non addirittura per altri due gradi di giudizio;  che gli acquisti compiuti da un solo coniuge in questo lasso di tempo potevano cadere in comunione, anche se i coniugi ormai non coabitavano più ed era venuta meno la comunione morale e spirituale che li univa; che un coniuge potesse disporre dei beni comuni sottraendo sostanze al patrimonio familiare.

A tal proposito lo stesso articolo della legge di riforma stabilisce che l’ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini dell’annotazione dello scioglimento della comunione sull’atto di matrimonio.

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
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Divorzio: dopo quanto tempo posso richiederlo

Quanto tempo deve trascorrere dalla separazione prima di poter chiedere il divorzio?

 

Con l’ingresso nel nostro ordinamento della legge 55/2015 la cosiddetta legge sul “divorzio breve” il legislatore ha ridotto i termini per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Se prima della riforma occorreva attendere 3 anni a decorrere dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale nella procedura di separazione personale, oggi l’art 1 della nuova legge stabilisce che:

1. Se c’è stata una separazione giudiziale

si riduce da tre anni a dodici mesi il termine per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

2. Se c’è stata una separazione consensuale, anche nel caso in cui c’è stata trasformazione da giudiziale in consensuale:

si riduce a sei mesi il termine per la presentazione della domanda diretta ad ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Perché la separazione consensuale abbia effetto è necessaria sia omologata dal Tribunale che provvede in camera di consiglio su relazione del Presidente.

In entrambi i casi :

  • il termine decorre dalla comparsa dei coniugi di fronte al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale;
  • resta in piedi il requisito della durata della separazione, protrattasi ininterrottamente nel periodo richiesto per la proposizione della domanda, resta in vita.

Va detto che nel caso in cui venga a verificarsi un’interruzione della separazione, e il coniuge convenuto non voglia divorziare, spetta alla parte convenuta formulare  tale eccezione.

3. Se c’è stata separazione raggiunta a seguito di convenzione di negoziazione assistita

Anche in questo caso, pur non essendo specificato nel testo di legge, il termine è di sei mesi che decorre dalla data certificata nell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da avvocati ovvero

dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale dello stato civile.

L’art. 3 della legge, infine, disciplina la fase transitoria e prevede che tali norme si applicano alle domande di divorzio proposte dopo l’entrata in vigore della legge, anche quando sia pendente a tale data il procedimento di separazione personale che è presupposto della domanda.

Riferimenti normativi

Legge 55/2015 (divorzio breve)

Articolo 1
1. Al secondo capoverso della lettera b) del numero 2) dell’articolo 3 della legge 1o dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, le parole: «tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale» sono sostituite dalle seguenti: «dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale».

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984.presso l’Università Federico II di Napoli
Nel 1988 ha fondato  lo Studio Legale Senatore che svolge la propria attività nel settore civile.
La sua solida formazione professionale, consolidata da una vasta esperienza nell’ambito del contenzioso, gli ha permesso di dedicarsi, con particolare attenzione, agli aspetti riguardanti la materia del diritto di famiglia e delle successioni
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Coniuge divorziato e TFR

Una donna già separata legalmente dal marito ha diritto a richiedere, in sede di divorzio, una percentuale del TFR percepito dal marito prima della richiesta di divorzio?

 

La risposta è negativa.

L’art. 12 bis l. n. 898/1970 prevede che solo il coniuge titolare di un assegno di divorzio possa chiedere e ottenere il 40% dell’indennità totale di fine rapporto percepita dall’altro coniuge e riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.

La giurisprudenza, in maniera uniforme, ha interpretato la norma nel senso di ritenere che l’ex coniuge cui sia riconosciuto un assegno di divorzio ha diritto alla quota del TFR, come sopra calcolata, solo se e quando questo è stato percepito dopo l’instaurazione del giudizio di divorzio (Cass. civ. 29 ottobre 2013, n. 24421Cass. 14 novembre 2008, n. 27233 )

Del resto qualora l’ex coniuge abbia percepito il TFR,  dopo la separazione ma prima del deposito del divorzio, in sede divorzile si terrà conto di questa circostanza  ai fini delle capacità economiche dell’obbligato all’assegno (Cass. 10 marzo 2005, n. 5283 ; Cass. civ. 29 luglio 2004, n. 14459)

Conseguentemente nel caso in esame nel quale il marito ha percepito  l’indennità di fine rapporto dopo la separazione ma prima del deposito del divorzio, la moglie non avrà alcun diritto sul TFR percepito dal marito, il cui importo dovrà, però, essere correttamente valorizzato – in concorso con gli altri elementi di cui all’art. 5 ln. 898/1970 – nel giudizio sull’an e sul quantum dell’assegno di divorzio.

Riferimenti normativi :

* Art. 12-bis. l.n. 898/1970

  1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
  2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio

* Art. 5. l.n. 898/1970

  1. Il tribunale adito, in contraddittorio delle parti e con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, accertata la sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 3, pronuncia con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ed ordina all’ufficiale dello stato civile del luogo ove venne trascritto il matrimonio di procedere alla annotazione della sentenza.
  2. La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del matrimonio.
  3. Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.
  4. La decisione di cui al comma precedente può essere modificata con successiva sentenza, per motivi di particolare gravità, su istanza di una delle parti.
  5. La sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti. Il pubblico ministero può ai sensi dell’art. 72 del codice di procedura civile, proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
  6. Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.
  7. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione.
  8. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico.
  9. I coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria.
  10. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.
  11. Il coniuge, al quale non spetti l’assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell’ente mutualistico da cui sia assistito l’altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze .

Alessandro Senatore, nato a Napoli il 7 giugno 1959, avvocato patrocinante presso la Suprema Corte di Cassazione, si è laureato in giurisprudenza nel 1984 presso l’Università Federico II di Napoli.
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Mediatore Sistemico Familiare presso l’Istituto di Psicologia e Psicoterapia Relazionale Familiare (ISPPREF ) di Napoli è fautore della mediazione, come pratica efficace per la soluzione dei conflitti
Consigliere del Presidente dell’UIA (Unione Internazionale degli Avvocati) nel 2014/2015 è da anni componente della Commissione di Diritto Matrimoniale di questo importante organismo internazionale.

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